In un'unione perfetta l'uomo e la donna sono come un arco teso.

Chi può dire se sia la corda a piegare l'arco o l'arco a tendere la corda? Eppure, arco maschile e corda femminile sono in armonia e la freccia può essere collocata. Con la corda staccata, l'arco penzola inutile; la corda ciondola inerte

 

Adeste fidelis læti triumphantes

Non c'é coro che non abbia nel repertorio natalizio questo an­tico canto, almeno in una delle numerose armonizzazioni che ne sono state fatte. E non c'é chiesa nella quale l'intera Assemblea non lo canti a gran voce il giorno di Natale, mettendo magari qualche "S" in più alla fine di ogni versetto.  Da secoli Adeste fideles canta il mistero dell'Incarnazione, questo canto  natalizio non ha una paternità sicura dell’autore, insomma un nome preciso. L'unica certezza che emerge dalla documentazione esistente è il nome del copista, cioè di colui che trascrisse materialmente il testo e la melodia, sir John Francio Wade,  che lo avrebbe trascritto da un tema popolare irlandese nel 1743-1744 per  l'uso di un coro   cattolico, a Douai, vicino a Calais, cittadina nel nord della  Francia, a quel tempo importante centro cattolico di riferimento e di rifugio per i cattolici perseguitati dai protestanti nelle Isole britanniche. Il testo del canto è costituito da otto strofe di cui solo la I, V, VI e VII furono trascritte da Wade. Le strofe II, III e IV vennero composte da  Etienne Jean Francois Borderies nel 1794 e  un'VIII da un anonimo. Molto famosa è anche la versione in lingua inglese, intitolata O Come All Ye Faithful: questa versione fu scritta - limitatamente alle prime 4 strofe, nel 1841 o 1852 dal pastore della  Chiesa d’Inghilterra Frederick Oakeley, 1802 – 1880, inizialmente con il titolo di Ye Faithful, Approach Ye, titolo poi cambiato in quello attuale dopo la conversione dell'autore al  Cattiolicesimo Le strofe 5, 7 e 8 furono poi tradotte da  William Thomas  Brooke, 1848 – 1917 e la sesta strofa da Owen West e da  Michael W. Martin. “ O come, all ye faithful Joyful and triumphant..”

Favria, 12.12.2012                 Giorgio Cortese


The Carol of the Drum.

Il piccolo tamburino, the  Little Drummer, è una celebre canzone natalizia statunitense scritta nel 1941 dalla compositrice  Katherine Kennicott Davis, 1892-1980, conosciuta con il titolo “The Carol of the Drum”. La storia curiosa di questa canzone che, inizialmente e non si sa per quale motivo, fu   fatta passare dall’autrice per un brano tradizionale boemo. La canzone venne poi incisa in una versione leggermente modificata e riarrangiata nel  1957 da Herry   Onorati e Harry Simeone, e nel 1959 da un discografico che ne cambiò il titolo in The Little Drummer Boy . Questo fatto scatenò le ire della stessa Davis, che rivendicò la paternità del brano, ma questo titolo viene ormai comunemente accettato e venne portato al successo dai Trapp Family Singers. La canzone è nota per il ricorrente rum pum pum pum, che simula il suono di un tamburo.“Pa-rum-pa-pum-pum” è la riproduzione del suono del tamburo, molto simile Pat-a-pan o Patapan che è il titolo con cui è comunemente noto il  brano Guillô, pran ton tamborin! Guillaume/Guglielmo, prendi il tuo tamburo,  canto tradizionale natalizio francese , in particolare della Borgogna, scritto intorno al 1700 dal poesta Bernard de La Monnoye, 1641-1728, scritto sulla melodia di “Ma mère enfin, mariez.moi. “Pat-a-pan” è la  è la riproduzione, nel testo, del suono di un tamburo e nel testo la parola onomatopeica   turelurelu riproduce il suono del flauto. Tornando a Carol of the Drum, questa canzone è di contenuto religioso ma anche allo stesso tempo di leggendario, parla di un ragazzo che, impossibilitato di portare un dono al Bambin Gesù, inizia a suonare il tamburo in suo onore, con l’approvazione di Maria. Moltissimi artisti statunitesi hannocantato questa canzone da Bing Crosby e David Bowie che la cantarono in un duetto nel 1977 ma anche Joan Baez,  Whitney Houston, Bod Dylan e il pianista  Richard   Clayderman. “Guillô, pran ton tamborin; Toi, pran tai fleute Rôbin! Au son de cé instruman, Turelurelu, patapatapan, Au son de cé instruman, Je diron  Noel gaiman”. Ma questi canti di natale mi hanno fatto pensare al tamburo, lemma che deriva dal persiano tambûr e l'oggetto esiste nella maggior parte delle culture. Nel mondo greco era chiamato  tympanon e il nome tympanum passò ai romani. Lo strumento non è citato nell'Iliade né nell'Odissea, ma nel V secolo a.C. Euripide lo cita, nella scena iniziale delle Baccanti.. I Greci erano quindi convinti che lo strumento fosse di origine Frigia, mentre i romani pensavano che fosse di origine siriana. È probabile che i greci ne abbiano ricevuto l'uso dalle colonie dell'Asia Minore, e lo abbiano trasmesso ai romani. La pelle usata era comunemente d'asino,  da dove deriva la popolare favola di Fedro sull'asino, destinato ad essere picchiato anche da morto. E di asini oggi ne avremmo tanti per “fare pelli di tamburo” e questo di potrebbe fare a “a tambur battente”, molto in fretta e velocemente, come al ritmo veloce del rullare di un tamburo. E anche vero che oggigiorno certe persone “vanno in  in giro col tamburo” diffondento a volte delle notizie che sono riservate e spettegolano e pare che “battano il tamburo” dandone ampio clamorosa pubblicità. Questo ultimo modo di dire si riferisce a quando un tempo la lettura di bandi, editti, proclami e simili avveniva sulla pubblica piazza, e il banditore richiamava l'attenzione suonando un tamburo. Era questo l'unico modo di assicurarsi che la popolazione venisse informata delle decisioni dell'autorità. Mi fermo qui “sul tamburo” che vuole dire subito ed immediatamente. Perché arrivo dagli auguri di Natale Fidas a Torino e ho la pancia “tesa come un tamburo”, altro modo di dire per significare la sazietà.

Buona serata

Favria,  10.12.2012                Giorgio Cortese

 

La corda.

Recentemente ho letto questa frase in un libro del poeta, storico e drammaturgo tedesco, Johann Christoph Friedrich von Schiller, 1759 – 1805: “Reggiti come suoli, o corda mia, | Ed ali al dardo non fallaci impenna. | Se questa freccia dalla man mi sfugge | Senza cogliere il punto, una seconda | Più non ho che l'emendi.” Questa bellissima frase mi ha fatto pensare alla corda,  un insieme di semplici fili intrecciati, di materiali vari, capaci di sopportare enormi sforzi di tensione e di trascinamento. La semplice corda che può essere costituita da materiali naturali,   sintetici o metallici, se sono materiali naturali o sintetici si chiama corda in caso di materiali metallici viene definita  fune, in marina, "cima" e "cavo"  la parola corda si usa nel comune linguaggio in molti modi di dire come:  dare corda, quando si vuole  dare a qualcuno ampia libertà di dire o agire,  con la segreta speranza che tali azioni  gli si ritorceranno contro. Conosco a tale riguardo delle persone che più gli dai corda e più si ingarbugliano la loro vita quotidiana. Questo detto si riallaccia alle esecuzioni capitali di un tempo, nella fattispecie al capestro, e dice integralmente: “dare abbastanza corda per impiccarsi”. Ma chi certi giorni non posso che affermare di essere “giù di corda”, insomma di essere abbattuto, avvilito, senza voglia di agire e reagire. Questo modo di dire, deriva dalla corda che serve  a caricare gli orologi a contrappeso: se quest'ultimo è in basso, e con lui quindi la corda che lo regge, vuol dire che l'orologio è scarico, e per farlo funzionare di nuovo bisogna “tirar su” la corda stessa. Ma quanti desidererebbero per i loro avversari contendenti, per una volta sola nella vita “mettergli la corda al collo”, insomma indurre la tale persona   a piegarsi al proprio volere, non lasciargli alcuna possibilità di scelta, nessuna alternativa o una via d'uscita, ricorrendo a progressive costrizioni. E quanti in questo periodo di crisi con l’affanno di non riuscire ad arrivare alla fine del mese, si sente una corda al collo con le varie bollette e rate del mutuo della casa da pagare si sentono oppressi da queste corde al collo. Questo modo di dire trae origine quando   nei tempi antichi gli schiavi o gli animali domestici erano condotti con una corda al collo per condurli dove si voleva e per  impedirne la fuga. Certi sbruffoni millantatori affermano di poter “far ballare sulla corda” il tale. Insomma costringerlo contro la propria volontà a fare certe azioni, in genere dopo delle velate minacce. Il modo di dire deriva dagli  antichi giochi di piazza, quando era frequente vedere i saltimbanchi che camminavano su una corda tesa a una certa altezza dal suolo. Ma poi devono stare attenti, questi facinorosi di non essere “messi alle corde” dalle loro minacce. Insomma di non avere scampo o via d'uscita. Questo modo di dire, viene dal linguaggio pugilistico, e le corde sono quelle del ring. Ed allora gli smargiassi “tagliano la corda”, sinonimo di fuggire, scappare; andarsene, in genere di fretta o di soppiatto. Un termine che ha due possibili origini. La prima, testimoniata anche da Virgilio, risale al linguaggio degli antichi marinai che indicavano l'azione del salpare con l'espressione “incidere funes”, cioè “tagliare le corde”, il che era quanto materialmente facevano e che si fa a tutt'oggi in caso d' emergenza. L'altra origine fa riferimento a prigionieri, schiavi o animali che riuscivano a fuggire liberandosi delle corde che li imprigionavano. “Vibrare  come una corda di violino”, quando si ha una grande sensibilità fisica o psichica; avvertire sensazioni molto intense; comportarsi in modo appassionato. Ma il più delle volte   questo modo di dire si riferisce quando siamo molto tesi e nervosi, insomma “teso come una corda di violino”, pronto a vibrare al minimo tocco. E qui arriviamo al modo di dire “toccare una corda”, essere sensibile e un argomento può suscitare una determinata emozione, che può commuovere, addolorare o irritare chi ascolta. Insomma “parliamo di corda in casa dell'impiccato”, si fanno discorsi indelicati, inopportuni o imbarazzanti per chi ascolta come appunto parlare di corde e capestri in casa di chi ha un parente morto impiccato. Arriviamo così al modo di dire “mettersi una corda al collo” che ha origine evangelica, dalla parabola contro coloro che danno scandalo e che farebbero meglio a gettarsi in acqua dopo essersi legati al collo una macina da mulino, ma si riferisce anche a quelle persone che si rovinano con le proprie mani. Persone che hanno “tirato troppo la corda”. Personaggi che hanno esagerato nei loro atteggiamenti, o persone che si sono affaticate eccessivamente, fino a quando il loro fisico non regge più. Perché qualunque corda troppo tesa prima o poi si spezza. Conosco delle persone che ogni giorno tramano “tenendo sulla corda” dei loro   conoscenti, lasciandoli perennemente nel dubbio e a rodersi nell'incertezza in attesa di una risposta o di una decisione senza darle né toglierle speranze, senza farle capire quale sarà la situazione futura.  Questo squallido modo di agire deriva dall'antico “supplizio della corda”, usato soprattutto per estorcere denunce o confessioni, che consisteva nel sollevare bruscamente la vittima da terra, grazie a una carrucola e mediante una corda che la teneva legata per i polsi dietro la schiena. Ma queste persone a forza di agire in questo modo alla fine “mostrano la corda”, si sciupano anche loro, sono inconsapevolmente in declino e non riescono ad andare avanti con dei modi di agire ormai superati, sono ormai “tirati come una corda molle”, molto avari in pensieri ed azioni. Il modo di dire si rifà alla corda  bagnata, tenuta “a mollo”: in queste condizioni il canapo si ritira e diventa quindi più corto. Insomma , “sono con la corda al collo”, non nel senso figurato di essere impiccati, ma  sono in  una situazione disperata, senza possibilità di risalita. Per  loro vale il detto di “dare la corda”,  che allude all'antico “supplizio della corda”, che consisteva nel legare i polsi del condannato dietro la schiena per poi sollevarlo con la stessa corda e lasciarlo sospeso a mezz'aria,  per ottenere confessioni, denunce e simili.  Forse per loro tanto vale  di “presentarsi con la corda al collo”, il mostrarsi  con un atteggiamento con un poco di umiltà,  come trae origine questo modo di dire dato che qui la corda al collo è quella dei penitenti, simbolo di sottomissione. Personalmente “ho ancora molte corde al mio arco” e anche frecce! Insomma dispongo   ancora di molti buoni argomenti e  quindi di avere buone probabilità di riuscita. Questo ultimo modo di dire tra origine che un arco con la corda spezzata diventava inservibile, ma la possibilità di sostituirla in caso di necessità consentiva di continuare a combattere. Concludo con una frase sempre  di C. F. von Schiller tratta dal “Don Carlos” che riflette bene l’attuale situazione soci-economico politica: “Ogni volta che leggo nel mio Plutarco le storie dei grandi uomini, questo secolo di imbrattacarte mi ripugna” e solo se uniti con più fili insiemi congiunti riusciremo a formare una corda che non si spezzerà alla primi tensioni.

Favria, 14.12.2012                    Giorgio Cortese