Res gestae favriesi,  da Zizyphus a Giuggia

Estremamente raro sembra specifico del basso cuneese ai confini con la Liguria, dovrebbe derivare da un soprannome legato al vocabolo dialettale zuggia o giuggia, la giuggiola, il frutto del Zizyphus sativa,  con riferimento o a caratteristiche del carattere o ad una località vicina ad un albero di giuggiolo, o anche per un riferimento al fatto che il giuggiolo era in epoca tardo romana il simbolo del silenzio e come tale adornava i templi della dea Prudenza

Favria,  22.11.2013                    Giorgio Cortese.

Molte volte  il desiderio di essere amico si decide in fretta,  ma l'amicizia è un frutto che matura lentamente.

La modestia

Un amico che mi legge, dopo aver letto la mail sull’ambizione, mi scrive che ha molta più paura della modestia piuttosto che della troppa ambizione. Continua nella sua lettera affermando che la  modestia sia una vera e propria forma di masochismo, perché grazie alla modestia, secondo il suo pensiero,  tutto ciò che di unico e prezioso c'è in questo Patrio Stivale viene svenduto in saldo all'estero. Conclude la sua interessante mail quali sono secondo me gli aspetti  positivi della modestia. Innanzitutto modestia, deriva dal lemma latino modestus  che è sincope linguistica,  ovvero  la caduta del suono all’interno della parola sempre latina  modestatus che è il participio passato di moderari, regolare, temperare e che  sta per moderarsi, che si contiene nei giusti limiti con semplicità. Insomma la temperanza che è poi, per conto mio,  il buonsenso  illuminato dall’esperienza. Ma per capire meglio la modestia mi  permetto di scrivere  quanto già affermava lo scrittore  moralista francese Jean La Bruyère, nel lontano 1688 nei suoi “Caratteri”,questa affermazione: “La modestia è per il merito quello che sono le ombre per le figure di un quadro: essa gli dà forza e rilievo”. Insomma la  modestia è  diametralmente opposta alla  superbia ed è la sorella dell'umiltà, e chi la possodede non sa di  possederla. Oggigiorno si può affermare che è una qualità o meglio virtù molto rara, infatti,  ai nostri giorni che privilegiano le apparenze, l'ostentazione, l'inganno pubblicitario che spaccia per azione oneste delle squallide operazioni commerciali. Ritengo che ci sia  una trafila di comportamenti pubblici e privati che militano contro la modestia e che sono apprezzati in modo protervo, e mi riferisco alla sfrontatezza impudente di certi personaggi che mi lascia senza parole, alla sfacciataggine maleducata, all'arroganza spavalda, a tutti gli eccessi di cui sono spesso testimone  impotenti e talora molte persone oneste per il quieto vivere sono persino conniventi. Ma della  frase di La Bruyère quello che mi colpisce  sono le ombre del quadro, pur essendo molto scarso nell’arte del disegnare, per non dire negato, è noto a tutti  che  l'ombreggiatura in un dipinto è fondamentale per far risaltare una figura.  Il chiaroscuro è uno bellissimo mezzo di profondità pittorica e di emozioni interiori, e al riguardo mi viene in mente il grande Caravaggio col suo impasto di luce e penombra e tutto questo vale anche per la vita.  Il virus della superbia si annida tra le persone che stanno troppo esposte ai pubblici riflettori, che perdono così il contatto della realtà e non capiscono che rendono un grande servizio se si ritirano. Anzi dico di più, come luce risalta proprio perché c'è l’ombra e molte volte si ammira una persona  non perché è necessariamente perfetta, ma perché ha anche una linea d'ombra, un limite e forse a questo punto bisognerebbe fare un elogio dell'ombra.

Favria,  23.11.2013       Giorgio Cortese

 

23 novembre San Clemente, papa, martire. A san Clement a chito le smenss. A San Clement l’invern a buta ‘n dent. Per San Clemente l’inverno mette un dente .

 

La fastidiosa seccatura dell’impazienza.

Tempo fa una persona di fronte a delle precise domande fatte da un mio caro amico ha affermato che gli recavamo solo fastidio. Si tratta  di una parola estremamente comune e innocente, ma se analizziamo bene il suo significato bisogna   pensarci un attimo di più. Il lemma deriva dalle parole del latino fastus, orgoglio e taedium, noia. Già l’origine etimologica della parola dice la natura di una parola che afferma  una ripugnanza superba. Il fastidio è un disagio, un impiccio che si reputa tanto sgradevole perché è  causato da qualcosa di inferiore, come il  fastidio di una puntura di zanzara, il fastidio di un taglietto in bocca, il fastidio di una pratica che tarda ad essere sbrigata, il fastidio di un tizio che fischietta o canta per strada. Ma questo lemma non viene mai usato per indicare il fastidio delle persone superbe o di certi personaggi che fanno fatica a mettersi da parte,   e solo un nobile ricchissimo autocrate francese del '700 scriveva del fastidio procuratogli dalla pioggia. e molte volte queste persone che sono superbamente infastidite non si rendono conto che noi bipedi umani siamo solo gli ultimi frequentatori di un mondo dominato e regolato dagli insetti, che il taglietto che frizza è una utilissima anzi fondamentale innovazione biologica congegnata attraverso tre miliardi di anni di evoluzione e che di persone che hanno fretta per la loro pratica  ce ne sono centinaia di migliaia, che quel tizio che fischia o canta magari è felice e chi si dimostra infastidito investe energie ad infastidirsi ancora di più. perché l’ impazienza rovina tutto. Le cose maturano lentamente, come le piante, a me basta, molte volte averle iniziate bene. Mi sento ogni giorno debitore di tutte quelle persone che hanno iniziato a vivere prima di me, anche nelle afflizioni e nelle lacrime. Se sono iniziatore è perché ho raccolto, ritengo che bisogna ritrovare il senso  ampio di questa continuità che si salda al passato e al futuro, nella fedeltà e nella speranza. il rischio dell’impazienza, si annida in ogni passo della vita quotidiana, se per fare un bambino ci vogliono nove mesi, per la crescita anni, per la maturazione piena forse neppure un’intera vita basta. Nella vita non incomincio ogni giorno mai da zero, sono sempre debitore di chi è vissuto prima di me, e non solo quelli che sono ricordati nei libri di storia, ma  di tutti, si proprio tutti anche a quelli ignoti, spesso, infatti mi ritengo un nano sulle spalle dei giganti, che sono loro e mi permettono di vedere lontano. Gli antihi romani dicevano che: “Natura non facit saltus, la realtà si sviluppa progressivamente, e allora ogni giorno vado avanti con caparbia coerente pazienza, fedele al passato ma aperto al futuro,  all’evoluzione, alla speranza.

Favria, 24.11.2013    Giorgio Cortese

 

Spesso i detti popolari, nascono dalla saggezza o dalla vita stessa del popolo, lo caratterizzano e ne tramandano consuetudini ed insegnamenti, indirizzi di vita e di regole di condotta, nella realtà concreta dell'esistenza come: Pistè ‘l fum e fè le fassine d’sabia .Voler fare l’impossibile.   Lamentesse d’gamba sana. Lagnarsi senza motivo

 

Solo il mendicante

Inizio la mia riflessione prendendo una frase di Adam Smith, tratto da “la ricchezza delle nazioni” del 1776: “Solo il mendicante sceglie di dipendere principalmente dalla benevolenza dei suoi concittadini.” Ritengo che dovremmo approfittare di questo tempo duro per riflettere, più in profondità e più assieme, sulla natura di quell’attività umana che ci permette il benessere quotidiano e che chiamiamo lavoro. Da questa crisi economica si esce solo se si riattiva la reciprocità lavorativa. E per farlo occorre saper guardare il mondo che ci circonda anche con gli occhi degli altri. Pensiamo per ipotesi di anadre ad abitare con al concittadini su di un isola deserta in mezzo all’oceano. Bene una volta approdati e siste­mati capiremmo presto che per far crescere e sviluppare le nostre famiglie e il villaggio è op­portuno passare da un’economia 'domesti­ca' di auto-produzione a una economia 'po­litica' di scambio, dove ognuno si adoperi af­finché ciò che sa fare sia utile agli altri, e o­rientare così a proprio vantaggio il lavoro de­gli altri abitanti. Se poi tra quegli abitanti ci fossero delle per­sone con abilità che non incontrano i bisogni degli altri, queste persone dovrebbero essere capaci di convincere qualcuno dell’utilità del­le cose che sanno fare. E se non ci riuscissero, dovrebbero presto imparare a fare altri me­stieri, per non finire tra i mendicanti e dipen­dere dalle elemosine, come nella frase iniziale. Questo  banale esercizio può dipanare dal cervello forse tre verità che sono fonda,memnatli ma che vengono quasi sempre trascurate. I beni diventano ricchezza e portano benessere grazie  al nostro lavoro. Secondo, lavorare in una economia di mercato, è essenzial­mente una faccenda di reciprocità. Terzo che il sistema economico si inceppa quando si inter­rompe questa catena di reciprocità lavorativa. attualmente viviamo in un sistema capitalistico finanziario che sicuramente non pè fondato sulla reciprocità dei bi­sogni ma sull’avida ingordigia di scalti ed inumani speculatori e sulle rendite finanziarie che sono una mutazione negativa del principio del buon mercato, proprio perché nega la reciprocità dei bisogni. Certo sarebbe bello fare il lavoro che piace senza dipendere da bisogni reciproci o ancora per qualcuno si ritiene soddisfatto del vivere di elemosina sociale per tutta la vita come sembra orientare questo tipo di  economia avida e senza scrupoli che foraggia i ceti indigenti per continuare a speculare a suo piacimento nelle tasce dei pochi che ancora lavorano e producono reddito. Ma  il lavoro, certo è pesante, e non lo nego ma, in questa lunga fase di crisi del lavoro, che du­rerà ancora molti anni, dobbiamo tener ben presente che la natura più vera del lavoro è la reciprocità, l’incontro di bisogni. Il lavoro mi le­ga gli uni agli altri, è il principale cemento del­la società, persino quando questa reciprocità convive con squilibri di potere, denaro, re­sponsabilità,  anche se questi squilibri so­no sempre una minaccia alla durata e dignità di ogni reciprocità. Lavorare è un’ottima cura di ogni forma di narcisismo, perché mi spinge a mettermi nei panni degli altri, e a chiedermi ogni giorno: “Che cosa di ciò che so fare, o che potrei fare, interessa anche gli altri?” una qualità che manca oggigiorno per vivere bene in una economia di mercato è l’empatia, il saper anticipare e intuire i bisogni e i desideri degli altri, e cercare di soddisfarli. Il mercato civile è un meccanismo sociale attraverso il quale ci scambiamo beni e servizi che non verrebbero all’esistenza se ciascuno seguisse soltanto le proprie aspirazioni e vocazioni e il piacere individuale.  È anche da questa prospettiva che si può cogliere il significato più proprio della parola interesse. L’interesse è certamente ciò che mi interessa, ma è anche ciò che interessa agli altri, è la relazione che sta tra di noi, il lemma inter-esse, e che mi consente di incontrare ed ascoltare gli altri. Certo la vera reciprocità nella vita civile e nel lavoro non è semplice, richiede sempre creatività e impegno in tutte le parti coinvolte. Così accade che, per evitare questa fatica, si cerchino e imbocchino scorciatoie.  Mi viene da pensare come in certe società fermo come mentalità le attività di cura vengono assegnate alle donne che devono svolgere per 'vocazione', una vocazione che consisteva nel servire tutta la vita altri, e soprattutto noi maschi! Il maschio che cosi pensa come ragionamento ottuso che i propri bisogni di cura e di accadimento siano soddisfatti dalla vocazione di mogli, figlie, sorelle o suore. È un enorme miglioramento in umanità e dignità che molte di queste attività di cura passino oggi per il mercato, (possibilmente civile e non capitalistico, un mercato che in questi casi può diventare un prezioso alleato della reciprocità – anche questo è sussidiarietà.  Sono convinto che la nostra crisi dipenda anche dall’aver creato nei decenni passati troppi 'lavori', e non solo nel settore pubblico,che si sono arrestati prima della reciprocità, per insufficiente creatività e impegno da parte di imprenditori, lavoratori, e istituzioni. Eppure, ci sono poche esperienze umane più dolorose di quella di sentirsi fuori dall’intreccio di reciprocità di cui è intessuta la vita in comune. La pensione è spesso una esperienza molto dolorosa se chi lascia il lavoro non continua a sentirsi, in altri modi, utile ai propri concittadini. Ritrovarsi disoccupato è tragico non solo perché si perde lo stipendio, ma perché si esce da questa rete di reciprocità.

Favria,  25.11.2013  Giorgio Cortese

25 Santa Caterina, vergine e martire

A Santa Catlina le bestie ‘nt la cascina. Da Santa Catlina a Natal un meis ugual. Istà d’ Santa Catlina a dura da seira a la matina.A Santa Catlina la fioca n’sla colina. Per Santa Caterina, la neve alla collina. Per Santa Caterina, la neve sulla spina.