Nella vita quotidiana gli esseri umani dovrebbero essere quello che sembrano e invece si rivelano per quello che non sono.

La Baracca ma solo di nome, è invece un magnifico ristorante ai Serrù!

Baracca deriva dal celto gaelico barracad, poi passato in inglese come barrak. Questo lemma è di origine celtico, anche se secondo alcuni linguisti è di origine araba dal persiano barchane, tenda, vocabolo poi utilizzato dagli arabi e entrato nel linguaggio comune dallo spagnolo come barga e poi in italiano baracca. Personalmente preferisco la prima versione dell’origine celtica perché su accompagna al toponimo Serrù che ritengo derivi anche qui dal celtico con il significato di serra dei monti circostanti, infatti così doveva essere il luogo prima della costruzione sopra dell’omonima diga a 2.275m. sl.m. Certo molte volte se ci fermiamo alla apparenza rimaniamo ingannati. Il poeta tedesco ottocentesco Friedrich Hebbel scriveva che “Non è tutto oro quel che luccica ma neppure tutto quello che è oro luccica”. Ma il  ristorante la Baracca ai Serrù, a 2250 mt s.l.m., nella sua cucina e l’atmosfera familiare è vero oro per il palato. Questo ristorante, forse deve il suo nome alle costruzioni provvisorie degli operai che eressero quella mirabile opera di ingegneria che è la diga, un poco sopra che ne riporta lo stesso nome. Il locale la Baracca è un luogo stupendo, dove già da qualche anno vado a deliziarmi con un ottimo pranzo. Vicino al ristorante ci sono degli ampi parcheggi e dalla sala da pranzo lo spettacolo che offrono le vicine montagna è per gli occhi di  insuperabile bellezza, ma poi il palato trae profonda gioia dalle magnifiche portate che vengono servite. Il cibo e' notevole, in particolare la polenta concia con il cinghiale o la tipica cacciagione di montagna. Già la  polenta concia che parrebbe a prima vista  una ricetta originaria della Valle d'Aosta,   anche perché si accompagna spesso alla fontina, la polenta concia ha invece probabilmente origine sulle montagne piemontesi, dove il mais si diffuse prima che nella confinante vallata della Dora Baltea. Comunque sia andata, l'abbinamento cereali-formaggio ha avuto un'importanza fondamentale nel proteggere le popolazioni dai rischi alimentari quali la pellagra e altre malattie da carenza di vitamine, connessi a una dieta di sola polenta. Insomma , ristorante con atmosfera familiare, affettati e formaggi. Ottimi i dolci preparati da loro. Cosa importante da non dimenticare prenotare sempre per evitare di non trovare posto!!! Consigliato a chi ama i sapori di montagna, lo  consiglio vivamente!!!

Favria,  21.08.2013               Giorgio Cortese

 

Ritengo che le parole di gesti quotidiani siano lo specchio dell'animo, appena parlano ed agiscono rivelano ciò che veramente sono.

 

Giustizia toponomastica alle donne!

Ogni anno all’otto marzo, improvvisamente tutti ci ricordiamo del ruolo delle donne e poi per 364 giorni cala il silenzio con i femminicidi, sempre di più tra le mura domestiche che sono una costante presenza, questo mi fa riflettere se siamo veramente esseri poco civili. Vorrei in tempi non sospetti, insomma non a ridosso della ricorrenza della festa della donna per interrogarmi sul ruolo della donna nella società e sulle difficoltà da affrontare, può fare un passo avanti verso la comprensione del suo valore: così come è da sempre, ed è la storia a confermarlo. Ma prima di fare un viaggio a ritroso nel passato attraverso i secoli  è utile focalizzare per un momento l’attenzione sull’oggi. Oggigiorno le donne sono forti e devono tenere le redini della famiglia e del lavoro. Una doppia fatica che richiede energie, impegno, efficienza, senso del dovere. Ma a volte tutto ciò sembra non bastare. Perché a questo si aggiunge la fatica di "sfondare" un mondo che è ancora molto maschile nelle sue richieste e pretese. Una società che chiede ancora alle donne di "portare i pantaloni" quando è ormai tempo di indossare con orgoglio la gonna e di sfruttare tutte le capacità che sono racchiuse nel ruolo femminile, e le sono proprie da sempre. Le donne sono sempre state brave a gestire "casa e bottega", famiglia e affari. Già nell’età della pietra stavano dentro le caverne e badavano ai cuccioli, prendendosene cura e sfamandoli. Si occupavano anche di trasformare quanto cacciato dall’uomo in qualcosa di commestibile ma non solo. Dai prodotti dell’animale cacciato tiravano fuori pelli per coprirsi, cibo per sfamarsi, conservando tutto quanto era utile per la sopravvivenza. Una pratica questa che si ritrova anche nelle popolazioni dei pellerossa americani, dove le rappresentanti del sesso femminile accompagnano gli uomini nelle loro attività di caccia aiutandoli attivamente in questa pratica. Dopotutto nelle civiltà arcaiche il matriarcato era potentissimo: la donna era regina della famiglia e della comunità. La sua figura mitica veniva associata alla madre terra, generatrice di vita e potente forza della natura. Tutta l’economia della casa era nelle sue mani, la sua parola era legge anche per gli uomini che dovevano abbandonare il focolare per recarsi al lavoro nei campi, a delegare tutto il resto all’impeccabile organizzazione femminile. Poi sono arrivati i grandi imperi dell’antichità, le civiltà classiche: anche qui, nell’antica Roma ad esempio, le mogli degli imperatori facevano la vera politica tessendone le trame nell’ombra. Le donne erano potenti e libere. Tutto cambia nel Medioevo, quando l’essere femminile viene percepito in due differenti modalità: angelico e spirituale oppure stregonesco e maligno.  Nel Seicento la paura della forza al femminile, si trasforma in persecuzione fino al loro estremo sacrificio perpetuato contro le streghe al rogo,  così erano considerate quelle donne che decidevano di "ribellarsi" al volere maschile e alle regole imposte dalla società, essendo infine relegate ai margini di essa. Tutte le altre andavano in spose o entravano in convento. Il Settecento vede le donne ancora racchiuse tra le mura domestiche o nelle corti a tessere trame e a cercare di "accasarsi" al meglio. Poche le occasioni di entrare in società con un ruolo diverso da quello di future spose e madri. È con l’Ottocento che la donna torna alla ribalta, soprattutto nella sua veste di lavoratrice. La sua forza lavoro, mai venuta meno nella storia, solo ora ricomincia ad avere un importante peso sociale in piena società industriale, soprattutto dal punto di vista economico e produttivo in senso stretto. L’individuo femminile comincia faticosamente a farsi riconoscere il diritto ad essere un soggetto sociale lavoratrice e cittadina e quindi a potersi svincolare dal potere dell’uomo, marito o padre. Lavoratrici con le gonne si cominciano a vedere non solo nelle fabbriche ma anche nelle scuole come maestre, nelle corsie degli ospedali soprattutto come ginecologhe conquistando un’indipendenza economica che rompe gli stretti vincoli domestici. Negli Stati Uniti, nel 1840, viene anche sancito il diritto alla libera disponibilità dei guadagni. Le donne cominciano anche a spogliarsi di quegli indumenti fatti di bustini strettissimi e di stecche e indossano abiti fluidi e costumi da bagno, lontani antenati dei bikini. Anche questo è lento progresso verso la parità all’alba del Ventesimo secolo, quando iniziano i primi riconoscimenti dei diritti politici alle donne in Nuova Zelanda, 1893, poi negli Usa, 1914, e a seguire in tutto il resto del mondo occidentale. Va ricordato che le donne, hanno da sempre costituito una indispensabile risorsa umana ed economica soprattutto durante i periodi di guerra (la mia nonna si riferiva ai due conflitti mondiali che aveva personalmente vissuto). Con la forza lavoro maschile impegnata al fronte, da cui, purtroppo, a volte non faceva più ritorno, il lavoro femminile ha rappresentato l'unica possibilità di sopravvivenza per intere famiglie, sia nelle campagne che nelle fabbriche. Le donne si trovavano di punto in bianco costrette a prendere sulle proprie spalle tutti i lavori maschili per sfamare da sole le loro famiglie quasi sempre numerose ed altrettanto quasi sempre con salari molto più bassi di quelli percepiti dagli uomini.  Ma oggi arriviamo alle dolenti note, nella Comunità in cui vivo quante vie femminili sono dedicate alle donne? Non lo sapete ve lo dico io: due vie dedicate alla Madonna Strada della borgata Annunziata e via Madonna delle Neve. Una Via  Aurora, che indica una parte del giorno. Una via Aurelia, e via  Giacinta Bertetti, illustre benefattrice che alla sua morte donò una casa ubicata   in Favria al Comune, “edificio denominato Vecchia  Posta”, in viale Matteotti. Memorabile è il suo attaccamento a Favria, in quanto pur essendo stata molti anni residente negli Stati Uniti, volle, alla sua morte, essere tumulata nelle tombe del nostro Cimitero; con delibera del Consiglio Comunale n. 107 del 28.3.1980 le viene dedicata una via per ultime una piazza vicino al Cimitero dedicata alle benefattrici favriesi recenti, Costantino Amabile, nata a Favria il 15.01.1926 e deceduta il 24.02.200 e  Biesta Eugenia nata a  Torino il 21-10-1920  e deceduta in Favria, dove risiedeva, il 26.10.2005. Mi sembrano che 5 vie ed una piazza sono pochino per l’universo femminile, tenendo conto che a Favria al 31 luglio 2013 su di una popolazione 5.235 persone, le donne sono  2644, rispetto ai 2.591 maschietti. Pensate che in Italia se si esclude la Madonna con i vati nomi, le sante e le regine, ai personaggi femminili a cui sono dedicate più di 100 strade in Italia sono appena 5. ci sono 2 scrittrici , Grazia Deledda e Ada Negri, una pedagogista Maria Montessori, una giurista medievale Eleonora d’Arborea, questa localizzata non solo in Sardegna, perché anche a  Torino, quartiere Mirafiori, esiste una via a lei dedicata. Proseguendo due giornaliste Ilaria Alpi e MariaGrazia Cuntili e Anna Frank. Inoltre l’unico pianeta nel sistema solare dedicato alle donne è Venere, dove i nomi maschili sono banditi, ma purtroppo molti dei sui 700 crateri sono stati assegnati a centinaia di nomi femminili nelle varie lingue del mondo perché gli esperti non sono riusciti a trovare un numero di personaggi storici sufficienti. A Favria non esiste questo problema perché di donne benefattrici e meritevoli c’è ne sono state molte a partire da Vinca Anna vedova di Pietro Baretti con il suo lascito del  29.6.1651, Germano Rosalia  vedova Servais  con il lascito del  1920, senza contare che ogni donna è sempre la forza e l’equilibri per ogni generazione e allora perché l’Amministrazione Comunale non decide con apposita Delibera di dedicare per i prossimi 10 anni, le eventuali nuove vie, solo a personaggi femminili per dare giustizia toponomastica alle donne, le donne che sono il motore laborioso della nostra società, istituendo anche dei parcheggi rosa, dei parcheggi dedicate solo per loro, che sono forse la categoria che ne usufruisce di più per le quotidiane spese per la famiglia. Senza mia dimenticare i parcheggi riservati ai diversamenti abili. Se le persone che occupano i parcheggi snervati ai diversamente abili, potessero sentrsi un attimo come loro, forse apprezzerebbero il nello della vita e gli lascerebbero subito libero il parcheggio occupato in maniera impropria. Forse si renderebbero la vita meno complicata ai propri simili. Le barriere architettoniche e l’inciviltà nei confronti dei diversamente abili  voglio ricordare che le donne e i diversamente abili sono cittadini come noi e meritano tutto il nostro rispetto e la stessa cura che vorremmo fosse rivolta, ogni giorno, a noi.

Favria,  21.08.2013          Giorgio Cortese

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La vita è un'avventura emozionante, un piacere particolare, una gioia che non potrei descrivere a nessuno...una  stuzzicante felicità. Certi giorni   ci sono soffi di vento, che mi portano le parole che attraversano il tempo. Bisogna saper ascoltare il vento, le parole arrivano così...

 

Res gestae favriesi, da  capitanus a Cattaneo

L'origine del cognome Cattaneo, diffuso in tutte le regioni del Nord Italia con concentrazioni più significative in Lombardia, e molto diffuso a Favria, deve essere, forse, fatta risalire a una contrazione della parola "capitanus" Potrebbe allora derivare dal titolo medievale di “Capitano del Popolo”, che era un magistrato del comune podestarile, per lo più forestiero, in carica per un anno o per un semestre, ma talora riconfermato, cui fu affidato, di fatto in concorrenza con il podestà, il compito di difendere gli interessi del popolo, che era la nascente borghesia mercantile contro le prevaricazioni nobiliari. I suoi poteri, primi fra i quali quelli militari, variarono nel tempo e nei diversi comuni. Il cognome Cattaneo, dal punto di vista etimologico, non solo con i Cattani, ma anche con i Capitanio e con i De Capitani, con i quali condivide la derivazione del ruolo di Capitaneo. Vale la pena di ricordare, inoltre, a proposito del significato e delle origini di uno dei cognomi italiani più presenti in Lombardia, che in epoca medievale il titolo di cattaneo, o semplicemente cattano, rappresentava anche il riconoscimento concesso ai comandanti di castelli e fortificazioni. Il lemma deriva da "captan", termine provenzale che significa "capo", poi mutuato nel toscano “capitano”. .Per quel che concerne i personaggi famosi con cognome Cattaneo, non si può non partire da Carlo Cattaneo, importante uomo politico protagonista delle Cinque Giornate di Milano nel 1848: nato a Parabiago, attualmente in provincia di Milano, all'inizio dell'Ottocento, dopo aver lasciato la carriera da seminarista divenne insegnante di grammatica latina. In seguito al '48, fu eletto parlamentare nel Regno d'Italia, anche se rifiutò in tutte le occasioni l'incarico per non essere costretto a giurare fedeltà alla famiglia dei Savoia. A Favria, un documento del 1493, viene segnalato il cognome Cattaneo in una questione di confine con   Oglianico, giurano infatti per Favria: Rosso, Gay,Vayra, Biesta, Ferreri, Caresio, Casolasco, Tarizzo, Bruno, Battuello, Borzalini, Cattaneo, Baretti, Beda, Casullo, Nizia.

Favria, 22.08.2013           Giorgio Cortese

 

Accidenti, ma è proprio vero, la logica mi suggerisce che nella vita quotidiana gli stolti e gli inetti dovrebbero essere capaci dei più piccoli mali, e invece sono capaci di combinare dei grandi disastri!

 

La gavetta

Questo oggetto è stato progressivamente dimenticato per i più perché considerato povero in un mondo che si è ritenuto essere ricco ma la recente crisi finanziaria ci sta fornendo gli elementi per un ritorno al buon senso e la consapevolezza del passato ci servirà per costruire il futuro. Ve la ricordate la battuta di Sordi, nel film La Grande Guerra di Monicelli: “Com'è il rancio?” gli chiede il comandante. “Ottimo e abbondante”, risponde il soldato Sordi. “Invece è una schifezza” replica il comandante. Avevano ragione tutti e due. Il giudizio dei soldati sulla quantità del rancio risulta, nelle lettere alle famiglie o nei diari, quasi sempre positivo. La razione giornaliera era studiata per apportare mediamente circa 4000 calorie, 4700 per le truppe sottoposte a lavoro intenso in alta montagna, salvo che nel corso del 1917 quando scese a poco più di 3000 calorie per mancanza di scorte alimentari. In ogni caso, una dieta sicuramente più ricca di quella cui erano abituati da civili la maggior parte dei militari di estrazione popolare, che molte volte provenivano da un ambiente nel quale la pellagra non era stata ancora del tutto debellata alla vigilia del primo conflitto mondiale. I problemi riguardavano semmai la qualità del cibo, che spesso giungeva freddo e scotto nelle trincee. Se non mancavano il vino ed i liquori, soprattutto prima della battaglia, era soprattutto la limitata disponibilità di acqua a rendere ancor più drammatica la vita in trincea per l’alpino. Ai reparti Alpini E DI Artiglieria da montagna, molte volta a causa della lontananza dalla cucine, fu data una gavetta con capacità doppia della normale, certo il rancio era doppio, ma quando arrivava in alta quota nella prima guerra mondiale il cibo era quasi sempre freddo. Questa gavette vennero chiamate, gavettone e poi successivamente con questo lemma nacque lo scherzo sempre più diffuso tra la truppa, di rovesciare addosso a un commilitone, di solito quando questi dormiva, l’acqua contenuta in un grosso recipiente.  Ma che cosa è la gavetta? La  gavetta o gamella, già i due nomi hanno una loro storia, iniziamo da gavetta che deriva dal lemma latino gabata, con il significato di scodella. Gamella, deriva sempre dal latino camella, per indicare la gobba ricurva del cammello, attraverso lo spagnolo “gamella”, oltre ad essere sinonimo di gavetta, nel linguaggio della marina militare marina, indica anche l’insieme delle stoviglie e posateria delle mense di bordo, da qui il diminutivo di gamellino, che in marina,   indica la  scodella metallica corrispondente al gavettino dei soldati. La gavetta è un recipiente recipiente di latta o lamiera zincata o alluminio, usato dai militari per mettervi il rancio soprattutto in tempo di guerra, ma anche durante le esercitazioni fuori guarnigione. Oggi è sempre meno usata a favore di contenitori in plastica o dai piatti usa e getta. Composta generalmente di due pezzi che si incastrano tra di loro, un contenitore che può fungere da ciotola o da pentolino e un coperchio che può fungere da  piatto. Quando è usata sul posto di lavoro per scaldare le vivande contenute all'interno, la gavetta viene immersa in contenitori di acqua calda, ottenendo un riscaldamento del cibo a bagnomaria. Nel linguaggio civile si usa il termine “baracchino”, che rimase per molto tempo lo strumento dei poveri in coda alle mense di carità o per gli operai fino all’introduzione delle mense aziendali. Infatti nel dopoguerra con il boom economico, nascono le mense grazie ad alcuni imprenditori illuminati tra questi l’ing. Olivetti che capiscono la necessità di offrire ai propri dipendenti dei pasti all’interno delle loro strutture produttive. Ritornando alla gavetta, purtroppo in certi periodi della seconda guerra mondiale quello che mancava era che cosa metterci dentro! La gavetta ha anche dato origine ad un modo di dire: “venire dalla gavetta” oppure   “fare gavetta” che  significa  un periodo di sacrifici finalizzati ad imparare un mestiere, con il significato di iniziare dal basso. Oppure entrare in un'attività con mansioni umili, a un livello basso, salendo pian piano a tutte le successive fasi della carriera prevista. Nel linguaggio militare, indicava quei casi in cui un soldato, che per il cibo usava la gavetta, arrivava per meriti suoi al grado di ufficiale. Per concludere con gavetta, ma qui dal lemma tardo latino scabellum, gomitolo, passando dal francese échevette, matassina di refe che serviva tra l’altro, un tempo, per preparare le corde degli archi delle balestre. Ed infine gavitello, che deriva sempre dal lemma latino , gabata, ciotola, piccolo galleggiante di legno o di sughero, ovvero cassa vuota e stagna di lamierino o di materia plastica, per lo più a forma di doppio cono, atto a sostenere una cima che lo unisce a un’ancora o a un peso poggiato sul fondo; è usato generalmente per segnalare un pericolo subacqueo, e comunque per indicare la posizione di un oggetto sommerso, ma può anche costituire un sicuro punto di ormeggio per le imbarcazioni da diporto, che assicurano il cavo prodiero all’anello posto sulla sua parte emersa. In architettura si dice “volta a gavetta” la volta che si ottiene intersecando con un piano orizzontale una volta a padiglione.  Come si vede la gavetta dal primo modello 1872 di strada con gli Alpini  ne ha fattoe fa parte a pieno diritto dei ricordi degli Alpini e che ha seguito i vari reparti in Africa, in Francia, in Grecia, e in Russia

Favria, 22.08.2013                Giorgio Cortese