Gran mercé merciaia Annisa!

C’è un negozio a Favria che nonostante la globalizzazione resiste, uno di quelle attività che però faticano sempre di più a trovare spazio mediatico nell’era di internet, ma che le donne, specialmente, ne hanno un assoluto bisogno. Di che cosa parlo, ma della merceria di Annisa in via San Pietro che è aperto da 45 anni, e di persone da vanti alla vetrina e nel negozio ne ha viste passarea davvero tante. Già merceria lemma che deriva dall’antico francese  mercerie, che deriva dal lemma sempre francese  mercier, merciaio. Da questo ultimo lemma deriva anche l’antico italiano merciare con il significato di trafficare. Tutti questi lemmi derivano per dal lemma latino merx genitivo di mercis, le cose minute che si vendono ed appartengono ordinariamente al vestiario. Infatti la merceria è il  complesso degli oggetti che si vendono nella bottega del merciaio, e cioè cucirini, aghi, spilli, nastri, elastici, bottoni, ecc., di solito occorrenti ai lavori di cucito e di rifinitura in sartoria, e anche piccoli capi di biancheria, specialmente per donne e bambini. Se dovessi entrare in merceria  per acquistare direi: “Buongiorno, cerco ago e filo per imbastire gli orli dei precipizi del mio animo e per non e non rischiare questa caduta la caduta impietosa proverei nostante che non sia avezzo a  ricucire qualcosa in attesa del sarto che di certo verrà a rifinire il vestito del mio animo consunto e sollevando ogni tanto lo sguardo controllerà le pieghe e se  tiene il tessuto, e alla fine indosserò il mio animo e solo allora  saprò come cade e il suo prezzo quale.”  Certo che da questa parola trae anche origine la parola merce, in genere minuta che si vende in merceria ma anche mercé, anticamente  merzé, troncamento di mercede,  antica forma di ringraziamento, equivalente a «grazie» spesso preceduto da gran, con sign. quindi analogo a «molte grazie che è simile al francese mercì. ed è quello che dovremmo dire ad Annisa per il suo lavoro qui nella nostra Comunità

Favria, 18.06.2014    Giorgio Cortese

 

"Nessuna regola senza eccezione", ma non si dice nessuna legge senza eccezioni; segno che nelle regole ci si riserva una più libera applicazione

 Hic sunt leones

Questa espressione mi è sempre piaciuta, all'inizio mi ha fatto pensare alle savane, dove i leoni regnano incontrastati e dove i romani appunto li catturavano per portartli nelle arene e li facevano combattere con i gladiatori.In verità il suo significato va ben oltre la letterale traduzione,  Hic sunt leones, qui ci sono leoni, era una legenda che nelle antiche carte geografiche dell'Africa indica le regioni inesplorate. L'uso proverbiale di questa espressione sottolinea un pericolo incombente, ma no ben delineato o una parte sconosciuta del sapere.

Favria  19.06.2014    Giorgio Cortese

 La politica è un servizio per il bene comune.

 Fare quadrato con il quadrello?

Certi giorni sembra girare tutto storto, la tentazione di diventare maleducato e sgradevole è forte ma poi penso che vivere la vita con bon ton è più gratificante. Certo la tentazione di fare quadrato con il quadrello pugnale con lama a sezione quadrangolare e punta acutissima, usato nel medioevo o anche il nome di un dardo corto lanciato con le balestre. entrambi gli etimi  di queste armi bianche di guerra derivano dalla caratteristica punta sezione quadra, dal latino quadrus, un  quadrato,  che favoriva una maggiore penetrazione nel metallo delle armature e provocava delle ferite non  facilmente rimarginabili. Certo nella vita si può andare avanti con le cattive maniere, con un metaforico quadrello, ma con le buone è tutto più bello! Ogni giorno quando incontro delle persone la prima impressione, il ricordo che lascio di me è importantissimo per creare nuovi rapporti sociali e d'affari. Il bon ton è un irrinunciabile segreto di vita che consente di viverla con più facilità e mi consente di affrontare le vicissitudini quotidiane con semplicità. Ma che cos’è il “bon ton?” questo termine deriva dal francese è significa “buone maniere”, nasce negli anni  '40-50 ed è uno stile elegante e mai volgare. Un modo di vivere sobrio che deriva a sua volta dal galateo. Il galateo è un insieme di norme comportamentali con cui si identifica la buona educazione,  un codice che stabilisce le aspettative del comportamento tra gli esseri umani che si rispettano. Il nome "galateo" deriva da Galeazzo Florimonte, vescovo della diocesi di Sessa Aurunca a cui si ispirò Monsignor  Giovanni Della Casa in un celebre libro: “Il Galateo overo de’ costumi”, che  è il primo trattato specifico sull'argomento pubblicato nel 1558. Il titolo dell'opera, infatti, corrisponde alla forma latina del nome Galeazzo: Galatheus, appunto. Da quel libro derivano poi il sinonimo  francese “Bon Ton” e il termine etichetta. Ma pensate che il termine italiano etichetta, in spagnolo “etiqueta” e in francese “étiquette”. Mi colpisce molto la parola etichetta, e mi verrebbe voglia di abbinarla come diminutivo di “etica”, insomma  una cosa moralmente corretta, ma invece  il termine deriva dall’antico francese “estiquier/estiquer”, che significa “infiggere, affiggere, attaccare". Oggi si chiama etichetta quella piccola striscia  o cartellino in genere che si applica a merci, bottiglie e contenitori vari per indicarne qualità e prezzo. Ma anticamente  indicava anche un piccolo avviso esposto nelle corti spagnole con la segnalazione del cerimoniale del giorno e le sue rigide regole che andavano dal programma quotidiano, etiqueta passò poi rapidamente a designare il cerimoniale stesso e, con quel significato, dalla Spagna si diffuse altrettanto rapidamente in Francia e nella nostra Patria venne importato dal Marchese di Castiglione, dopo essere stato alla corte di Madrid per ventuno anni. Ritornando al “bon ton”, ritengo che per affrontare al meglio la vita di ogni giorno, per poter esprimere quel personale carisma che è dentro il mio animo è importante fare la differenza per affermare le mie poche ma sincere qualità e per poter dialogare con tutti, mettendo tutti a loro agio e per saper ascoltare con attenzione. Certo non ho la pretesa di insegnare a nessuno le buone maniere, perché ritengo tutti i miei simili dotati di buone maniere e quando si comportano da ineducati è da bon ton non metterli in imbarazzo, intanto la figura da cafoni l’hanno già fatta loro! Ogni giorno penso sempre ad una frase attribuita ad Ippocrate, ci dice: “Ars longa, Vita brevis,” da me personalmente reintempretato che non basta questa mia breve vita terrena per apprezzare tutto il bello che questo mondo mi offre anche nell’arte e allora perché devo perdere tempo a preoccuparmi degli ineducati! Ritengo il Bon ton come un’educazione all’armonia, al bello, a tutto quanto genera ben-essere, e l’Arte sprigiona incanto ed emozioni spesso indescrivibili.

Ps Il quadrello è anche il nome di una gabbia quadrangolare usata nell’uccellagione per tenervi piccoli uccelli, come fringuelli e tordi, che devono servire da richiami, insomma con il bon ton ci liberiamo dalla quotidiana gabbia della maleducazione e siamo liberi di vivere con educazione all’armonia, al bello, a tutto quanto genera ben-essere,  che sprigiona emozioni spesso indescrivibili.

Favria, 20.06.14      Cortese Giorgio  

 

Il segreto del quotidiano successo consiste nel trarre il massimo profitto da quello che ho a disposizione.

 

Istà!

Istà, stagion d’ii frut e ‘dla cucagna ‘nt le vai, ansima ai brich, ans’la montagna, caod f’infern ch’a fa beuie la campagna , e fa maturè i ‘uvre ans’la  taragna: Istà, fane mpinì gnere e grnè che peui l’invern a n’ie farà voidè

 

 

21 giugno, il trionfo del sole

La  parola solstizio viene dal latino “Solis statio”: fermata, arresto del Sole. Solstizio identifica il giorno in cui il sole raggiunge la massima distanza dall’equatore. Questo evento segna l’arrivo dell’Estate e   rende felici tutti, indipendentemente a qualunque razza si appartenga o sotto quale colore politico uno abbia posato la sua persona. Il fenomeno del solstizio avviene   due volte all’anno: il 21 giugno, inizio dell’estate, quando il sole determina il giorno più lungo e il 21 dicembre, quando inizia l’inverno e la notte è la più lunga dell’anno rispetto alle ore di luce. Il Sole e il suo simbolo, il fuoco, sono al centro di tutte le religioni delle antiche civiltà e rappresentano le divinità positive, contrapposte a quelle tenebrose e malvagie. Fino dai tempi più remoti il cambio di direzione che il sole compie, tra il 21 e il 22 giugno, è visto come un momento particolare e magico. Il "sole che rotola via" è associato, in un certo senso, alla testa del San Giovanni decapitato, che nella memoria religiosa si sovrappone al sole che cambia direzione. Non c’è da stupirsi, quindi, se in ogni tempo e luogo il giorno del Solstizio viene celebrato con feste, falò, rituali magici e religiosi. Quasi diciassette ore di luce per la giornata più “lunga dell’anno”: un evento astronomico che segna l’inizio dell’estate nell’emisfero boreale e che molte culture celebrano da millenni come un giorno sacro. Tracce di culti solari si incontrano in tutto il mondo, dalla Polinesia all'Africa alle Americhe, e giungono fino ai nostri giorni: per gli eschimesi il Sole è la Vita mentre la Luna la Morte, in Indonesia il Sole si identifica con un uccello e con il potere del volo, tra le popolazioni africane primitive la pioggia è il seme fecondatore del dio Amma, il Sole, creatore della Terra. Ma facciamo qualche passo indietro. Negli antichi Egizi il sole era chiamato Horus o Kheper al mattino quando si leva, Ra quando è nel fulgore del meriggio e Atum quando tramonta.  Secondo la cosmologia egizia il Nilo era il tratto meridionale di un grande fiume che circondava la Terra e che, verso nord, scorreva nella valle di Dait, immersa nell'eterna notte. Si devono agli Egizi alcune delle prime precise osservazioni astronomiche solari, in base alle quali i sacerdoti del faraone prevedevano le piene del Nilo e programmavano i lavori agricoli. Le piramidi sono disposte secondo orientamenti astronomici, stellari e solari. Gli obelischi erano essenzialmente degli gnomoni, che con la loro ombra scandivano le ore e le stagioni. Gli orologi solari erano ben noti e ne esistevano diversi tipi, alcuni dei quali portatili, a forma di T o di L, chiamati "merket": il faraone Thutmosis III, vissuto dal 1501 al 1448 a.C., viaggiava sempre con la sua piccola meridiana, come oggi io porto l’orologio da polso. La prima comparsa di Sirio, la stella più luminosa del cielo, all'alba, in estate, era per gli Egizi il punto di riferimento fondamentale del calendario. Il loro anno era di 365 giorni esatti, ma sapevano già che in realtà la sua durata è maggiore di circa sei ore, per cui avevano calcolato che nel corso di 1460 anni la data delle inondazioni del Nilo faceva una completa rotazione del calendario. Per i Sumeri, gli antichi abitanti della   Mesopotamia nel 3500 - 2000 a.C, il Sole, chiamato Shamash, è il figlio di Sin, la Luna, ma stranamente non appartiene al gruppo delle divinità più importanti: dio supremo è An, "il cielo" e capo effettivo del pantheon sumero è Enlil, il signore del vento e della tempesta. Per gli Inca, la cui massima fioritura si ha intorno al quindicesimo secolo, la divinità Inti è il Sole, sovrano della Terra, figlio di Viracocha, il creatore, e padre della sua personificazione umana, l'imperatore. Attorno a Cuzco, capitale dell'impero, sorgono i "Mojones", torri usate come "mire" per stabilire i giorni degli equinozi e dei solstizi. Per i Maya è il supremo regolatore delle attività umane, sulla base di un calendario nel quale confluiscono credenze religiose e osservazioni astronomiche per quell'epoca notevolmente precise. Tra gli indiani d'America il Sole è simbolo della potenza e della provvidenza divine. Presso gli Aztechi è assimilato a un giovane guerriero che muore ogni sera e ogni mattina risorge, sconfiggendo la Luna e le stelle: per nutrirlo il popolo azteco gli sacrificava vittime umane. Leggende analoghe, anche se fortunatamente meno feroci, si trovano ancora tra le popolazioni primitive nostre contemporanee. Gli stessi Inuit , eschimesi,  ritenevano che il Sole durante la notte rotolasse sotto l'orizzonte verso nord e di qui diffondesse la pallida luce delle aurore boreali: convinzione ingenua, ma non poi tanto sbagliata, visto che oggi sappiamo come le aurore polari siano proprio causate da sciami di particelle nucleari proiettate nello spazio ad altissima energia dalle regioni di attività solare.  La trasversalità di queste tradizioni, comuni a popoli così diversi, è facilmente spiegabile. I riti e le pratiche erano basate sulla semplice osservazione dei corpi celesti; questi fenomeni erano visibili in tutte le zone del mondo, da tutte le culture.Nella notte tra il 23 e il 24 giugno si usa bruciare le vecchie erbe nei falò e andare alla raccolta delle nuove oltre che mettere in atto diversi tipi di pratiche per conoscere il futuro perchè, come dice il detto, " San Giovanni non vuole inganni". La festa di San Giovanni è una festa solstiziale, una celebrazione legata intimamente alle credenze pagane, pre-cristiane, ed al periodo della raccolta delle piante e delle erbe da usare nelle operazioni magiche. Oggi anche se le attività quotidiane sono scandite da ritmi che poco hanno a che vedere con i moti astronomici, le stagioni continuano a influenzare profondamente le mia vita quotidiana, con l’avvicendarsi delle stagioni cambia il modo in cui mangio, i vestiti che indosso ed inutile negarlo ma anche il mio umore. E mentre nell’emisfero boreale festeggiamo l’arrivo dell’estate, al di là dell’equatore si entra ormai nel pieno inverno.

Buona lunga giornata a TUTTI!

Favria, 21.06.2014            Giorgio Cortese

 

Per essere il numero uno, devo allenarmi come fossi il numero zero

 

Arvoità e arvanghè

L’amico Mario commentando un fatto di cronaca ha sintetizzato il tutto con una bella frase idiomatica piemontese-favriot: “Arvoità”, questo lemma in piemontese significa, rovesciare, ribaltare, ma nel vecchio favriot, dialetto di favria, vuole anche dire tornare indietro precipitosamente, insomma un arvanghè, un rivangare, e non nel senso agricolo del termine delle situazioni vissute male nel passato. Nella vita di ogni giorno il tempo scorre velocissimo e me ne accorgo   soprattutto quando guardo indietro, mentre sono  intento nel presente che passa quasi inosservato, tanto vola via leggero nella sua fuga precipitosa. Certi giorni la vita mi sembra quasi come una giostra altalenante, mi muovo con affanno avanti ed indietro e non arrivo mai da nessuna parte. Ma nella vita, purtroppo non si può tornare indietro, e allora devo preoccuparmi  del modo migliore per avanzare. Nella vita la quotidiana sfida non attende, la vita non guarda indietro.  Ogni giorno  è un periodo più che sufficiente per decidere se voglio accettare il mio umano destino e le sue insidie. Ritengo che vivere nel passato è un’attività stupida e solitaria. Guardarmi indietro mi fa solo male ai muscoli del collo, mi fa sbattere contro la gente impedendomi di andare diritto per la mia strada e provo infinita tristezza per quelle persone che continuano a farlo. Molte volte un'occasione mancata mi si può ripresentare anche adesso, ma sicuramente non posso  mai tornare indietro ad arrivare delle scelte precipitose come certe persone, e poi ogni giorno a volte sono in testa, a volte resto indietro ma la quotidiana corsa della vita è lunga e la fine è solo con me stesso e guardando indietro, scopro che degli anni si sono decisi in una manciata  di pochi minuti.

Favria, 22.06.2014   Giorgio Cortese  

 

Lo scopo del  rugby  come nella vita quotidiana è  portare una palla nel cuore del territorio avversario, ma per arrivare a questo la palla la posso passare solo all’indietro,

 

Piantare baracca e burattini!

L'espressione figurata piantare baracca e burattini significa :”piantare in asso ogni cosa”. Insomma abbandonare ogni cosa risolutamente e non volerne più sapere. Ma pare  un modo di dire era anche quello di: “Lasciar che tutto vada in malora, abbandonare all'incuria, o per malanimo o per dispetto”, questo modo di dire nei primi decenni del Novecento, confermano l'impressione che la locuzione sia stata a lungo adoperata per descrivere situazioni legate all'abbandono di poderi e beni immobili. Oggi, si possono piantare baracca e burattini non soltanto lasciando bruscamente un'opera intrapresa, ma anche cambiando completamente l'orizzonte della propria esistenza. Ma da dove arriva il significato di “Burattino”. Nella Commedia dell'arte, Burattino era il nome del secondo Zanni, che in bergamasco era: “Gianni, Giovanni”, il personaggio sempliciotto, un  servo semplice e goffo e forse burattino deriva dalla forma diminutiva di buratto che era uno strumento usato per setacciare'. E' stato chiamato così, probabilmente, per via dei suoi movimenti e dei suoi atti irrequieti e scomposti, che ricordavano il buratto quando veniva agitato per separare la materia grezza da quella fina, infatti nel tardo secolo XV, il burattino era anche il nome di un umile mestiere, quello del  del setacciatore di farina.

Favria,  23.06.2014                         Giorgio Cortese

 

Essere pronto è molto, saper attendere è meglio, ma sfruttare il momento è tutto.

 

Messaggio di amicizia e di pace

Personalmente sono negato con la bellissima arte della pittura ma sono fermamente convinto che sia una poesia silenziosa, una poesia per gli occhi che colma il nostro animo. La pittura è una delle arti più antiche e diffuse forse per l'immediatezza e spontaneità dei suoi strumenti, forse per la sua capacità di assorbire e generare emozioni, quasi fosse un immenso contenitore magico per i sentimenti ed i segreti dell'animo umano. Nella nostra società, così attenta all'immagine, noi conosciamo e giudichiamo il mondo soprattutto attraverso ciò che vediamo. Il mezzo pittorico diventa quindi il canale privilegiato per creare uno spiraglio tra il mondo dell'apparenza e l'essenza delle cose, per squarciare il velo che mi impedisce di vedere e di capire ciò che è, o solo aprirvi un piccolo foro subito richiuso, attraverso il quale, per un solo attimo, chi guarda intravede qualcosa. Gli acquerelli  di Maria Pia sono una  tecnica pittorica usata già da millenni, a partire dai rotoli di papiro degli antichi egizi e nella pergamena medievale, ma sempre attuale ed immediata nel colpire la sensibilità dell’animo di chi osserva. Il  titolo: “Messaggio di amicizia e di pace” ben  presenta l’opera artistica, la barchetta di carta e la bottiglia nel mare. Ai giorni nostri le barche di carta sono gli sbuffi della fantasia sospinti nel vasto mare della vita e sempre in lotta per non andare a picco negli abissi dell’umana indifferenza. Molte volte le barche di carta  scorrono vicino a noi sul timido silenzio del tempo quotidiano e ogni tanto incidono le emozioni del mio animo quando incontro una merce sempre più rara, dei veri amici. Personalmente la barca di carta nel quadro mi ha fatto ricordare, quando da ragazzo costruivo delle barche di carta e poi le posavo sul ruscello, fantasticando il suo viaggio verso lidi lontani,   pensando alle canzoni intonate da grilli felici.. Se ripenso a quel periodo, è stato bello davvero, ma il tempo inesorabile s'inerpica in me, giorno per giorno ramificandosi su strade sempre nuove. Osservando questo quadro nel mio animo,  l'eco del mio esistere rimbalza sulle pareti di questi bei dipinti restituendomi onde d'emozioni  che per sempre mi nutriranno. La bottiglia del quadro è il messaggio di pace. Mi viene da pensare  che non so come sarà la luce  quando leggerò il messaggio che c’è dentro, ma spero che dopo averlo letto di sentire il sole dell’amicizia e della pace dentro di me. La bottiglia di strada nel mare della vita ne deve fare tanta ma,  alla fine del mio umano percorso la corrente, la risacca e l'ultima onda l’avranno poggiata lì sul bagnasciuga per me e allora leggerò il messaggio ed il mio animo sarà colmo do pace e di amicizia.

Favria,  24..06.14     Giorgio Cortese

 

Molte volte devo comportami come l'arciere che non deve colpire il bersaglio di quando in quando, ma devo sbagliare solo di quando in quando, non è un'arte quella che arriva allo scopo per caso.

 

Coartare lo strambotto.

Niente paura, non sono ancora impazzito ma, leggendo dei libri in tempi diversi ho trovato questi due lemmi poco usati che trovo si abbinino bene, Inizio dalla seconda parola, strambotto, di origine provenzale, estrabot che deriva dal francese antico estribot. Pare che questo ultimo lemma derivi sempre dal latino popolare   strambus, alterazione. di strabus,  dal greco antico strabós, strabico, storto.  Lo strambotto è allora, un  componimento poetico di gusto popolare,   un componimento breve,  giusto una strofa. Venne in voga nella poesia d’arte tra il 15° e il 16° secolo. Ne composero nel Quattrocento Poliziano, Lorenzo il Magnifico, Serafino Aquilano, in seguito decadde, finché fu recuperato, nel secondo Ottocento, da poeti come  G. Carducci e G. Pascoli. Nel linguaggio popolale era di solito una  storiella amorosa o  satirica  e non aveva alte pretese liriche, mirando al semplice divertimento. Oggigiorno nell’era della globalizzazione significa uno sproposito dappoco. Insomma il politico fanfarone che cerca di intrattenermi   con  suoi strambotti, peccato perché se fosse un bambino fantasioso che   vuole in ogni modo raccontarmi un suo nuova storiella lo liquiderei con uno strambotto garbato di complimento, ma per questi novelli epigoni,  esiste un solo ed unico rimedio non dargli retta, specialmente sotto elezioni.  Si avete letto bene, certi politici le chiamo epigoni, nel senso dispregiativo del termine, perchè sono dei seguaci ed imitatori di grandi idee, infatti epigono deriva dal greco epi, sopra, dopo e gonos,  prole, quindi, nato dopo. Oggigiorno il manierismo e  l'emulazione sono una facile lusinga. Le persone cercano la propria identità e il proprio posto nel mondo e la via dell'epigono diventa la regola e il distintivo, ma sono delle persone dai ragionamenti coartati. Coartare deriva dal latino artus, stretto. Queste persone pensano che bastino i loro fatui strambotti per comprimere, reprimere, schiacciare le idee altrui ed il sempre maggior malcontento su i quotidiani sprechi e sulle lusinghe di demagogiche soluzioni. Insomma svegliamoci dall’abbiocco** della ragione, dalla sonnolenza del sentire sempre i soliti  strambotti  e liberiamoci  nell’animo dalla costrizione che ci rende sudditi e non cittadini

Favria, corteseg@tiscali.it

**

Il lemma abbocco deriva dalla voce dialettale dell’ Italia centrale,  in particolare modo laziale e marchigiana e riprende il dialettale abbioccàsse, diventare chioccia, covare le uova, da  biocca, chioccia. Abbioccato in origine significava accoccolato, rannicchiato,  ma ben presto, per estensione, colpito da sonnolenza, assopito, oppure depresso, avvilito. Un lemma recente, comparso a metà del Novecento.

Favria, 25.06.2014             Giorgio Cortese

 

Molte volte la concisione è l’arte di dire molto con poco e la prolissità, di dire niente con troppo.