Oggetto: La forza della parola - C’è razzismo e razzismo o è un solo razzismo! -Triste Trise- La faccia antica o attuale?- dal biroch e cartun-W le castagne brusatà della Pro Loco di Favria-La radice del problema-dalla Galizia a Tarro Boiro-La vita senza il cellular

Secondo voi un ragazzo che parte dalla Siria in fiamme si ferma nel suo intento perché da noi c’è la Bossi- Fini? La tragedia del mare di   Lampedusa ci ha fatto capire  che non è possibile fermare il bisogno di libertà perché c’è una legge?

La forza della parola.

Leggo su di un giornale del  15.10.2013 che  in Malaysia, si quella descritta da Salgari nelle avventure di Sandokan, viene vietato per legge  l’uso della parola “Allah”. Voglio solo precisare che Allah non è una “in­venzione” di Mao­metto e tanto meno una divinità specifica dei musulmani , anche se  i mu­sulmani di oggi, quando tra­ducono il Corano nelle lin­gue europee, rifiutino di tra­durre la parola “Allah” con “Dio”,“Dieu”, “God”. Nel cristianesimo  il  Nome divino è stato reso diversamente nelle varie lingue. God, Dieu, Dios,Theos, Jumala e altre traduzioni ancora indicano tutte il Dio uno e trino predicato dalla Parola. Il Nuovo Testamento spesso si riferisce a Dio con il termine Signore, dal greco kurios. Una novità introdotta da Gesù: Dio è anzitutto Padre, abbà in aramaico. L’uso di mantenere la parola Allah in arabo è diventato quasi un dogma, come se si trattasse del “Dio dei musul­mani” o comunque di una parola monopolio dell’islam. La cose non stanno proprio così. La radice trilittera della parola Allah, ’-l-h , è conte­nuta in tutti i termini che in­dicano la divinità nelle lin­gue semitiche. La si trova, in­fatti, nell’Antico Testamento nella forma ebraica “Elohim”, la Divinità,  che generalmente si pensa sia derivata da “eloah”, forma estesa di “El/Il”, il dio supre­mo del panteon canaanita. Da una ricerca fatta velocemente mi pare che  nella Bibbia ebraica, il tetragramma YHWH (Jahvè o Geova) è la forma più diffusa per indicare Dio, con oltre 5.400 citazioni, ma gli ebrei lo considerano troppo sacro per essere pronunciato, infatti sul suo nome viene letto come Adonai, Signore.  Semmai, la lingua araba of­fre la possibilità di distin­guere tra “al-ilàh”, il dio con la “d” minuscola, e Allah, let­teralmente “Iddio”, in cui,  come avviene in italiano,  l’articolo si trova accorpato con il sostantivo per indica­re il Dio assoluto. È provato che gli arabi pagani abbiano usato il termine Allah per indicare una divinità partico­larmente potente, chiamata talvolta con l’attributo “al-Rahmàn”, il Clemente, pre­sente nella professione di fe­de islamica. L’islam non a­vrebbe fatto altro che adot­tare una parola preesistente per indicare il Dio unico, tant’è vero che lo stesso pa­dre di Maometto,  che non e­ra certo musulmano,  si chiamava Abdallah, letteral­mente il servo di Allah. Sia Al­lah che al-Rahmàn sono i­noltre attestati nella poesia arabo-cristiana precedente all’avvento dell’islam, come pure nella tradizione degli e­brei che vivevano in Arabia. Un’iscrizione risalente al VI secolo presenta al-Rahmàn come attributo di Dio Padre, dato che parla di al-Rahmàn, di suo figlio Christos e dello Spirito Santo. Nessuna meraviglia dunque se la parola Allah sia stata successivamente adottata dai cristiani di lingua siriaca nei primi secoli dell’espan­sione islamica al posto di “A­loho”, quando le comunità cristiane del Vicino Oriente sono entrate a confronto con la lingua e la cultura araba. Nell’Islam oltre all’appellativo Allah, i musulmani dispongono di “99 Bei Nomi” per indicare Dio. Si tratta di attributi presenti nel Corano, tra cui il Creatore, l’Altissimo e l’Onnipotente. La tradizione vuole che un buon musulmano debba saperli enumerare tutti e 99 per meritare il Paradiso. Da qui l’uso corrente della misbaha, il “rosario” islamico.

Favria, 23.10.2013                         Giorgio Cortese

 

Certe persone dal piccolo cervello rimango sempre schiavi degli innumerevoli errori  finché non smettono di combinare stupidaggini e di nascondersi sempre dietro gli altri.

 

C’è razzismo e razzismo o è un solo razzismo!

Ho letto sulla quotidiano La Stampa del  16.10.2013 che in una scuola un’insegnante prende a schiaffi un bimbo e viene denunciata dai genitori. E fino a qui la notizia non sarebbe neanche da pubblicare ma solo da rimproverare l’atto in se,  anche se certi pacati buffetti sono per conto mio formativi, da ragazzo ne ho presi diversi e mai i miei genitori hanno denunciato l’insegnate, anzi ho preso il “gemello” del ceffone a casa. Certo le  scuole di pensiero più evolute affermano che l'uso della violenza, fatta salva quella esercitata in stato di legittima difesa ed in stato di necessità, sempre che la difesa sia proporzionata all'offesa, od in presenza di attentato alle Istituzioni democratiche, e sempre nei limiti delle Convenzioni Internazionali, che escludono ad esempio la tortura ed in genere i trattamenti contrari al senso dell'umanità, affermano che non è MAI educativa e che certe punizioni corporali come le e mani od altro mezzo di coercizione debbano essere  utilizzati sui minori nè sui proprii figli, perché andiamo nell’ambito della Giustizia penale. Forse la migliore punizione è quella  di privare il minore di una certa libertà di movimento, il minore, anche dell’utilizzo dei mezzi informatici e dandogli per consegna la lettura di un buon libro formativo che vale molto di più di una sberla data in un momento di nervosismo, la sberla passa ma non usare internet o vedere la televisione per un certo periodi tempo ritengo che educhi di più. Ma non essendo un insegnate non posso dire di più, la cosa che mi lascia perplesso e che i genitori, uno dei due non è italiano hanno visto il fenomeno come gesto razzista, perché tra tutti i vivaci ragazzi hanno preso di mira proprio lui? Tradizionalmente, con il termine razzismo si riconduceva alla composizione di  razza, dal latino, sempre loro gli antichi romani, generatio oppure ratio, con il significato di natura, qualità e ismo, suffisso latino -ismus dal greco -ismòs, con il significato di "classificazione" o "categorizzazione",  Nella lingua italiana il lemma razza ,  così come gli equivalenti nelle altre lingue neolatine pare che derivi dall’antico francese  haraz o haras, allevamento di cavalli; per falsa divisione del termine unito all'articolo, l'haraz diventa così la razza. Chiarita l’origine della parola, oggi il  razzismo è un fenomeno culturale che porta a designare un’etnia come superiore ad un altra. Esistono fondamentalmente due forme di razzismo: un razzismo di stampo biologico, che impone la superiorità di un gruppo di persone in base a falsi caratteri genetico-evoluzionistici, ed un razzismo di stampo culturale, per il quale una corrente di pensiero è ritenuta superiore ad un’altra e quindi chi sposa la prima è ritenuto superiore a chi sposa la seconda. È un’arma utilizzata da tutte le dittature nate in qualsiasi parte della Terra, in tutti i periodi storici di qualsiasi colore politico e matrice religiosa, per giustificare eccidi e stragi umane. Tuttavia negli ultimi anni si è affermato un terzo tipo di razzismo: il razzismo al contrario. Questo fenomeno non è meno grave delle forme classiche di razzismo. Anzi, lo è ancora di più perchè non è considerato razzismo ma al contrario è usato da chi ha paura di essere vittima di una discriminazione per denunciare come atto razzista nei suoi confronti ogni avvenimento che lo possa danneggiare, solo perché chi ha compiuto tale atto ha il colore delle pelle o una religione diversa. Domanda,  ma se erano con la pelle delle stesso colore o con la stessa religione non è più un presunto bieco atto razzista ma solo un presunta angheria. Ritengo, da mediocre ragioniere, che qualsiasi forma di incitamento all’odio è sba­gliata e controproducente, stiamo attenti nel fare passare per 'odio' l’opinione diversa  o ogni atteggiamento come  forma di insopportabile prevari­cazione, così l’odio verso l’altro essere umano aumento e si mette benzina al razzismo. Certo l’argomento razzismo è molto “sensibile”, come mi ha ricordato un caro amico “cave tibi” di stare attento, di non passare di passare per razzista denunciando veri o presunti razzismi alla rovescia,  anche perché ho l’impressione che certi giocatori che sul campo si comportano da imbecilli   se hanno un colore della pelle diversa si fischiano di più  di un altro!

Favria, 24.10.2013            Giorgio Cortese

 

Ogni giorno è l'anniversario della mia vita da affrontare sempre con entusiasmo, nella vita l’entusiasmo è contagioso.

 

Serve un patto di solidarietà per salvaguardare la dignità di ogni perso­na e alzare un argine contro la disoccupazione. E necessario adesso of­frire lavoro per dare dignità alla persona e contro la globalizzazione dell’indifferen­za.

 

Triste Trise.

Come sudditi dell’ex-paese dei balocchi ecco un nuovo balzello la “triste” Trise, con le stime che indicano una forte randellata ai già magri bilanci familiari di circa di 345/366 euro a famiglia, secondo ii sindacati, contro l’effimero aumento netto, per i meno sfortunati di un massimo, dal taglio del cuneo fiscale, fino di 14 euro al mese. Le ricadute della Trise per una famiglia di 3 persone, che vive in un appartamento di 100 metri quadri in un'area urbana, saranno pari a 229 euro per i rifiuti urbani, Tari e a 116 euro per i servizi indivisibili, Tasi, per un totale di 345 euro annui a famiglia.

riyengo questo tributo inadattabile, perché prima, diverse famiglie, grazie alle detrazioni sulla prima casa, non pagavano l'Imu,  ora tutti pagheranno la nuova Trise. Persino gli inquilini, esenti dal pagamento Imu, dovranno versare la Tari e quota della Tasi'. 

Favria, 25.10.2013   Giorgio Cortese

Nella vita bisogna studiare il passato se si vuole cercare di capire il futuro lasciando da parte la spocchia di sapere tutto!

Se vogliamo un mondo migliore dobbiamo tutti noi  contribuire a realizzarlo anche con piccoli gesti quotidiani.

 

Otòber

‘L meis c’as buta a ‘l vin ‘n tel sòber;   la mòntagna a l’è cuerta , la scula a l’è  duerta. A studiè, brave masnà, che l’istà a l’è già passà

 

La faccia antica o attuale?

Secondo degli studiosi la più antica faccia comparsa sulla Terra appartiene ad un pesce vissuto circa 419 milioni di anni fa. Somigliava al muso di uno squalo ed era tutt'altro che rassicurante. A questa conclusione sono pervenuti gli scienziati dopo aver ricostruito dei resti fossili, scoperti in Cina e descritti sulla rivista Nature. I resti trovati sono una  mandibola mobile, molto simile a quella degli animali "moderni". Questi  fossili, eccezionalmente ben conservati, appartengono a un pesce chiamato 'Atelognathus primordialis', che conquista il primato del vertebrato più primitivo ad avere un tipo di mascella molto più simile a quella di un moderno pesce. Questo animale marino appartiene al gr I La scoperta può offrire una nuova prospettiva sulla prima evoluzione di questo tipo di creature. La trasformazione delle mascelle è uno degli episodi chiave per comprendere l'evoluzione dei vertebrati, ma il divario tra vertebrati con la mascella e quelli senza è così grande che è difficile capire le singole fasi di transizione. Finora si era pensato che il più recente antenato comune di vertebrato con mascella somigliasse nella sua struttura ai moderni squali. La scoperta del nuovo fossile ci porta a dedurre che, già molto tempo prima, anche la sua faccia fosse simile. Ma gli squali attuali della politica allora non si sono mai evoluti?

Favria, 26.10.2013               Giorgio Cortese

 

Se la vita certi giorni mi sembra un cammino senza una mappa! Il pregio di alcuni giorni è che arrivano velocemente al termine.

 

Res gestae favriesi,  dal  biroch e cartun fino all’auto e al furgone

Un a volta, prima dell’avvento dell’auto ci si spostava a piedi, a cavallo o sopra un carro. Ecco che il carro a seconda di come era fatto aveva diversi nomi ed alcuni di questi lemmi sono stati trasmessi poi ai mezzi di locomozione con il motore a scoppio. Il baroccio o biroccio, pare che abbia una suo origine dal latino medievale,  infatti nel tardo latino birotium o bi- roteus, a due ruote,  è un veicolo a due ruote, utilizzato principalmente per trasportare oggetti. Si tratta, infatti, di un classico veicolo a trazione animale per il trasporto di cose, che trovò largo impiego fino ai primi del Novecento, quando prese il sopravvento la locomozione meccanica. Il biroccio o barroccio era utilizzato a Favria soprattutto in ambito agricolo, ed il termine con cui esso era designato è declinato anche nelle lingua tedesca birutsche. In canavesano si denominava biroc , un carretto, con due grandi ruote più leggero del "cartun", serviva anche per trasportare diverse persone, il conducente del cartun era denominato cartonè, carrettiere ed il carico del carro detto cartonà. In italiano, questo lemma è entrato nella lingua italiana attraverso il francese broutte, a sua volta arrivato tramite il provenzale baratte. L'evoluzione di tale mezzo di trasporto è il calesse. Il calesse è un veicolo a due ruote per il trasporto di persone, generalmente trainato da un solo animale da tiro, evoluzione in veste lussuosa del biroccio, dal quale deriva. Il termine calesse trae origine da kolesa che in diverse lingue slave significa "ruote" o concetti analoghi. D'uso comune fino alla prima metà del  XX secolo, il calesse era il veicolo maggiormente utilizzato per gli spostamenti veloci con limitate quantità di bagagli o materiali. La presenza di due sole ruote comporta il necessario aggancio ai finimenti del cavallo, al fine di assicurare la stabilità longitudinale del veicolo che, in caso di inutilizzo, si inclina ruotando sull'asse trasversale, fino a poggiare sul terreno il traverso posteriore. In alcuni casi era dotato di copertura retraibile detta "mantice", il calesse era il mezzo preferito da chi voleva percorrere velocemente i lunghi tratti che collegavano i fondi agricoli ad altri fondi viciniori o alle comunità. Esistono delle varianti del calesse, che sono la calessa e il calessino. La calessa, tipica del sud Italia, consiste in un robusto calesse di generose dimensioni, usato per il trasporto di molti passeggeri. Il calessino è un piccolo calesse particolarmente leggero, adatto ad essere trainato da animali di piccola taglia, oppure concepito per raggiungere alte velocità, in questo caso generalmente assumendo la denominazione di "padovanella". La padovanella è un calessino a due ruote con uno o due posti, privo di coperture fisse o retraibili e di spazio posteriore per i bagagli. È l'antenato del moderno sulky, o sediolo, impiegato nelle corse di trotto. La denominazione di “padovanella” deriva dalla città di Padova dove questo tipo di calessino era stato concepito e realizzato prendendo ispirazione dalle bighe romane utilizzate per le tradizionali corse dei carri che si svolgevano a  Padova in agosto e che erano in grande voga nel XVIII secolo. Ma esisteva anche il landò, un tipo di carrozza a  quattro ruote e doppia copertura retraibile a mantice. Il sedile per il cocchiere era posto è posto, generalmente, davanti e la carrozza viene trainata da 2 o 4 cavalli. La parte destinata ad ospitare i passeggeri era fornita di sedili a panchetta con disposizione "vis à vis". La denominazione "landò" è mutuata, con identico significato, dal termine francese landau, a sua volta derivante dalla città landau in der Pfalz, nella quale era stata inventata questa tipologia di carrozza, destinata al servizio pubblico. Un altro mezzo di trasporto era la wagonette, un tipo di varozza e poi divenata un tipo di automobile. Sul finire del XIX secolo erano chiamate wagonette le carrozze a traino animale destinate al trasporto promiscuo di persone e materiali che oltre alla panca trasversale per il conduttore e una persona a fianco, possedevano anche due panche longitudinali ai margini del pianale, alle quali le sponde facevano da schienali, che potevano ospitare altri passeggeri in una posizione vis-à-vis.Tale architettura di carrozzeria fu trasposta, con identica denominazione, anche sui primi modelli di automobile e mantenuta fino ai tempi attuali su alcuni fuoristrada, soprattutto di tipo militare. E per finire la  giardiniera, un tipo di carrozza dell’inizio ‘900. Questa vettura a traino animale veniva utilizzata dai contadini prer portare la merce ai mercati di Rivarolo e Ciriè, era un tipo di carrozza scoperta a quattro ruote e dotata di sedili laterali, entrata in voga all'inizio del '900. Il termine poi è stato esteso anche alle carrozze ferroviarie e tranviarie aperte lateralmente e dotate di piattaforma a balcone. E se oggi con l’avvento dell’automobile pronunciamo il lemma inglese   spyder o spider ci viene subito da pensare ad un’automobile con carrozzeria decapottabile a due posti e di impronta sportiva. Ma il termine spider, che in inglese significa ragno, era utilizzato per identificare un particolare tipo di carrozza scoperta a due posti, di costruzione semplice e leggera e molto diffuso in Italia nel XIX secolo, così chiamata perché la minuscola carrozzeria restava sospesa tra quattro enormi ruote a raggi che ricordavano la figura del ragno. la curiosità è che nonostante  l'origine inglese del lemma, in campo automobilistico con questo lemma vengono solo così indicate le auto. Molte volte questo vocabolo “ spider” viene confuso con il lemma cabriolet, che è di norma una berlina con tetto apribile a 4 posti mentro lo spider ne ha solo due di posti.

Favria,  27.10.2013                  Giorgio Cortese

 

W le castagne brusatà della Pro Loco di Favria!

L’origine e la provenienza del castagno è abbastanza controversa, l’origine di questa pianta potrebbe essere l’Asia minore ed il nome, greco, potrebbe derivare da quello della città asiatica KASTANIS. Pare che Senofonte, nel suo racconto sulla campagna in Persia, 400 a.C., dichiara che i soldati greci avrebbero scoperto le castagne durante le incursioni nel territorio della odierna Turchia.  Gli antichi Etruschi, chiamavano i suoi frutti "ghiande di Giove". Delle castagne ne parla Virgilio, Galeno e Plinio e si sa che i Romani ne curarono la coltivazione in Europa prediligendo le zone montuose dell’Italia. Insomma la presenza delle castagne nel Patrio stivale sembra risalire a circa 3400 anni fa, perché proprio in Piemonte è stata ritrovata una piroga, scavata nel legno di castagno, nel lago di Bertignano, Vercelli, e risalente appunto a 3400 fa. Il castagno è una pianta arborea di grandi dimensioni, cresce dai 200 ai 1000 metri di altitudine, è possibile trovarla, in casi eccezionali, anche a 1500 metri, come sulle pendice dell’Etna, ma l’altitudine più favorevole è compresa tra i 400 e i 900 metri. Può raggiungere un’altezza compresa tra i 20 e 30 metri, fruttifica dopo 10/15 anni e raggiunge il massimo della produzione sui 50 anni di età. Ha delle belle foglie caduche, lunghe fin oltre 20 centimetri, lanceolate, con apice acuto, fittamente seghettate, che compaiono ai primi di aprile. Questa generosa  pianta dà i suoi frutti da ottobre a novembre poco prima di perdere le foglie. Il frutto, richiuso nell’involucro spinoso, riccio, rappresenta il seme della pianta. Le varietà sono moltissime ma possiamo fare una grande importante distinzione: castagne e marroni che non sono dei sinonimi. Già nel 1939 esisteva un regio Decreto che distingueva i marroni dalle castagne. Le castagne, dette in piemontese “selvè”, non sono molto grosse, schiacciate da un lato, buccia resistente e colore bruno scuro con polpa saporita. I marroni sono più grossi, un riccio racchiude al massimo 2 o 3 frutti, hanno forma a cuore con buccia striata di colore marrone chiaro e polpa dolce, il frutto è privo della pellicina interna alla polpa. La castagna è il frutto della pianta selvatica, il marrone è quello della pianta coltivata e migliorata con successivi innesti. Il riccio delle castagne ne può contenere fino a tre mentre quello dei marroni ne contiene normalmente uno. E qui arriviamo alle caldarroste, castagne arrostiste sul fuoco. Certo la digeribilità delle castagne è migliore per quelle lesse mentre diventa difficoltosa per le caldarroste. Ma le caldarroste sono buonissime…..Quando sento la fragranza ed il sapore delle caldarroste, le castagne brusatà, nell’animo vengo assalito da vecchi ricordi: “am tôrna an ment ël temp côma ch'a l'era, le storie vere ch'an jë côntava sempre nona granda a randa al feu 'nt le seire 'd le piôvere. E mi, masnà,tra 'n rije e 'na castagna  scôtavô li 'mbajà l'istëssa landa fin che la seugn a ne vnisìa cômpagna. E adess,j'é ancôr n'arcord sì drinta al cheur: le storie 'd nona e 'n fërvain 'd bôneur.”La Pro Loco di Favria, domenica 20 ottobre ha allestito “la Sagra della castagna”, nonostante il clima inclemente, con il gruppo musicale Li Barmenk  che significa “abitanti delle rocce”, cioè le bàrmess i cui trovavano riparo gli antichi abitanti del luogo, i Celti. Li Barmenk sono anche gli abitanti di Balme, il più alto villaggio delle Valli di Lanzo, al confine con la Savoia, paese di capre e cacciatori, di guide alpine e contrabbandieri …e musicanti. Il Gruppo ha proposto melodie tipiche delle sue valli, ma anche quelle di tutto il mondo alpino. Una musica che sa di leggende, di fiabe, di favolose terre lontane… È musica per danzare, per muovere la mente e l’anima con gli strumenti musicali che sono quelli della tradizione popolare come la chitarra, il basso tuba, il violino e il semitun. Il semitun è  una piccola fisarmonica a bottoni . Aprendo il mantice produce una nota e chiudendolo ne emette un’altra . Ha tasti per la melodia a destra , mentre a sinistra sono posizionati i tasti per l’accompagnamento.   A questi si mescolano le suggestioni della ghironda, i toni pastorali della cornamusa e quelli più rustici ed alpestri del corno di stambecchi. Questo gruppo di musici unisce il piacere di fare musica ad orecchio, per sé e per i favriesi convenuti con melodie tradizionali delle nostre valli ma anche quelle di tutto il mondo alpino. A questo indispensabile ingrediente musicale si unisce la laboriosità del sempre presente Direttivo della Pro Loco che ha dirottato la festa nel salone San Michele, causa pioggia, e con genuniana tenacia ha preparato le caldarroste, un grazie sincero e sentito al suo Presidente Ragusi Stefania e a tutti i volontari che hanno permesso la riuscita della manifestazione! E si le castagne'd nostr Piemônt, fruta sincera, nassùe ai pé dij mônt e ant le valà, caôde e brôvà, n'arlegrô'1 cheur. Onhi barota beve ‘na vota! Onhi brusatà beve ‘na gulà!  Onhi barota beve ‘na vota! Onhi mundai beve ‘n bucal.  Le castagne e l’vin  l’è ‘l piat ed San Martin.

Favria, 28.10.2013                  Giorgio Cortese

 

Chi ama gli animali, dovrebbe prima di tutto voler bene agli uomini, altrimenti è solo una belva dalla sembianze umane.

 

Quando vedo passare dei pastori con le mucche, che ritornano dalla montagna sento il desiderio di liberrami per un attimo di tutto quello che di artificioso mi circonda, scendo in strada e mi viene la voglia nell’animo di partire e di andare per strade nuove con la solida terra sotto i piedi e l’ampio ed immenso cielo sopra la testa  per respirare aria che sa di aria vera e vedere nuvole e vaste distese di terra ed erbe e fiori e di nuovi paesaggi, questo è per me il fascino della   transumanza.

 

La radice del problema.

Leggevo su di una rivista una citazione di  Sandro Pertini: “La moralità dell'uomo politico consiste nell'esercitare il potere che gli è stato affidato al fine di perseguire il bene comune." Ma la domanda che sorge nel mio animo è che certo non tutto è uguale, il bene è bene e il male è ma­le. Ma anche dal male può nascere un bene. E coloro che hanno responsabilità politiche e istituzio­nali, coloro che esercitano i poteri cardine della democrazia italiana ad ogni livello hanno il compito di lavorare per que­sto, pena altrimenti la sconfitta di tutti, pena un drammatico inquinamento morale del tessuto dell’intera Patria e un grave colpo al futuro. Oggigiorno è sempre di più necessario e urgentemente  la necessità di ritrovare degli ormeggi oggettivi del primato dell’essere umano, altrimenti continuiamo a nutrirci di belle parole ma ci avvitiamo sempre di più in uno sfrenato individualismo con una morale  falsa, dove tutto e lecito, da una morale dalla parvenza dell’essere sempre protagonisti regalando solo illusioni e favori con il denaro di tutti. E purtroppo le cronache dei giornali e della televisione sono sempre più zeppe di personaggi dalle esistenze fasulle ed ostentante, insomma dei banali venditori di fumo che inquinano le coscienze delle giovani generazioni, rappresentando falsamente che cosi è la vita. Se vogliamo disincagliare la nave Italia dalle secche da questo moralismo di comodo, da questi camaleonti dell’etica si deve imprimere una sterzata netta e decisa. Sandro Pertini apparteneva ad una generazione di uomini politici  dotati di sobrietà e correttezza. Ritengo che si deve ritornare a quei tipici comportamenti, come quello di Giorgio La Pira che scriveva: “Non si dica quella solita frase poco seria: la politica è una cosa 'brutta'! No. L'impegno politico è un impegno di umanità e di santità: è un impegno che deve potere convogliare verso di sé gli sforzi di una vita tutta tessuta di preghiera, di meditazione, di prudenza, di fortezza, di giustizia e di carità.” Ritengo che le persone che ricoprono delle cari­che pubbliche di testimoniare a una cittadinanza sempre più sgomenta per le crepe, vere o presunte sugli stili di comportamento non compatibili con la sobrietà e la correttezza di ritornare ad   adempiere alle funzioni della politica con consapevolezza della disciplina e dell’onore che so­no indispensabili in questo alto servizio esercitando il proprio mandato in palazzi di cristallo, e ben contenti di essere controllati dai cittadini perché se fanno tutto secondo le vigenti leggi non hanno nulla da temere.

Favria, 29.10.2013                          Giorgio Cortese

 

Nella vita importante non abbattere mai una palizzata prima di conoscere la ragione per cui fu costruita.

 

Res gestae favriesi, dalla Galizia a Tarro Boiro

I cognomi doppi e tripli hanno sempre suscitato e ancora suscitano un diffuso interesse. E i portatori di questi nomi doppi o tripli hanno piacere di ritrovare le loro radici attraverso la ricerca, resa ancora più interessante dall’avere più nomi, le loro radici. In Italia i cognomi doppi o tripli non sono molto numerosi a differenza della Spagna e Portogallo, dove per una diversa tradizione sono molto numerosi. Molti studiosi fanno risalire l’origine di un cognome doppio o triplo una certa radice nobile, come l’associazione del cognome originario con il nome del feudo che è stato poi  incorporato come cognome, oppure a causa di matrimoni tra due grandi casate. Ma possono essersi originate per la ricerca di un prestigio sociale di famiglie non nobili ma benestanti.. La  loro origine potrebbe essere l’aggiunta del secondo nome come traccia del paese d’origine. Un’altra ipotesi è l’errata trascrizione da parte del parroco  o del rogatore, o dello scrivano, che nell’ultimo Medio Evo e nel Rinascimento ha fissato in una scrittura anagrafica o ufficiale un cognome. Poiché gli atti erano allora redatti in latino medievale, e questo era a volte scarsamente conosciuto anche da parroci e dai rogatori dei notai, erano frequenti .Ma forse l’ipotesi più verosimile  nella formazione dei doppi o tripli cognomi era la necessità di distinguere i gruppi familiari che avevano lo stesso cognome quando questo era molto frequente nella stessa Comunità, perché allora non  esisteva il codice fiscale. il doppio cognome Tarro Boiro potrebbe essere di origini galiziana, Spagna, Tarro nello spagnolo moderno significa recipiente, ma veniva anche usato come sinonimo di testa, si dice infatti,  un tarro de miel: un barattolo di miele, ma anche a ver si te cabe en el tarro!,  chissà che ti entri in quella zucca! Boiro è un comune spagnolo di attuali  18.730 abitanti situato nella comunità autonoma della Galizia. Boiro  potrebbe derivare dalla deformazione del cognome di origine spagnola Borgia che ha un legame etimologico con la parola Borgo, dal gotico baurgs,  o dal celtico borg, in provenzale borgues, con il significa per entrambi i lemmi di luogo fortificato.Boiro potrebbe derivare dall’antivo tedesco “ burjan”innalzare”, affine al gotico barian, portare dalla radice indoeuropea bor, innalzare. Tarro potrebbe essere una deformazione dialettale del lemma, sempre di derivazione spagnola per indicare un proprietario di un appezzamento di terra. Come si vede il cognome doppio potrebbe, anche, significare l’antica origine di un antenato addetto al porta  stendardo, portare in alto non un vaso ma un insegna come gli aquilifer romani,. oppure gli abitanti di un alto borgo fortificato.

Favria, 30.10.2013           Giorgio Cortese

 

Per apprendere e distingure nella vita non basta solo l’intelligenza, l’informazione e l’occhio vigile. Ritengo che sia necessario quella’incognita in più che è data dalla conoscenza per le cose del mondo che Mi circonda, che viene definita cultura. il luogo che abito con il mio pensiero e con i miei sentimenti aperto all’ascolto degli altri.

 

La vita senza il cellulare del tutto e subito

Quando ero giovane, e viaggiavo a piedi e con i mezzi pubblici   non avevo il cellulare in tasca e anche se l’avessi avuto forse non ci sarebbe stato campo. Allora non c’erano i cellulari e se qualcuno li aveva già inventati, io non lo sapevo. Ho vissuto così per molti anni, viaggiando e camminando, uscendo di casa nella mia città senza scrivere messaggi e senza rispondere al telefono. C’erano i telefoni pubblici e i telefoni nelle case degli amici, se desideravo avvisare che avrei fatto tardi o che avevo perso un treno. Ma quando viaggiavo, quando camminavo o quando salivo sui tanti mezzi pubblici che ho sempre amato, non c’era altro che il finestrino da guardare, e lo scorrere del paesaggio, e i visi delle persone attorno a me, senza nient’altro da fare che vedere e sentire. Un tempo, il viaggio, che durasse tutta la mattinata per andare al mare o solo pochi minuti per andare da Cuorgnè a Campore, una località vicina, per poi ritornare a casa a piedi con mia mamma  era il mio spazio vuoto e io lo riempivo con la mia immaginazione. C’erano fili invisibili che legavano il mio animo alle persone a cui volevo bene, potevo parlare con loro anche solo pensandoli, vedendoli e sentendoli con il terzo occhio, quello che fa scorgere ciò che è nascosto oltre i muri, i boschi  e anche le montagne. Poteva capitare anche che io pensassi a qualcuno e poi lo trovassi, senza averlo chiamato prima, senza avergli dato appuntamento. A volte non occorre andare troppo lontano per scoprire che le persone a cui vogliamo bene ci sono sempre vicine. Adesso dopo diversi anni che ho il cellulare, acquistato perché quando agli inizi del duemila è scoppiata la moda del cellulare, diverse persone chiedevano il mio numero e che per chiamarmi non volevano aspettare neppure un minuto. Ora il telefono fisso non suona quasi più e il cellulare suona anche mentre sono in strada, ma non sempre lo sento: è troppo forte il rumore dei clacson e delle auto  che mi corrono accanto. Così, quando, dopo minuti o ore, scopro una chiamata o un messaggio inaspettato, sono sorpreso e sorrido.L’altro giorno una cliente aveva un  braccialetto che raffigurava un serpente che si mangiava la coda. questo mi ha fatto ricordare che questo simbolo un tempo era il simbolo degli alchimisti, di coloro che volevano illuminare le persone, renderle luminose e radiose come l’oro. Non era facile, per giungere all’oro occorreva passare attraverso la luce o la pesantezza di altri metalli, il piombo e l’argento per esempio. E se l’argento illuminava, il piombo rischiava di far piombare nella tristezza anche chi dei metalli conosceva ogni segreto. Ma quello che significava quel cerchio e quel serpente che si morde la coda, era ed è tuttora che niente va perduto e che niente deve restare fisso, ma che tutto può muoversi e cambiare. Così cerco sul cellulare i nomi che contiene la rubrica degli amici, i conoscenti, anche i nomi di coloro con cui non parlo da troppo tempo. È sufficiente per salutarli, per augurare loro Buona Vita, per sperare che, con il terzo occhio, anche loro mi stiano guardando. Potrei leggere la mia rubrica di carta, ma con il cellulare so che posso decidere anche all’improvviso di mandare un messaggio. Scrivere e leggere a volte è come viaggiare. Forse è per questo che mi piacciono così tanto le mail, quelle che contengono saluti o inviti inaspettati.  Oggi il cellulare ha sostituito l’antico postino, adesso per questo c’è la mail su internet, anche dal cellulare e così  mi chiedo se resisterò, riuscirò per sempre a non avere un cellulare con la posta elettronica e di aspettare ancora di tornare a casa per leggere al computer chi mi ha scritto, come facevo da bambino quando guardavo nella casella della posta per giorni, attendendo la lettera di qualcuno che viveva lontano e pensavo che il postino fosse il mio più grande amico? Personalmente mi  piace anche ora come allora aspettare, immaginare, provare a leggere il pensiero di chi, come me, forse mi sta pensando. Mi piace vedere lo schermo illuminarsi d’argento, di promesse, di speranze, ma mi piace anche il cielo plumbeo, quello del temporale e della luce d’oro del sole che si accende con una nuova speranza, quando le nuvole si sono allontanate. L’argento si estrae dal piombo e la voce di un amico può essere argentina, se è stata attesa a lungo.

una volta quando non c’era il cellulare, se l’auto mi avesse lasciato in panne  nella notte,  il cellulare mi avrebbe salvato se lo avessi avuto? C’è chi dice di sì e forse ha ragione. Ma di quello spazio vuoto, di quel cerchio in cui potevo perdermi e ritrovarmi, anche per qualche ora, prima di raggiungere una cabina telefonica con i simpatici gettoni, ne sento  spesso un po’ di nostalgia. Così quando posso spengo il telefonino e lo faccio inserendo la modalità d’uso 'aereo'. Mi sembra di essere ancora in viaggio anche se sto facendo solo un giro fino al parco, dove corrono i cani e dietro ai cani, i loro padroni.

Favria,31.10.2013     Giorgio Cortese

 

La settimana degli infingardi

Magna Gin perdù la roca, / Tut ‘l lunes a l’a sercala/ Martes seira a l’a trovala,/Mercò ‘d neuit a l’a ramgiala,/Gioba ai campa antòrn la rista, /Vener a l’a perdula  ‘d vista, Saba as grata ‘poc la testa/ E dòminica a fa la festa  (tratto da un sussidiario d’inizio novecento recentemente acquistato