Na bèla mùtria, o grinta! – Il bartitsu! – Perché i corvi hanno le penne nere! – I gallesi! – Sborgnura! – Acete. – Apriscatole… – Ambaradan!…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Na bèla mùtria, o grinta!
La parola mutria in piemontese vuole dire faccia tosta ma anche viso accigliato e deriverebbe dal greco mutron, muso, ceffo, da li derivano il provenzale mòutria e il lombardo mutria. La frase del titolo prende un modo di dire piemontese, di avere una bella faccia tosta oppure di avere forza e decisione. La parola grinta dal gotico grimmitha, che fa paura, deriverebbe da grimus tremendo, irato, che permane nel lemma lombardo grim arrabbiato. Alcuni lo collegano a grinza, forse dal longobardo grimmison corrugare la fronte. La grinta parte con una caratteristica decisamente guerresca, violenta, truce, ma fortunatamente piano piano la parola si è conquistata la luce, acquisendo i connotati attuali nell’Ottocento per indicare uno spirito risoluto dotato di polso incisivo che affronta la vita con forza e decisione. Di qui il significato attuale in italiano di decisione, determinazione o spirito agonistico, nelle espressioni avere grinta, di essere grintoso, pieno di grinta e che solo marginalmente continua a poter indicare ghigni truci e poco rassicuranti. Nella vita lungo i bivi del quotidiano sentiero incontro le altre vite, conoscerle o non conoscerle, viverle a fondo o lasciarle perdere dipende soltanto dalla scelta che faccio in un attimo; anche se non ne sono consapevole, a volte tra il proseguire dritto o deviare spesso si gioca la mia esistenza ,e anche quella di chi mi sta vicino. E’ appunto nel momento delle decisioni che si plasma il mio destino e a volte oltre alla giusta grinta a volte non guasta avere una giusta dose ‘d na bèla mùtria!
Favria, 13.10.2020 Giorgio Cortese

La pazienza, la persistenza e il sacrificio per quello che compiamo costituiscono una combinazione imbattibile per il successo.

Il bartitsu!
Tra l’Ottocento ed l’inizio del Novecento come difendersi da un malintenzionato nel confuso brulichio di una città e soprattutto, come farlo senza perdere l’aplomb, rischiare di sdrucire il colletto inamidato, o far perdere la piega ai baffi? Ovviamente imparando a usare il bartitsu, il bastone da passeggio, surrogato della spada, ormai finita al museo per essere rimpiazzata da un nuovo strumento virile, che non solo ne riproduceva la sagoma, ma a volte perfino l’antica funzione di arma di difesa. Il fedele compagno in legno del gentiluomo d’inizio secolo scandiva il passo di un’andatura elegante e controllata, completando lo slancio verticale impresso alla figura da soprabito e tuba, ma all’occorrenza da oggetto ornamentale sapeva trasformarsi in arma, capace di togliere il possessore da sgradevoli ostacoli. Erano anni in cui i centri urbani conoscevano la prima e disordinata esplosione demografica, le strade cittadine non erano meno pericolose che nei secoli addietro. Le vie erano battute notte e giorno dall’umanità più varia e al distinto signore a passeggio, di ritorno dal lavoro o diretto al circolo, poteva capitare di inciampare in ladri o rapinatori. Non avendo altre armi con le quali difendersi, non restava che sporcarsi le mani o far saettare il bastone, tanto più utile se l’energumeno di turno agitava un coltello. In quei burrascosi anni le volonterose forze di polizia dovevano prendere di nuovo le misure alla folla che occupava strade e piazze per tornare padrona del territorio urbano. Nell’attesa, i gentiluomini che potevano permetterselo andarono a lezione di autodifesa. Bisogna dire che la scherma con il bastone era nata in Italia tra Quattro e Cinquecento, inizialmente come esercizio preparatorio a spada e sciabola, quindi come disciplina a sé stante, esportata con successo in altri Paesi europei ed in Francia, il bastone diventò la canne ed ebbe un immediato successo. In Italia esisteva una tradizione di antichi maestri d’armi italiani, che in epoca rinascimentale pubblicarono preziosi trattati dell’arte del bastone. Il rinnovato fervore attorno al bastone e la sua capillare diffusione lo trasformarono presto in una singolare arma da difesa personale e bastò attingere a piene mani ai maestri del passato e coniugare quegli antichi insegnamenti alle esigenze moderne, rimodellando posture e mosse al contesto di un duello urbano, e infine fonderli con i princìpi delle discipline orientali, che proprio allora facevano la loro comparsa in Europa. L’arte di maneggiare la canne con destrezza a scopo difensivo divenne il tema preferito di numerosi e apprezzati trattati, per sopravvivere alle trappole della metropoli e la sua efficacia venne propagandata dai resoconti giornalistici, a volte illustrati da fotografie con gentiluomini con baffi a manubrio e sguardo ardente. Questa disciplina dalla metà dell’Ottocento conobbe una nuova e insperata primavera e migliaia di praticanti nelle palestre delle società ginniche. Tale rinascita culminò nelle Olimpiadi di Saint Louis del 1904, dove, per la prima e unica volta, venne ammessa come esercizio dimostrativo. Nel bartitsu, che prendeva il nome dall’inglese Edward William Barton-Wright, ingegnere e imprenditore giramondo con la passione per le arti marziali Barton-Wright che faceva confluire in questa disciplina di autodifesa lotta con il bastone, per la quale ci si rifaceva ai principi della scuola di canne francese. Il nome bartitsu, era ottenuto dalla fusione del jujitsu, combattimento orientale ai cui fondamenti si era ispirato, con le iniziali del suo cognome. Se maneggiato con maestria, il bastone da passeggio poteva diventare un’arma efficace per tenere alla larga i malintenzionati con un colpo secco al viso o alla mano che impugnava il coltello e l’aggressione era sventata. Per chi, invece, voleva andare sul sicuro, aggirando le norme che impedivano di circolare in città armati, già a partire dal Cinquecento gli armaioli s’ingegnarono per occultare nel cavo del legno una lama, che una volta sguainata trasformava l’innocuo strumento da passeggio in una minacciosa spada. Nel bastone animato trovava generalmente posto uno stocco, spada a sezione triangolare o quadrangolare, molto robusta e appuntita, che occupava l’intero fusto in legno. Altri modelli celavano soltanto uno stiletto. Più pacificamente, il vuoto creato nel bastone venne spesso utilizzato dai gentiluomini a passeggio come vano segreto dove occultare sigari o fiale contenenti liquori. Per promuovere la sua invenzione Barton-Wright, compariva nelle riviste dell’epoca in duello con aitanti quanto impeccabili rivali in cravatta e bombetta nelle fotografie che illustravano l’efficacia della nuova disciplina per l’autodifesa. Questa disciplina divenne coì popolare che a Milano nel 1913 tra gli allievi di una palestra dove si insegnava a combattere con le canne vi erano anche i Vigili urbani, che all’epoca facevano del bastone uno strumento di deterrenza per il mantenimento dell’ordine pubblico.
Favria, 14.10.2020 Giorgio Cortese

La nostra quotidiana condanna che dobbiamo scontare è l’indifferenza del bene pubblico di nostri molti simili.

Perché i corvi hanno le penne nere!
Il poeta romano Ovidio racconta nelle Metamorfosi che in origine il corvo aveva le penne bianche candide come quelle di una colomba. Ma facciamo un passo indietro, narra il mito che Apollo, innamorato di Coronide, dovendosi assentare per un periodo di tempo, per recarsi a Delfi, la affidò in custodia a un corvo dalle penne bianche come la neve perché la sorvegliasse. Coronide era la figlia di Flegia, re dei Lapiti, viveva sulle rive del lago Beobi in Tessaglia, dove soleva bagnarsi i piedi. Secondo una tradizione, si chiamava in realtà Egla, ed era stata soprannominata Coronide, da Cornacchia, a causa della sua bellezza. La fanciulla, durante l’assenza del dio, si innamorò del giovane Ischi con cui tradì Apollo. Il tradimento, però, fu scoperto dal corvo che decise di avvertire immediatamente il suo padrone. Lungo la strada il corvo s’imbatté nella cornacchia, che cercò di dissuaderlo dal suo proposito raccontandogli di come lei stessa fosse stata punita da Minerva per averle rivelato il tradimento di una sua protetta. L’uccello, ignorando il consiglio della cornacchia, rivelò ad Apollo l’infedeltà dell’amata, scatenando l’ira del dio che, preso dalla collera, uccise Coronide trafiggendola con una freccia. La donna prima di morire gli rivelò di essere incinta di suo figlio, che, per colpa del suo gesto di collera, sarebbe morto insieme a lei. Pentito del suo gesto, Apollo tentò con ogni rimedio di riportare in vita Coronide; non riuscendoci, prima di porla sulla pira già accesa, estrasse il bambino dal suo ventre, primo esempio di estrazione di un neonato per parto cesareo e lo affidò al centauro Chirone. Al bambino fu dato il nome di Esculapio che in seguito, ereditando le doti curative paterne, sarebbe diventato il dio della medicina. In seguito Apollo per punire il corvo, colpevole di aver fatto la spia e di aver quindi determinato la morte di Coronide, trasformò il colore delle sue piume da bianche a nere. Attraverso il mito dunque si spiegherebbero, oltre all’origine del colore del piumaggio, anche le caratteristiche di esagerata loquacità e di portatore di cattivi presagi tradizionalmente attribuite al corvo. Il fatto è che bisognerebbe dar sempre retta alle sagge cornacchie. In realtà Apollo si era proprio scelto il maggiordomo sbagliato, come in un’altra circostanza, in cui il corvo tradì la fiducia del padrone. Un giorno infatti il dio lo mandò a prendere dell’acqua, ma il corvo, vedendo un albero carico di fichi maturi, invece di fare quello che gli era stato richiesto, si mise a beccare i frutti e si scordò del suo incarico. Apollo si arrabbiò un’altra volta e lo punì impedendogli di bere una goccia d’ acqua finché i fichi non saranno maturi! Perennemente assetato, con il suo gracchiare il corvo simula il gocciare della liquida sostanza che tanto vorrebbe inghiottire. Ma dal suo gracchio, dicevano ancora i Greci, bisogna guardarsi, perché in esso si nasconde un presagio di morte. Eccolo dunque il corvo, maggiordomo traditore di un dio, famiglio sciatto e perennemente assetato, delatore capace di provocare attorno a sé morte e sventura, proprio come il misterioso corvo del film di Clouzot. Come se non bastasse, i Greci sostenevano perfino che quest’ uccello, peraltro noto mangiatore di carogne, copulasse con la compagna attraverso la bocca, ulteriore indecente metafora della sua sciagurata loquacità. Chi mai vorrebbe prendere al suo servizio un personaggio del genere?
Favria, 15.10.2020 Giorgio Cortese

Nella vita non conta da dove veniamo, ma dove stiamo andando e il segreto per andare avanti è iniziare.

I gallesi!
I gallesi credono che il rugby sia lo sport giocato in paradiso. Vanno in campo con questa convinzione che li rende quasi immortali. Quando cantano l’inno, i giocatori piangono e il pubblico è in uno stato confusionale difficilmente descrivibile. Il Millenium Stadium di Cardiff è uno dei pochi stadi di rugby con una copertura mobile. Quando si gioca però il tetto rimane sempre aperto, sia con la pioggia sia con la neve. Il motivo? Avvisare in cielo che la partita sta’ per cominciare…
Favria, 16.10.2020 Giorgio Cortese

Se oggi non posso fare grandi cose, posso allora fare piccole cose in un modo fantastico.

Sborgnura!
Un concittadino parlando di avvenimenti a lui successi ha usato questa parola piemontese: sborgnura. A prima vista è simile a sborgnè accecare, recidere delle gemme. Ma sicuramente non è una borgnada, un tiro mal giocato e ben riuscito nel biliardo, una cosa che riesce per caso. No la sborgunra è molto di più, deriva dalla voce germanica born, cavità dell’occhio, in francese borgne, cieco monocolo. Bornio vuole dire cieco, da lì la parola sbornia, una persona ubriaca e per una volta tanto un lemma non influenzato dai vicini francesi dove ubriaco si scrive ivrogne, che deriva dal latino ebrium. Bisogna dire che dalla radice germanica born deriva anche il guardare di obliquo in maniera torva appunto come un ubriaco. In vari dialetti del nord Italia e anche in Ladino si dice sbòrnia. In Piemonte sborgnura indica anche il nome tradizionale di una compagnia di alpini assaltatori del battaglione Susa. E qui mi fermo se no poi mi date del borieul, asino in piemontese, dal latino burrum, per indicare animali rosso fuoco e da questa parola ecco, il borich che ha scritto il tutto.
Favria, 17.10.2020 Giorgio Cortese

Se compiano delle azioni quotidiane solo per un fine, non vogliamo arrivare allo scopo per cui agiamo, bensì lo scopo per cui le compiamo.

Acete.
Narra Ovidio nelle Metamorfosi che Dionisio, per i romani Bacco, fanciullo viene rapito ebbro dai pirati tirreni che non lo avevano riconosciuto. Il dio chiede di essere condotto all’isola di Nasso, sua dimora, ma i pirati lo ingannano navigando nella direzione opposta. Il timoniere Acete, che si affezionò al piccolo ostaggio, al punto che lo difese dalle violenze dei suoi complici cercando di dissuadere i compagni dai loro intento, ma viene deriso. Bacco, compreso l’inganno che gli era stato teso, si manifesta in tutta la sua potenza circondato da fiere facendo nascere dei rami d’edera tra i remi e un tralcio di vite dall’albero maestro, e che suscitò un tale panico nei suoi compagni da farli saltare in mare. Acete pregò Dioniso di salvare loro la vita ed il dio li trasformò in delfini. Dopo aver subìto questa metamorfosi essi si pentirono del male arrecato e dedicarono il resto della loro vita a portare in salvo coloro che cadevano in acqua. Le fonti ci hanno tramandato i nomi di alcuni compagni di Acete e quelli più ricorrenti sono Simone, Mela, Licabante, Libide ed Etalide. L’unico a salvarsi è Acete che diventerà un seguace del dio, verrà imprigionato da Penteo figlio di Agave e di Echione, che era uno degli Sparti nati dai denti del drago ucciso da Cadmo: divenne re di Tebe. Poiché la madre era sorella di Semele., Penteo era cugino di Dionisio, del quale però disprezzava il culto. Proprio questo determinò la sua fine, malgrado i cauti consigli del nonno Cadmo e gli ammonimenti dell’indovino Tiresia, Penteo volle opporsi ai riti orgiastici che giudicava sconvenienti, trattando Dionisio alla stregua di un impostore e di un ciarlatano. Avendo fatto prigioniero il giovane Acete, l’antico pirata della Meonia divenuto sacerdote di Dionisio, ne ordinò la condanna a morte ma intervenne il dio che liberò il suo seguace. Tentò allora di fare incatenare lo stesso Dioniso ma questi si liberò dai lacci e provocò l’incendio del palazzo reale. Per porre fine alla situazione, Penteo si recò di persona sul monte Citerione con lo scopo di sorprendere le donne di Tebe che partecipavano ai riti, ma esse lo scorsero nascosto tra le fronde di un pino e, in preda alla furia dell’estasi bacchica, si avventarono su di lui dilaniandolo a mani nude. La prima a infierire fu la madre Agave che, scambiandolo per un leone di montagna, gli staccò la testa che poi portò fieramente a Tebe conficcata in cima a un tirso. Secondo un’altra versione a Penteo furono prima mozzate le braccia e poi la testa. Talora Penteo è detto padre di Oclaso.
Favria, 18.10.2020 Giorgio Cortese

Ricordiamoci sempre che la nostra età non è solo quella anagrafica ma come noi la viviamo.

Apriscatole…
È un po’ la questione se è nato prima l’uovo o la gallina… Questione quanto mai attuale parlando dell’apriscatole e delle scatole che doveva aprire: infatti, mentre sappiamo bene che l’apriscatole è nato esattamente un secolo fa, sulla data che segna l’apparizione nel mondo del cibo conservato in contenitori di metallo vi sono pareri discordanti. Un dato è certo, prima dell’affermazione dell’apriscatole, trascorse mezzo secolo in cui la gente era obbligata ad usare qualunque strumento e attrezzo per cercare di liberare da quella schermatura metallica il contenuto che, nella prevalenza dei casi, era di carattere alimentare. Infatti, superata la fase in cui i cibi erano conservati in bottiglie, con l’affermazione, dal 1810, della classica scatola di metallo, per i consumatori di quei prodotti la vita divenne tutt’altro che facile: ognuno si ingegnava come poteva. Martelli e punte metalliche, con coltelli e anche accette erano sfruttati per infrangere quella corazza. Facile immaginare le scene: qualcosa di affine a Paperino o Wile E. Coyote sempre alle prese con l’apriscatole che si rompe proprio quando serve di più. Nel 1858, lo statunitense Ezra Warner volle mettere fine alla sofferenza di tanti suoi simili e lanciò sul mercato una lama ricurva che consentiva di aprire la dannata scatola con un procedimento in fondo abbastanza naturale: un sistema che finalmente non imponeva sforzi disumani ai consumatori. Quell’oggetto si chiamava bayonet, un nome che non era certo un caso, visto che venne creato per facilitare le attività legate al rancio dell’esercito nordista impegnato nella guerra civile. A questo punto ci sarà qualcuno che sottolineerà il ruolo della guerra nella creazione di innovazioni destinate a cambiarci la vita: su questo assunto si può discutere. Di certo l’apriscatole la vita è riuscito a cambiarcela. I più giovani, straviziati dalla comodità dell’apertura a strappo, non riescono neppure ad immaginare quale sforzo si doveva fare, fino a molto meno di mezzo secolo fa, per aprire una scatoletta. Termine, quest’ultimo, diventato sinonimo per acclamazione collettiva e destinato ad indicare qualunque cibo in scatola, da quella piccolissima di tonno a quella di fagioli. Qualche variazione sul tema era concessa alle scatole più grandi, ad esempio quelle di frutta sciroppata formato famiglia che venivano genericamente definite latte. L’apriscatole, prima di elettrizzarsi ed entrare far parte della schiera degli elettrodomestici e diventare indispensabile, praticamente solo nelle liste di nozze, ne ha fatta di strada. I primi, quelli costruiti sulla base del modello realizzato da Ezra Warner, sembravano attrezzi da scasso, oggetti che attualmente fanno parte dell’archeologia della cultura moderna. I meno giovani ricorderanno quelli semplicissimi, spesso dati in omaggio nei negozi alimentari e che erano costituiti da un pezzetto di solido lamierino dotato di un artiglio laterale sempre di metallo e molto appuntito. Questi consentiva un’apertura non sempre facile, una roba da adulti. Se qualcuno dei più piccoli voleva cimentarsi con quel micro strumento, doveva subirsi degli avvertimenti imperativi, del tipo: “ stai attento…aprila sul lavandino!”… Infatti la fuoriuscita dell’olio del tonno era una consuetudine alla quale solo i più abili, e con molte scatolette alle spalle, riuscivano a sottrarsi. Poi c’era l’apriscatole speciale per le scatole di sardine, aveva la forma di una chiave e operava in diagonale: un piccolo miracolo della micro-tecnologia che cessava di essere tale quando giungeva l’ora di recuperarla. Infatti una volta, quando l’usa e getta non era ancora una consuetudine, quelle chiavette non si gettavano via con la scatoletta, ma si doveva pazientemente svolgerle dal coperchio, unto e bisunto. Ma erano tempi in cui era normale recuperare: le scatolette per esempio. Venivano accuratamente scoperchiate, limati i bordi taglienti e utilizzate per metterci chiodi e viti. Quelle del caffè, dovevano essere le prime, se la memoria non mi inganna, ad avere l’apertura a strappo che lasciava il perimetro interno della scatola perfettamente levigato, erano le più ambite, soprattutto perché, in tempi più recenti, sono state dotate di un funzionale tappo di plastica, il salva aroma, recuperabilissimo… C’è stato anche il tempo dell’apriscatole, saldato sotto le scatolette, in genere quelle di carne, quando serviva bastava tirare un po’ e la saldatura cedeva, così quella chiavetta microscopica poteva essere inserita nella linguetta di metallo che, seguendo il roteare della chiavetta, via via sollevava una striscia di latta intorno a tutta la scatoletta che poteva essere aperta con facilità. In realtà era un’arma impropria. Era infatti facilissimo tagliarsi, comunque anche lei ha fatto il suo tempo. difficile dire quale sia il modello più funzionale. Comunque, c’è chi è convinto che l’apriscatole abbia in sé qualcosa di malvagio: non sia amico dell’uomo, ma cerchi con ogni mezzo di rendergli difficile un’operazione che spesso è semplice solo in apparenza. La sua cattiva nomea forse è anche dovuta al fatto che nei pic-nic riusciva sempre a farsi dimenticare a casa, costringendoci a mille trovate per aprire il tonn’. E così, in tanti ci siamo sentiti un po’ Wile E. Coyote, mentre parenti e amici ci guardavano sconsolati nell’attesa di condire l’insalata…
Favria, 19.10.2020 Giorgio Cortese

Non ci si libera di un problema evitandolo, ma soltanto affrontandolo per poterlo attraversare

Ambaradan!
Una mattina un cliente per esprime il suo stato d’animo ha usato la colorita espressione del titolo: “ambaradan “. Ho cercato nel vocabolario il significato “grande confusione, baraonda”, o anche oggetto complicato, impresa particolarmente complessa. Posso dire allora, con tono scherzoso: “che ambaradan in questa stanza, o non riesco a capire come funziona questo ambaradan, o manda avanti da solo tutto l’ambaradan della ditta.” La parola deriva probabilmente dal nome dell’Amba Aradam, un massiccio montuoso dell’Etiopia presso il quale, nel 1936, si svolse una sanguinosa battaglia fra le truppe italiane, che vinsero, e quelle abissine. È facile immaginare che la parola si sia diffusa non solo per l’impressione suscitata dai resoconti della battaglia, ma anche per l’effetto sonoro e insolito del nome. Un’altra parola legata al ricordo di una battaglia è caporetto, rimasta a lungo nei discorsi col significato di grave sconfitta, fallimento totale. In questo caso l’uso della parola nacque dal nome della città slovena di Caporetto, Kobarid, nella quale, nel 1917, l’esercito italiano subì una grave sconfitta da parte delle truppe austriache, e fu costretto a una drammatica ritirata. Da allora il nome del luogo entrò nel vocabolario italiano in frasi come fare caporetto, cioè scappare, fuggire a gambe levate, e il poeta Gabriele D’Annunzio, nel 1919 coniò l’aggettivo caporettaio, col significato di disfattista.
Favria, 20.10.2020 Giorgio Cortese

Ogni giorno nella vita, ogni fallimento è semplicemente un’opportunità per ricominciare in modo più intelligente.
giorgio_bici