Piove

Sottili lacrime del cielo che si infrangono sul vetro freddo. Suono ipnotico che riempie l’animo di malinconia e di di ricordi, ed in lontananza il sordo brontolio del tuono…

 Ciò che è fine e delicato…

Ciò che è fine, delicato, sottile, a prima vista non sembra poter resistere alle aggressioni. Ma  se osservo ciò che avviene in natura, le pietre sembrano in apparenza resistenti; ma in realtà, le piante sanno difendersi meglio delle pietre, poiché sono vive, e gli animali meglio delle piante, poiché si spostano.  E poi noi esseri bipedi abiamo un mezzo migliore per difenderci e sfuggire alle avversità e alle condizioni difficili: il pensiero. Purtroppo molti pensano che il cervello sia un optional e non lo utilizzano o se viene utilizzato in maniera scorretta. Conosco una persona che è un piccolo corvo ma pensa di essere un pavone mettendosi alcune piume di quest’ultimo come nella favola di Fedro.

 La malattia

“Ho imparato dalla malattia molto di ciò che la vita non sarebbe stata in grado di insegnarmi in nessun altro modo”. Questa considerazione trovata tra i miei sempre più sparsi appunti  del  grande Goethe ha valore per ogni tipo di dolore, una realtà nei cui confronti sono naturalmente allergico, nonostante essa sia radicalmente impastata con la mia stessa qualità di creatura limitata, caduca e mortale. Questa frase mi ricorda che la malattia  mi rende cosciente del cosciente del mio limite, abbattendo ogni illusione, o delirio, di onnipotenza.  Mi ricorda che ho bisogno degli altri, trasformandomi da padrone in mendicante. Mi fa ritornare un po' bambino, riacquistando la semplicità del piccolo che ama essere coccolato. La malattia mi insegna, poi, la vera gerarchia dei valori: la ricchezza in quel momento mostra la sua impotenza perché, se anche mi permette di avere dottori competenti ma non mi salva definitivamente dalla sofferenza quando  il dolore mi percuote.

Ecco il dolore è, dunque, un grande maestro di vita, proprio come osservava Goethe

Favria   27.05.2012                 Giorgio Cortese

 Nella mia vita non saranno le parole dei miei avversari ad essere ricordate, ma i silenzi dei miei amici.

 La mano

“Una mano che è sempre aperta o sempre chiusa è una mano storpia. Un uccello che non sa aprire e chiudere le ali non volerà mai.” Gialal al-din Rûmî.  La mano è certamente uno dei capolavori di cui siamo stati dotati: con essa scriviamo, forgiamo le cose, accarezziamo, percepiamo la morbidità di una pelle e il viscido di una serpe, esprimiamo sentimenti e necessità coi suoi gesti, stringiamo in un abbraccio e, purtroppo, colpiamo a pugni un altro. Lunga è la lista delle azioni che la mano compie, attraverso la complessità delle sue articolazioni, tant'è vero che si dice che la chirurgia della mano sia tra le più complesse e non per nulla i trapianti di mano sono così rari e dagli esiti molto incerti.. Ad assegnare alla mano una funzione di simbolo morale è la citazione di un grande poeta mistico musulmano del Duecento, Gialal al-din Rûmî, noto per il suo immenso poema Mathnawî, tradotto in Italia dalla Bompiani nel 2006. Mi viene da pensare che nella  vita devo sapermi aprire  agli altri come una mano, donando, amando, sostenendo. Ma ci sono anche momenti in cui sento il bisogno di chiudermi in me stesso per riflettere, per tacere, per incontrare nell’intimo la mia  coscienza. L'esistenza esige questi due ritmi fondamentali della mano aperta all'altro e della mano chiusa, ed è in questa alternanza, tipica anche delle ali,   che sono un po' le mani degli uccelli, che si vive veramente, volando ora raso terra ora verso l'alto dei cieli. Il solo agire con le mani può rendermi proteso all'esterno, in un impegno necessario ma distraente e fin superficiale quando diventa esclusivo. Il solo stringere le mani su me stesso mi può rendermi egoista e solitario. La mano che è non è storpia, si apre e si chiude in un ritmo armonico e libero, grazie atutti di donatori di sangue e colontari che con pazienza ed umiltà danno una mano per il benessere di noi tutti.

Favria   28.05.2012           Giorgio Cortese

 

Il corvo superbo e i pavoni. 

Gonfio di vuota superbia, un corvo raccolse le penne cheerano cadute al pavone e se ne ornò tutto: quindi,disprezzando i suoi simili, si aggregò alla magnifica brigata dei pavoni.Ma questi strappano le penne allo sfrontato uccello e lo cacciano a beccate. Conciato per le feste, il corvo tornò, rammaricato, fra la sua gente, che lo respinse rimproverandolo. Allora uno di quelli che egli prima aveva guardato dall’alt oin basso disse: “Se ti fossi accontentato delle nostre dimoree accettato ciò che la natura ti aveva dato, non avresti patito quell’affronto, né la tua malasorte, né il nostro rifiuto”.”

Perché nessuno voglia gloriarsi dei beni altrui e viva piuttosto secondo il propriomodo naturale di essere, Esopo ci ha tramandato questo esempio sempre attuale e come dice il mio amico Walter: ma chi giunge secondo, segue le orme del primo ma rimane sempre secondo!”