BRENVEI IL NIDO D’AQUILA (VALPRATO SOANA) di Marino Pasqualone
Il sole dardeggiava caldissimo quel giorno di fine ottobre di qualche anno fa, che mi vedeva arrancare sull’erto e faticoso sentiero che sale, quasi verticale, dai 1342 metri della frazione Rouncèt (Ronchietto) ai 1629 della disabitata e già allora cadente borgata di Brenvéi (Brenvetto), a metà del vallone di Piamprato nel Comune di Valprato Soana.
Ad accompagnarmi in questo ennesimo pellegrinaggio lungo sentieri e villaggi dimenticati delle nostre montagne era il volo, indubbiamente fuori stagione, di alcune farfalle ingannate dal tepore inusitato, il rumoroso scivolare dell’acqua del vicino ruscello tra le rocce ed il soffio del vento, che strappava le ultime foglie dagli alberi di faggio e faceva ondeggiare i rami dorati dei larici.
Ed è proprio da questo tenace e resistente albero, che nel locale patois viene chiamato con il nome di “ brenva “, che questa minuscola borgata di Valprato prende il suo toponimo
Brenvéi : dunque una località con presenza di larici, anche perché lassù, oltre i milleseicento metri di altitudine, sono tra i pochi alberi d’alto fusto a poter sopportare il gelo e le bufere dell’inverno alpino.
E sì, perché Brenvèi, con i suoi 1629 metri di altezza sul livello del mare, era probabilmente la borgata abitata in modo permanente più “alta” dell’intera valle Soana: più ancora di Piamprato ed Andorina, più di Nivolastro e Fontana nel vallone di Servino.
Ma torniamo al Brenvèi valpratese, costituito da due nuclei di abitazioni con in mezzo la chiesetta di Santa Maria Maddalena e l’immancabile fontanella: quando quel giorno ci ero arrivato, sudato e ansimante sotto un sole implacabile, ecco la sorpresa di trovare il villaggio... “abitato” da innumerevoli pecore che mi osservavano stupite ed incredule, come se lassù la presenza umana fosse ormai così improbabile da apparire fuori luogo, quasi blasfema.
Ed eccomi, dunque, in questo nido d’aquila ben esposto al sole in ogni stagione, da cui lo sguardo può correre libero sul solco della valle fino al capoluogo di Valprato, e poi ancora su per i profili delle montagne verso Andurinà (Andorina) e Nolahtro (Nivolastro), la Cima Fer, la Rosta e le creste che dividono la Val di Forzo da quella di Ribordone, il silenzioso e magico vallone di Arlhèn (Arlens) con le cime più alte già imbiancate di neve.
Intorno alla borgata prati così ripidi che, mettendo un piede in fallo, potresti rotolare senza più fermarti fino alla strada asfaltata che si intravede già nell’ombra al fondo della valle, trecento metri più in basso.
Un sentiero dalla chiesetta porta tra quel poco che resta delle case di Brenvéi: la solita lancinante sequela di muri sbrindellati e di tetti divelti che si ripete uguale in molti, troppi, angoli delle nostre valli, una frana ormai inarrestabile che ha travolto tutto e tutti e di cui, checchè se ne dica con ottimismi fuori luogo e fuori dalla realtà, non si riesce ancora a scorgerne l’epilogo.
O meglio, l’epilogo si vede fin troppo bene, ed è il totale annientamento della presenza stanziale dell’uomo nelle borgate delle nostre montagne, se non addirittura in alcuni capoluoghi, con conseguente trasformazione di gran parte del territorio valligiano in un gigantesco “luna-park” ad uso dei cittadini.
Un futuro nel quale della tenace e indomita civiltà alpina, che forgiò montanari capaci di costruire e vivere in questi villaggi disegnati in luoghi incredibilmente impervi, non resteranno che reperti nei musei di fondovalle e ruderi sempre meno intelleggibili tra boschi e rupi ritornati inaccessibili e selvaggi.
Improvvisamente la tristezza di questo villaggio morto ma insepolto diventa insostenibile, e la giornata pur luminosissima non riesce più a fugare le ombre che si aggirano tra i viottoli pieni di macerie, che indugiano nelle cantine e nelle stanze dai soffitti cadenti: non mi resta quindi che ridiscendere a valle, riconsegnando Brenvéi a quel destino d’oblio che appare ormai ineluttabile.
Ma, arrivato alla strada, ecco che le borgate di Rouncét (Ronchietto) e Fontanètà (Fontanetta), pur con gran parte delle loro case restaurate e dotate di ogni moderna comodità, mi accolgono anch’esse con un desolante silenzio: case su case ma nessun “vero” abitante, ed anche qui il bosco e l’incolto stanno inghiottendo i prati ed i campi che erano l’unica magra risorsa dei montanari di un tempo.
Ed allora mi viene da pensare che il loro destino non è poi così diverso da quello toccato a Brenvéi che, trecento metri più in alto, brilla ancora nel sole di questo interminabile tramonto autunnale: l’unica differenza è che lassù la vita si è fermata per sempre, mentre quaggiù ancora se ne recita, per alcune settimane ogni anno, una sbiadita e pallida rappresentazione.
testo di Marino Pasqualone
immagini di Marta Deiro (aprile 2012)
DSCN9336 [1024x768] DSCN9339 [1024x768] DSCN9341 [1024x768] DSCN9343 [1024x768] DSCN9346 [1024x768] DSCN9350 [1024x768]
DSCN9356 [1024x768] DSCN9357 [1024x768] DSCN9358 [1024x768] DSCN9360 [1024x768] DSCN9368 [1024x768] DSCN9371 [1024x768]
DSCN9382 [1024x768] DSCN9384 [1024x768] DSCN9394 [1024x768] DSCN9399 [1024x768] DSCN9401 [1024x768] DSCN9402 [1024x768]