Le cinque regole del samurai. E del migliore amico
Chi sceglie di servire non è per forza uno schiavo. Perché è
lui che decide a quale signore "sottomettersi". E sarà così per tutta la vita.
Qualunque cosa accada. Nel bene e nel male. Lealtà assoluta. Indietro non si torna. È la
lezione dei samurai. Che vale in tutti i tempi e in ogni Paese. Il tuo "signore"
può essere un nobiluomo, un'idea, un'amicizia. Non devi aspettarti niente: né onori, né
riconoscenza. Se verranno accettali come si prende un regalo. La tua soddisfazione è nel
portare a termine quello che hai deciso di fare. Persino se chi difendi non capirà il tuo
sacrificio. In te devono convivere gli estremi: la forza e la delicatezza. L'ambizione e
l'umiltà. Un guerriero che ha per simbolo il fiore di ciliegio. Il colore pastello dei
suoi petali vuole dirti che non esiste contraddizione tra bellezza e determinazione. C'è
dentro il sacrificio del sangue e la poesia del vento che solleva i petali. Per questo le
decisioni più dure vanno prese senza metterci dentro la rabbia che le inquina e le avvelena.
Un samurai non piange ma non ha paura a commuoversi. Un guerriero giapponese ha i minuti
contati eppure può stare seduto per inebriarsi davanti ad un tramonto del colore dei
petali del suo ciliegio. Quello che basta è un temporale per scuotere la pianta e far
cambiare colore all'erba. Gi, Yu, Jin, Rei, Makoto, Meiyo e Chugi: dietro questi nomi ci
sono le regole che distinguono un vero samurai. Gi, cioè la risolutezza, la corretta
strada da percorrere. Costi quel che costi. Anche la vita. Yu l'abilità, sia tecnica che
umana. Già, l'abilità umana. Che si può imparare come si apprende a leggere e scrivere.
Con fatica, pazienza e dedizione. Jin l'amore universale verso tutte le persone. Facile
amare gli esseri umani nel loro insieme, difficile andare d'accordo col vicino di casa.
Per questo, a volte, bisogna anche avere il coraggio di dire che no, non è possibile, non
è giusto, essere amici di tutti. Rei il retto comportamento, l'osservanza delle regole e
della disciplina. Ci fidiamo di queste persone, anche se poi ammiriamo le altre. Quelle
che ci sanno fare, che fanno gli slalom tra le leggi e non cascano mai. E noi che ci
ostiniamo a passare accanto ad ogni paletto e se sbagliamo torniamo indietro. Makoto la
sincerità totale, universale, in ogni occasione della vita. La qualità più bella,
quella che ti spalanca arterie e coronarie. La sincerità di un'amicizia vera. Quando
anche parole di rimprovero sono dette per il tuo bene. E chi lo dice non vuole ferirti,
solo rimetterti sulla giusta via. Meiyo l'onore e la gloria sul campo di battaglia e nella
vita. Più l'onore che la gloria. La seconda è un di più. Che se arriva, arriva. Ma non
contarci. Chugi la devozione e la lealtà, verso il proprio padrone, verso i propri
simili. È il riepilogo di tutto. Devozione, parola antica. Sillabe da pronunciare piano.
Un amico devoto, merce rara, roba impagabile, tesoro inestimabile
Conosco delle persone che non sbagliano mai, dei veri
fuoriclasse, perché non fanno nulla!
Si fa presto a dire badòla!
Questa mattina un signore che era davanti a chi scrive, ha
attraversato le strisce pedonali, ma una signora che guidava un suv è passata,
infischiandosene del diritto del pedone ad attraversare in sicurezza la strada. Per
fortuna non è successo nulla, ma lattempato signore gli ha gridato alla guidatrice
distratta, aggiungerei scorretta, con forte accento piemontese: badòla!.
Già il lemma badòla che in piemontese ha assunto il significato di sfaticato
o bighellone. Pensate che questo lemma, badòla, deriva dal provenzale badaou,
e a sua volta dal celtico bad. Questo lemma si è trasformato nel latino volgare
batare, stare a bocca aperta. Da questa parola tra anche origine il termine babbeo,
sinonimo di stupido. Fuori dal Piemonte, in Lombardia, badòla, veniva usato una volta in
senso dispregiativo dagli svizzeri ai lavoranti lombardo-piemontesi. Infatti i ticinesi
chiamavano badolla i giornalieri italiani che pur di lavorare si accontentavano di magri
compensi. Non si può escludere che i lavoratori piemontesi in Ticino usassero dare del
badòla ai ticinesi e che la parola abbia avuto un effetto boomerang, appiccicandosi ai
piemontesi stessi e poi anche agli altri italiani. Questo mi ricorda che il termine
buzzurro, forse dal tedesco putzer, dal antico tedesco butzen, pulitore, essendo
molti anche spazzacamini, era il nome che si dava in Toscana ai montanari che scendevano
dal cantone dei Grigioni e dal Canton Ticino a vendere castagne arrostite, dolciumi. A
Roma dopo lUnità dItalia, nel 1870 furono così chiamati gli Italiani
delle regioni settentrionali., specialmente i Piemontesi, che vi presero residenza per il
trasferimento della capitale. In seguito il termine è passato a significare persona
rozza, zotica e sgarbata come la signora che incurante del pedone questa mattina è
passata sul suo rombante fuoristrada simile ad una delle tre furiose Erinni
Favria, 17.02.2013
Giorgio
Cortese