Personalmente non temo la morte, ma  mi inquieta il pensiero della morte

Novembre

Nuvenbar, cum pruina, và ‘ntal busch fa la fasina.  Nuvenbar, la nebia a cala ‘nsima ai camp e ai prà, a coeuvr pian e montagne, a quata j’ort: scura, grisa pesanta, ammusònà. A fa pensè ai nostri povri mort: “portòmie ii crisantem ‘d tuti ij giardin, con lòli ‘d nòs viscòme ‘d cò ‘n lumin.

All Hallows Eye!

Nel trionfo del macabro, mi domando che cos’è Halloween?   Prima di tutto significa Vigilia di Ognissanti, questo significa Halloween, All Hallows Eye!, ma da noi per qualcuno  è diventata la sera in cui tutto è lecito,  all allows even.  Nessuna demonizzazione, se Halloween si limitasse a essere un carnevale troppo precoce e tanto caro a chi deve vendere gadget, se questo serve ad aiutare il commercio va bene. Ma questa americanata è la celebrazione collettiva di un vuoto pneumatico che molte volte diventa tragedia, e a raccontarlo è la cronaca di ogni anno. Zombie e vampiri occhieggiano dalle vetrine nella vigilia del giorno dedicato ai Santi, promettendo 'Una notte di paura', e fin qui è il carnevale, ma poi la paura arriva davvero, e si chiama superalcolici e non solo, buttati giù senza remore. basta storpiare etimologia e tradizioni. La bellezza salverà il mondo, scriveva Dostoevskij, ed io spero in questo. Le due festività cristiane, quella di Ognissanti e la Commemorazione dei defunti dei primi giorni di novembre, presentano un contenuto antropologico spesso vissuto intensamente a livello personale e collettivo, a volte senza che ce ne rendiamo conto. Pensate che entrambe le ricorrenze hanno radici remote, la prima nel cristianesimo orientale e recepita già da papa Bonifacio IV quando, nel 609, trasforma il Pantheon, dedicato agli dei dell’Olimpo, e consacra la nuova chiesa in onore della Vergine e tutti i Santi. Ma la festività universalizza la svolta storica e spirituale che il cristianesimo aveva realizzato sin dagli inizi nei confronti delle mitologie pagane. La visione beatifica, riservata a coloro che fanno la volontà di Dio, irrompe nella storia del pensiero e cancella la mestizia e la malinconia dell’oltretomba pagano. Chi conclude la propria esistenza camminando sulle vie del Signore non è più una pallida ombra dell’Ade, destinata a peregrinare in territori sconosciuti e tristi, fin quasi a far rimpiangere la terra, ma realizza il compimento dell’essere ricongiungendosi con il Dio creatore e la visione beatifica che non avrà fine. In questo modo l’uomo si riempie di speranza, sente dentro di sé una nuova spinta ad agire bene perché così facendo pone le basi per il proprio destino eterno, perchè ciascuno di noi costruisce la propria anima tutti i giorni nel corso dell’esistenza terrena. Ma  il pensiero che si potesse ottenere l'immortalità solo con il proprio ricordo presso le generazioni future, era già presente trai gli antichi romani,  Quinto Orazio Flacco, il più importante poeta romano, ne era convinto  e si s'impegnò nei suoi eleganti componimenti poetici, artisticamente eccellenti, perché restassero a memoria perenne della sua vita e il suo nome si conservasse nel tempo. Ma allora considerando seriamente l'ineluttabilità della morte, il mio personale pensiero di volgere  ogni tanto nella giornata su ciò che accade alla fine della vita deponendo per un solo attimo le  preoccupazioni esclusivamente materiali, come dice Marco Tullio Cicerone nelle Tusculanae Disputationes: “Che cos'altro è separare il corpo dallo spirito, se non imparare a morire?”, insomma apprendere l'ars moriendi. Tornando ad Hallowen, che tristezza,  pochi e sparuti cenni ai nostri Santi. E pensare che non siamo neanche bravi a scopiazzare, perché se da noi è ormai solo il trionfo del macabro, nei Paesi d’origine Halloween è festa di famiglia e di qualche poesia. Che è anche rispetto dei morti si da loro, in segno di accoglienza, si lascia un dolcetto sulla tavola. Personalmente come da tradizione Canavesano, prepariamo la tavola e mettendo nei piatti le castagna bollite.

Favria, 1.11.2013    Giorgio Cortese  

 

da “Cioche d’j mort…”

Cioche d’j mort, sònè, sòne, sòne

en mes a l’aria silenssiossa e scura.

Basiliche reai, pciti ciòchè

‘d le vai a d’ còline e  ìd la pianura,

ròmitagi stermà ‘m mes a le roche,

cese sotrà tut l’ann sòta a le fioche,

fe senti vostra vòs: sonè ben fort:

sta seiraa i viv devò penseie ai mort

Alberto Virgilio

 

A San Simone il ventaglio si ripone; a Ognissanti, manicotto e guanti.

 

La morte

“La morte è il riposo, ma il pensiero della morte è il disturbatore di ogni riposo”  Cesare Pavese. La frase sopra riportata mi sembra molto pertinente in questa giornata e  mi pare che sia desunta dal suo diario, Il mestiere di vivere, pubblicato postumo nel 1952. Sì, è proprio vero, tante volte   forse mi  sfugge la frase “Meglio morire che tirare avanti così!”, nella convinzione di trovare finalmente pace e riposo. Ma quando poi penso seriamente alla morte, allora la musica cambia. Un fremito gelido s'insinua in me e io mi immagino disteso nel rigor mortis. Il pensiero di una realtà così “naturale” com'è il morire mi sconvolge e disturba il mio quasi quieto vivere, tant'è vero che faccio di tutto per cacciare dalla mia mente questa meta a cui sono votato e che forse non è poi così remota come vorrei sperare. Eppure già il grande Montaigne invitava a «pre-meditare la morte» come principio di libertà. Questa riflessione, infatti, eliminerebbe tante servitù, mi darebbe una scala diversa dei valori, mi libererebbe da paure inutili e da meschinità, mi fortificherebbe nell'agire in modo giusto, degno e pieno. Il pensiero della morte è, quindi, per me un “disturbatore” necessario.

Favria, 1 novembre  2013   Giorgio Cortese

 

Aggiornamento di una piccola goccia di sangue

Nella seduta del 24 ottobre, la Camera dei Deputati ha approvato l’emendamento a favore dei Donatori di sangue. I giorni di lavoro utilizzati per le donazioni di sangue ed emocomponenti saranno considerati utili ai fini pensionistici.Il disegno di legge di conversione del DL 101 del 31 agosto 2013 avendo subito modificazioni da parte della Camera dei deputati è stato re-inviato al Senato per l'approvazione definitiva.

Lo Staff Fidas ADSP

mercoledì 30 ottobre 2013

Finalmente approvato definitivamente, mercoledì 30 ottobre, l'emendamento a favore dei donatori di sangue. È stato approvato definitivamente dal Senato l’emendamento che estende la definizione di “prestazione effettiva di lavoro” anche alle assenze per la donazione di sangue ed emocomponenti.Il Senato, con 174 voti favorevoli, 53 contrari e un astenuto ha approvato definitivamente, in terza lettura, il decreto-legge n. 101, recante disposizioni urgenti per il perseguimento di obiettivi di razionalizzazione nelle pubbliche amministrazioni (ddl n. 1015-B).

 

Il mese di bruma, cioè novembre, dinanzi mi scalda, e di dietro mi consuma. Se di novembre tuona, l'annata sarà buona

 

Ma siamo felici?

Leggevo su internet questo post: “Non rovinare mai il tuo presente per un passato che non ha futuro”. Questa frase che a prima vista può sembrare fatta per ammiccare ad una illusoria e banale felicità lascia nell’animo dei pensieri positivi. Il primo pensiero è corso a Seneca “Sulla felicità”. “ Felice è l’uomo per  cui non esistono il bene e il male ma solo l’animo buono o malvagio, che pratica il bene, si contenta della virtù, non si lascia esaltare ne abbattere dagli eventi, non conosce bene più grande di quello che può procurarsi da solo e pensa che il vero piacere sta proprio nel disprezzare i piaceri”. Ma, poi riflettendo sulla felicità mi è venuto in mente che cosa scriveva   il filosofo danese ottocentesco Soeren Kierkegaard: “La porta della felicità si apre verso l’esterno cosicché può essere rinchiusa solo andando fuori da se stessi.”. Certo una  porta che si spalanca verso l’esterno è piuttosto rara, con le sue due ante protese in avanti sembra più invitare a entrare che a tener protetti gli abitanti della casa dalle incursioni esterne. La porta della felicità di  Soeren Kierkegaard, è una porta  molto diverso dalle contemporanee porte blindate, come la mia che ho all’ingresso. Oggigiorno la porta blindata può essere assunta come simbolo delle paure , delle diffidenze che germogliano nel nostro tempo. Ed è così che anche la serenità gioiosa scompare. Tutto questo non vale solo per la società, vale anche per noi stessi. I condomìni, con le loro porte blindate, incarnano una sconfitta dell’umanità che non si stringe più la mano sospettando che in quella dell’altro si celi un’arma. Sono piccoli mondi fatti di solitudini che convivono solo spazialmente. Ecco, allora, la necessità di una paziente opera di ricostruzione dell’incontro, del dialogo, dell’uscire in cortile e sulla piazza per ritrovare la capacità di stare insieme, di parlare e di ascoltare, di guardarsi in viso e negli occhi e forse di essere veramente felici.

Favria, 2.11.2013       Giorgio Cortese

 

Anche una vita breve è abbastanza lunga per vivere con virtù e onore.

 

Una ricorrenza che ci unisce!

Il 4 novembre 1918: fu firmato l’armistizio tra il Comando dell’esercito italiano e quello austriaco. Il  4 novembre 1918 terminava la prima guerra mondiale. Con l’entrata delle truppe italiane vittoriose a Trento e Trieste, dopo quasi tre anni e mezzo di combattimenti, si concludeva quella che allora venne definita la “Grande Guerra” e si completava il processo di unificazione nazionale. Tre anni dopo, il 4 novembre 1921, l’Italia si stringeva attorno alla figura del “Milite ignoto”, un soldato senza nome per  quella che rappresentò la prima forma di elaborazione del lutto personale e collettivo e, soprattutto, un simbolo di identità collettiva e di unione. Ecco perché il 4 novembre si celebra il Giorno dell’Unità Nazionale e Giornata delle Forze Armate. Una giornata che il Regio decreto n. 1354 del 23 ottobre 1922  dichiarò festa nazionale. Da allora sono passati 95 anni, ma quella vittoria è entrata non soltanto nella storia e nel ricordo degli italiani. Essa ha ancora il potere di evocare il sentimento della Patria, sia pure in forme sbiadite e come circondate da uno strano pudore. Oggi quasi nessuno usa la parola Patria. Dice «questo Paese», o «l’Italia». Forse la ragione principale è che nel Ventennio si è parlato troppo e male della Patria, quando si riteneva gloriosa la conquista di Patrie altrui; quando si parlava continuamente di guerra e di conquista, come fossero necessità fatali. Ma, dopo novantacinque anni,  i  traviamenti del passato si potrebbero dimenticare. Con la vittoria nella prima guerra mondiale fu raggiunta la completezza geografica dello Stato, con il territorio di Trieste, il Trentino e l’Istria. Soprattutto cominciò a nascere negli italiani, fino al 1861 divisi in piccoli regni, ducati, arciducati, e così via, la coscienza di far parte di un unico Stato e un’unica Nazione. Si realizzò un sogno di poeti e di spiriti eletti che era nato molti secoli prima. Però per la vittoria, che indichiamo col 4 novembre I918, l’Italia neonata aveva dovuto pagare un prezzo altissimo. Seicentomila furono i morti, un milione i feriti, moltissimi dei quali rimasero mutilati. Ormai conosciamo infiniti particolari di quella guerra, vittoriosa alla fine, ma dolorosissima sul piano umano. Gli scrittori che vi presero parte, tra cui i fratelli Stuparich, Scipio Slataper, Vittorio Locchi, Antonio Baldini, Giuseppe Ungaretti, Renato Serra, Carlo Emilio Gadda, Riccardo Bacchelli, Emilio Lussu, Gabriele D’Annunzio, ne hanno parlato con tonalità differenti, a volte esaltate, a volte pensose, a volte dolorose e drammatiche, ma quasi sempre animate da grande e sincero patriottismo. Ma gli storici più recenti l’hanno vista con occhio imparziale, senza più alcuna retorica, o illusione, o mitizzazione e nie loro libri il conflitto è visto sempre dalla parte del povero fante, costretto a stare nelle trincee pantanose, affamato, impaurito, sempre in attesa che arrivasse l’ordine di uscire all’assalto per conquistare qualche centinaio di metri, una trincea nemica, o una collina insignificante sul versante strategico. Conquistarla significava lasciare sul terreno migliaia di morti; pochi giorni dopo, non di rado, veniva di nuovo perduta. I soldati erano spesso giovani ventenni, strappati ai loro campi, agli affetti, al lavoro quotidiano, ai loro veri interessi, per andare a morire in luoghi sconosciuti, per combattere altri soldati che non avevano alcuna ragione di odiare. Nelle trincee popolani di tutte le regioni, i quali spesso conoscevano soltanto il loro dialetto, non riuscivano quasi a capirsi, se non sul piano dei sentimenti e dei fatti. Dopo il 1917, l’anno di Caporetto, delle grandi sconfitte dell’Intesa, s’erano verificati grandi fatti che avevano cambiato radicalmente la situazione militare. Il crollo della Bulgaria, sotto la pressione della spedizione interalleata di Salonicco. Poi quello della Turchia, che si piegò all’armistizio di Mudros. Però le cose cambiarono soprattutto perché l’intervento degli Stati Uniti ormai si faceva sentire in modi massicci. Tre milioni di uomini, mezzi militari e vettovaglie a non finire. Ma anche il contributo italiano fu determinante. Lo riconobbe persino il maresciallo Eudendorf in una lettera famosa. Dalla battaglia del solstizio fino all’ingresso a Trieste e a Trento fu un’avanzata lenta ma continua ed esaltante. Il Piave, Vittorio Veneto diventarono subito leggendari. Il presagio della vittoria galvanizzava persino i poveri soldati contadini. Anch’essi cominciavano a rendersi conto che la Patria, nonostante tutto, era una cosa importante, grandiosa, e che i loro tremendi sacrifici avevano avuto un significato che rimane nei nostri animi con la sincera gratitudine di quanto hanno fatto. La  prima guerra mondiale è per noi italiani l’unico conflitto che non pone problemi per l’identità italiana. È stato in qualche modo condiviso, ancorché imposto alla popolazione e deciso da pochi. È stata comunque una guerra unificante. Il recupero quasi archeologico dei siti non è solo fisico, ripropone il contesto umano dei vinti e dei vincitori.

Favria, 3.11.2013                 Giorgio Cortese

 

Certo il Tempo è  grande maestro, ma sfortunatamente uccide tutti i suoi studentie e pochi  trasmettono agli altri la lezione.

 

Res gestae favriesi da Melchiorre a Chiono

Uno dei Re Magi, si chiamava Melchiorre da una radice semitica, che significherebbe melekh  o melk, "re" e or "luce", e significa quindi "re della luce"[ oppure "il mio re è luce". Altre fonti, forse interpretando diversamente il secondo elemento, danno come significato complessivo "città del re". Da questo nome proprio tradizionalmente attribuito ad uno dei Magi, anche se nella Bibbia rimangono sempre anonimi, nel medioevo si è formato il cognome Chiono attraverso ad una perdita progressiva della radice del nome dovuta a forme dialettali. Ma sapete perché i tre re del presepe si chiamino Magi? La parola è persiana e può significare scienziato, interprete dei sogni o sacerdote. I francesi li chiamano Rois mages e gli spagnoli Reyes magos, ma gli inglesi parlano di Three wise men,  tre uomini saggi, e i tedeschi di Heiligen drei Könige, tre santi re. I loro nomi appaiono nel Medioevo come Milichior, Bithisarea e Gathaspa. Melchiorre è d’origine ebraica e vale “re della luce”; Gaspare è nome indiano e Baldassarre caldeo, “principe di Bel”. La Chiesa li “scopre” solo in epoca rinascimentale e dal 1500 con i loro nomi sono battezzati molti bambini. Nel tempo, diventano cognomi diffusissimi. A parte parte i tanti suffissati,  Baldassarini, Gasparetti, Gasperini, ecc.), ci sono le varianti e le forme che hanno perduto le prime sillabe: dunque Valdiserri, Sarri, Melchionni, Marchionni e Chionni, Chino, Chenal, Chiorre e Chiorri, Parrini e Parini, Pari e Parietti e molti altri derivano dai nomi dei Magi. La variante Chebnal è valdosatana di probabili origini savoiarde, Chionno, quasi unico, è talentino e Chiono, molto molto raro, è piemontese. Con il cognome Chiono in Italia ci sono 38 persone.

Favria, 4.11.2013                     Giorgio Cortese