Demagogico. – Le crisi del III secolo. – Noi siamo Alpini. – La consapevolezza di Alice. – Farinel . – La leggenda della Durlindana. – Devozione dei Longobardi a san Michele. – La storia dei sandali…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Demagogico L’aggettivo indica un’azione politica diretta a trascinare o a lusingare il

popolo per mezzo di proposte o atteggiamenti propagandistici. A introdurre il concetto fu, sembra, lo storico greco Tucidide che definì “demagoghi”, letteralmente “capi popolo” quegli ateniesi che, dopo la morte di Pericle, siamo nel 429 a.C., cercavano di prenderne il posto imbonendo l’assemblea popolare con false promesse. Platone considerava la demagogia una forma di democrazia corrotta, ma pur sempre migliore della tirannide e dell’oligarchia in quanto rispetto alle altre salvaguardava la libertà.
Favria, 24.09.2024  Giorgio Cortese

Buona giornata, ogni giorno siamo riconoscenti per tutto quello che si manifesta nella nostra vita. Ogni giorno siamo sempre pieni di stupore e apprezzamento per tutto quello che vediamo. Felice martedì

Le crisi del III secolo.

Nel III d.C. si delinea la discontinuità con il periodo precedente infatti è tale da rendere irriconoscibili i romani del “tardo impero”. In sostanza Roma è colpita da una crisi talmente esistenziale che cambia tutto, dal modo di vestire a ogni aspetto della vita quotidiana. Basti dire che i romani del tardo impero portano i pantaloni, infatti noi non li rappresentiamo mai così perché non ci sembrano romani. Avevano scoperto i pantaloni dai Galli e li avevano trovati comodi e caldi. Cambia anche il modo di combattere: i romani erano persone molto pratiche, pronte ad adeguarsi alle nuove necessità quando qualcosa non funzionava più, così passano alle “spathae”, da cui il termine spada, lance lunghe e di taglio, al posto del gladio che era di punta, il che permette di tenere una distanza maggiore dal nemico. A breve inizierà a cambiare  anche la religione e questa sarà la discontinuità più importante: prima della crisi del III secolo resistevano i classici dèi pagani, ma ora l’impero si avvia a diventare cristiano, lo farà nel giro di pochi anni con Costantino, e allora muta anche l’aspetto delle città, con le cattedrali cristiane, costruite in periferia, il foro perde di importanza. Insomma, la crisi del III secolo è causata da una serie di fattori a effetto domino, che si rafforzano l’uno con l’altro. In quel periodo due pandemie spaventose mandano a rotoli l’economia,  le frontiere cedono alle continue incursioni dei barbari e la crisi politica è così caotica che gli imperatori si avvicendano, tutti con la loro ricetta per risollevare l’impero,  con una frequenza che si perde il conto, tutti assassinati poco dopo la loro elezione al soglio imperiale.  La prima pandemia, la cosiddetta “peste antonina” il vaiolo, è il principale innesco del tracollo. Scoppia ai tempi di Marco Aurelio, quindi alla fine dell’epoca d’oro degli imperatori elettivi:  Nerva, Traiano, Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio. L’epidemia uccide il 20% della popolazione, ma da  sola non avrebbe affondato l’impero, che era ancora un corpo sano, ma nel frattempo i nemici germani e persiani sono diventati molto più forti rispetto al passato e Roma non riesce più a difendere le frontiere. Questo porta a dover spendere più soldi, ma con una popolazione si è ridotta del 20%, quindi anche le entrate diminuiscono. Come fare, per sostenere l’esercito che  assorbe almeno la metà della spesa pubblica romana? Ecco la soluzione, produrre  più monete,  perché al tempo non si trovavano altre miniere d’oro, e allora nelle nuove monete si riduce  la percentuale di oro e argento, che diventano di latta e si svalutano ed i prezzi esplodono.  Per i romani è uno shock, non era mai successo, nei secoli della pax romana  con l’inflazione  bassa che i romani pensavano che il prezzo delle cose fosse un valore intrinseco immutabile, quando questo non avviene più non capiscono cosa stia accadendo. Il denario dell’imperato Gallieno del 253-268 d.C. ha il 2% di argento, è il peggiore strumento di pagamento. I romani tornano allo scambio in natura, meglio essere pagati con una gallina e poi anche lo  Stato rifiuta le sue stesse monete “fasulle” e pretende che le tasse si paghino in anfore e grano, persino l’esercito è stipendiato con armi, vestiti e vino. La crisi politica + al limite dell’anarchia da un sistema in cui gli imperatori erano eletti dal Senato insieme ad altri attori politici e all’esercito, all’improvviso contano solo i soldati, ogni esercito elegge il suo imperatore, le rivolte militari si susseguono creando pericolosi vuoti di potere anche alle frontiere. E cco come una tempesta perfetta arriva la seconda pandemia. Nel 249 d.C. a 80 dalla peste antonina arriva la peste di Cipriano, ed è il caos.  I generali romani arrivano a saccheggiare le loro stesse città perché non sanno come pagare i soldati, e a un certo punto accade una cosa sbalorditiva quando  l’imperatore, Valeriano, viene catturato dai persiani di Shapur I sul campo di battaglia e portato via prigioniero, non era mai successo prima! E adesso chi comanda. I persiani festeggiano la loro vittoria con un bellissimo bassorilievo in cui Shapur I è sul cavallo e Valeriano si inginocchia davanti a lui. Lo storico romano Lattanzio racconta che il re persiano usò Valeriano come sgabello per montare a cavallo e poi, dopo la morte, lo fece impagliare come trofeo, un’umiliazione senza precedenti. Tra l’altro tutto il suo esercito era stato catturato con lui, le altre regioni dell’impero erano sguarnite, la Gallia si elegge un suo imperatore, il povero Gallieno, figlio di Valeriano, si ritrova solo l’Italia, l’Oriente allo sbando si mette nelle mani del re di Palmira. L’impero si spezza in tre parti e non sarà facile rimetterlo insieme. Gallieno primi di essere assassinato dai suoi soldati rendendosi  conto di poter difendere al massimo l’Italia, si trasferisce da Roma a Milano, vicino alle Alpi, e lì forma un corpo di cavalleria mobile di decine di migliaia di uomini, per intervenire con rapidità su qualunque frontiera. È una mossa emergenziale ma intelligente. Poi si inventa la meritocrazia, fino ad allora i romani davano le massime cariche  solo ai senatori, magari incapaci ma ricchi, se eri un soldato molto abile al massimo potevi aspirare a diventare centurione.  Gallieno invece eleva i migliori soldati a comandanti delle legioni perché ha bisogno di persone bravissime a combattere, e da questa novità a breve deriverà proprio la classe dirigente che salverà l’impero, prima militarmente poi politicamente, cioè gli Illiri dei rozzi barbari. Gli Illiri erano gli abitanti dell’Illyricum, gli odierni Balcani, uomini di estrazione bassissima, contadini che si sono arruolati per sbarcare il lunario, i cui genitori non erano nemmeno cittadini romani. Questi soldati formano la classe nuova dirigente che sostituisce quella italica: quasi tutti gli imperatori dopo Gallieno vengono dall’Illyricum, Aureliano, Diocleziano e Costantino sono illirici. Aureliano in soli cinque anni, poi verrà assassinato dai suoi pretoriani nel 275, riunifica i tre pezzi dell’impero, effettua una riforma monetaria,  sconfigge il regno di Palmira, batte le invasioni barbariche dei Goti, a Roma costruisce le Mura aureliane e doterà le città di fortificazioni possenti. Con Aureliano  viene introdotta a Roma il culto del 25 dicembre come festa del Sol Invictus al quale poi il Cristianesimo sovrapporrà il Natale di Gesù. Aureliano il Senato gli attribuisce il  titolo di Restitutor Orbis, il Restauratore dell’ordine mondiale. Purtroppo viene ucciso dai pretoriani e  la sua opera verrà ripresa da Diocleziano che metterà fine alla  crisi del III secolo. Diocleziano, illirico di umili origini prolunga la vita dell’impero di almeno due secoli. Diocleziano ha ora  bisogno di un esercito poderoso per sconfiggere finalmente i persiani e rendere di nuovo Roma inattaccabile, però per questo deve aumentare le tasse senza fomentare rivolte.  Decide per un sistema di tasse equo,  devono pagare tutti ma equamente, per cui organizza un enorme censimento in tutto l’impero, non semplice come quello di Augusto: quanti sono gli abitanti, cosa possiedono, che animali allevano, quanto misura ogni singolo terreno, cosa produce ogni proprietà, così la tassazione si basa sulla vera situazione economica. Prima Roma aveva un sistema fiscale molto iniquo, se abitavi a Rodi pagavi poco perché l’isola era stata alleata di Roma, in Gallia pagavi tanto, inoltre si stabilivano le tasse su vecchi documenti mai aggiornati, magari le condizioni economiche era cambiate. Diocleziano aggiorna i registri ogni 15 anni, e ha i soldi per permettersi l’esercito più vasto della storia romana, mezzo milione di soldati. Il suo sistema fiscale verrà utilizzato ancora ai tempi delle Crociate e per tutto il medioevo gli anni del calendario verranno contati in base al ciclo di 15 anni dei censimenti, le indizioni. Anticipa i tempi anche stabilendo la sua sede in Oriente ben prima di Costantino, a Nicomedia, poco distante dalla futura Costantinopoli, e da lì governa. Diocleziano è l’unico che abdica e va in pensione volontariamente, si ritira a Spalato, in Dalmazia, dove tuttora sorge il suo magnifico palazzo, morendo di morte naturale. Ha sempre detestato Roma, c’è andato, sì, ha inaugurato le terme di fronte alla Stazione Termini con una grande festa, ma non vedeva l’ora di andarsene. Grazie a questi rozzi barbari  illirici  di umili origini che crede in Roma con la foga del neoconvertito, mentre il centro ancora ricco, sofisticato, ma moralmente svuotato, è già imploso l’impero si è di nuovo risollevato. Poi nel  476 d.C. Roma cadde definitivamente, ma duecento anni dopo, ma questa è un’altra storia.

Favria,  25.09.2024  Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita quotidiana è necessario ascoltare sempre  l’insegnamento che viene sempre dalle nostre umane cadute per imparare a rialzarci.   Felice mercoledì

Noi siamo Alpini!

Noi siamo Alpini, percorso con musica ed attori attraverso la storia degli Alpini, in occasione del Centenario Gruppo Alpini di Favria, 1924 – 2024. Uno spettacolo musicale della Società Filarmonica Favriese, Direzione artistica M.o Alberto Pecchenino, sabato 28 settembre 2024, ore 21,00 presso Salone Polivalente, Piazza Repubblica con la partecipazione del Coro “Armonia” di Sparone e della Cantoria “S.Nicolao” di Borgiallo, coro diretto dal M.o Bruno Costa Laia.

Voce: Beatrice Demarie. Chitarra acustica: Andrea Martinetto

Durante lo spettacolo musicale su testi e  coordinamento di Maria Grazia Pezzetto  con dei brevi pezzi recitati che ripercorrono la storia degli Alpini con il nonno che parla al nipote spiegando chi sono gli Alpini, dalla loro fondazione, la Grande Guerra, il dopoguerra e la fondazione dell’Associazione Nazionale Alpini Ana e del Gruppo di Favria nel 1924, la seconda Guerra Mondiale e la campagna di Russia e poi gli interventi degli Alpini durante i terremoti e le alluvioni. Con la morale finale che non abbiamo ancora imparato che  tutte le guerre sono inutili.  Il tutto reso vivace dagli interpreti: Interpreti: Massimo Babando, Luisella Brunasso Cassinino, Giorgio Cortese, Gerardo Castiello, Giuseppina De Liguori, Simone Dell’Aquila, Marco Dematteis, Bianca

Martinetto, Primo Massara, Simone Roletto, Anna Rosati.

Scene: Dove sei Beppino? – Tra moschetti e cannoni. – Gavette di ghiaccio. -La terra trema. – Acqua e fango. – Presente!

Musica: Trentatre. – Sai nen perchè…- La canzone del Grappa. – La leggenda del Piave. – Le campane di San Giusto. – Il Silenzio. – Hallelujah. – Stand by me. – Signore delle Cime. – 30 sold. –

Staff: Enrico Crupi, Flavio Demarie, Antonio Giuggia, Letizia Massara, Marcella Vitella

Riprese Video: Michele Sforza

Un cordiale invito a tutti.

La consapevolezza di Alice.

Molte persone sanno tutto e poi di se stessi nulla, la grandezza degli esseri umani non consiste nell’essere felici, ma nell’essere consapevoli. Sono davvero tante le frasi in italiano che cercano di rendere al meglio il significato della parola consapevolezza.  Tralascio quanto hanno scritto poeti, psicologi, letterati e tante altre categorie. In questi giorni mi sono imbattuto in libro letto nell’infanzia “Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie” dello scrittore Lewis Carroll, autore di Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie. Forse nel libro si coglie il senso completo della parola consapevolezza, quando la protagonista Alice dialoga con se stessa. Come sapete Alice stanca dei suoi ripetitivi ritmi di vita segue un coniglio bianco. Nella tana di Bianconiglio, questo è il nome del coniglio bianco, Alice accetta l’invito scritto su una bottiglietta: “Bevimi”, con il risultato come afferma la protagonista: “Ora mi sto allungando come il cannocchiale più lungo che sia mai esistito!”. Quello chi mi ha colpito è l’affermazione che segue fatta da Alice: “Addio, piedi!”. Si trova cosi la testa lontana dai piedi, costringendo Alice a spedire per posta all’ “Egr. Ill.mo Piede destro di Alice”, “il regalo di Natale: un paio di scarpe nuove”.  Ecco quando manca la consapevolezza la testa è  lontana dai piedi. E si può recuperare la consapevolezza solo ristabilendo la distanza giusta tra la testa e i piedi.  La protagonista del romanzo, Alice, può farlo solo seguendo il  consiglio del Brucaliffo, e  dovrà mangiare un fungo. Ma che fatica! Non è per niente facile! Gli effetti dei morsi dati al cappello del fungo infatti cambiano a seconda della parte di fungo che Alice morde. La consapevolezza, che è essenzialmente armonia ed equilibrio tra le diverse parti che ci compongono, è frutto di scelte tra le tante opportunità che attraversano le nostre quotidiane giornate. Per quanto immersi nell’era della consapevolezza, più cercata e raccontata che vissuta, non possediamo dalla nascita e non ci è data come una medicina ma è frutto di scelte.  Queste scelte sono anche degli errori, la consapevolezza vuol dire letteralmente arrivare, insieme, a conoscere qualcosa, insomma  renderci conto di qualcosa confrontandoci.  Il confronto può avvenire sia con chi incontriamo e con noi stessi. In questo secondo caso, la consapevolezza è chiamare a raccolta tutte le parti di noi per vivere in pienezza la nostra vita.  Dobbiamo comportarci come Alice, mettendo tra parentesi il sorprendente e, a volte, strano mondo che affolla la “tana del coniglio bianco”. Entrare in un dialogo schietto con le proprie emozioni, con i propri pensieri e con il proprio corpo. Fino a chiederci scusa per avere, talvolta, sciupato emozioni e aver soffocato sogni.  Il filosofo Pitagora affermava che bisognava abbandonare le grandi strade e prendere i sentieri. Siamo consapevoli che per essere felici dobbiamo credere nella possibilità di esserlo, questo è il segreto.

Favria, 26.09.2024  Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno dirigo tutti i miei passi sulla via della speranza, non so se mi condurrà dove voglio, ma sono certo che sia la scelta giusta, su cui non avrò mai rimpianti. Felice giovedì

Farinel

Un titolo che si dà a qualcuno che è solito combinare qualche marachella, tutto sommato in buona fede.  Il tono con cui si battezza un “farinel”, solitamente è piuttosto bonario, affettuoso. Validissimo nei confronti di bambini turbolenti, al femminile: farinela che hanno sempre un’idea da impedirgli di star fermi un solo istante, un pretesto per sfogarsi con proverbiale disinvoltura. Naturalmente è valevole anche per qualche adulto che, sapendo il fatto suo ed avendo un ottimo spirito, affronta la vita non senza arguzia e talvolta passando per vie traverse, evitando così di stare dalla parte di chi subisce. Esempi ne abbiamo, non è vero?

Si dice che il termine derivi dal soprannome di un cantante lirico, sublime voce di mezzosoprano, castrato, tale Carlo Maria Broschi, dal carattere volitivo e capriccioso, che per la sua bravura poteva permettersi qualunque atteggiamento.

E bene, Vittorio Emanuele II, dopo un battibecco con Cavour, lo congedò con la frase “Chiel a l’è mach ‘n Farinel”!  Lei è soltanto un Farinelli!

Secondo altri l’origine dell’appellativo Farinel deriva da una famiglia di musicisti italiani di origine francese, trasferitasi a Torino, intorno al 1620, al servizio dei Savoia.

In particolare Francesco che è  considerato il capostipite della famiglia. Nacque in Francia intorno alla fine del sec. XVI, probabilmente a Billom o a Lezoux, in Alvernia.

 La sua presenza nella città piemontese è probabilmente da mettere in relazione con la venuta, a Torino, di Cristina di Francia che, l’anno precedente, aveva sposato Vittorio Amedeo di Savoia, figlio del duca Carlo Emanuele I.

La venuta di Cristina di Francia a Torino e, in particolare, il suo notevole interesse per il balletto cambiarono radicalmente le abitudini musicali della corte piemontese. Notevole è, in questo periodo, la presenza di artisti francesi: oltre ai Farinel, numerosi altri prestavano servizio, nello stesso periodo, presso la corte sabauda.

L’attività di “musico” di Francesco non si limitava all’incarico di violinista per Cristina di Francia, ma comprendeva anche di frequente il servizio per la cappella ducale e compositore di molte musiche per balletto per le numerose feste della casa Savoia.

Favria, 27.09.2024  Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita quotidiana l’ottimista ha sempre l’ottimismo nell’animo e la gioia nel cuore, il pessimista si corrode con la sua malinconia. Felice venerdì

La leggenda della Durlindana

Il nome Durlindana ha un’etimologia incerta,  secondo alcuni deriverebbe dalla radice francese dur-che significa “dura“ secondo altri il nome sarebbe invece l’unione dei termini durant e dail, traducibili come falce forte o spada resistente.  Una delle caratteristiche significative di Durlindana è ehe conteneva delle sacre reliquie cristiane. La Chanson de Roland riporta che l’impugnatura d’oro conteneva un dente di san Pietro, il sangue di san Basile, una ciocca di capelli di san Dionigi e un lembo della veste della Vergine Maria. Secondo la frammentaria Chanson de geste Mainet del XII secolo, un giovane Carlo Magno entra in  possesso della spada in Spagna, dopo aver sconfitto un certo Bramante. Questo racconto è conservato anche in altri testi che non fanno parte del genere chanson de geste e in altri adattamenti in altre lingue. Secondo un altro racconto del XII secolo. La chanson d’Aspremont, Durlindana apparteneva al principe saraceno Almonte, figlio del re Agramante. II giovane Rolando, armato solo di una clava, riusci a sconfiggere il principe saraceno conquistando la spada. Tutti questi elementi furono combinati, tra il XIV e il XV secolo, nel racconto italiano Aspromonte da Andrea da Barberino. Secondo questa versione, il giovane Carlo Magno entra in possesso di Durlindana dopo aver ucciso Bramante in Spagna, poi la spada passa quindi tra le mani di diversi personaggi sino ad arrivare ad Almonte, figlio di Agramente, che sarà sconfitto da Rolando.

Favria, 28.09.2024  Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita se non perdi le speranze, puoi tutto! Anche ricominciare. Felice sabato

Devozione dei Longobardi a san Michele.

Tutte le popolazioni germaniche che hanno occupato i territori dell’ex Impero romano dal V secolo si sono, prima o poi, convertite al cristianesimo, al tempo ormai religione ufficiale a Roma. Ognuna, però, con i suoi tempi e modi. Quando giunsero in Italia, i Longobardi erano ancora in parte devoti ai loro dèi. Il processo di cristianizzazione fu lento e graduale e inizialmente seguirono la dottrina del vescovo Ario, l’arianesimo, prima di avvicinarsi al papa. Santo guerriero. Politeisti, i Longobardi veneravano le divinità guerriere, guidate da Odino. E nel passaggio alla nuova fede identificarono san Michele, alla testa dell’esercito di Dio contro Lucifero, con Odino. Per questo la devozione al santo fu così viva: a lui è dedicata la Cattedrale di Pavia, capitale del primo regno longobardo.

Favria, 29 .09.2024  Giorgio Cortese

Buona giornata. Non pensiamo a ieri  con rimpianto, pensiamo al domani, con speranza. Felice domenica.

La storia dei sandali.

Vi ricordate i fumetti con gli sfortunati legionari che cercavano ostinatamente agli ordini di Cesare, di conquistare l’Armorica, un’impresa possibile solo dopo aver vinto la resistenza di Astérix e dei suoi indomiti Galli. Nei fumetti più che ai piedi dei soldati, quei sandali di cuoio restavano inerti a terra, lacci al vento, ogni quai volta lui e il grosso Obelix sferravano  un bel sganassone sul muso al legionario di turno, facendolo volare via come un razzo. Ma oltre che nelle celeberrime strisce ideate da René Goscinny e Albert Uderzo, i “sandali del legionario” esistevano davvero anche nella realtà: li vediamo raffigurati in molte statue romane, ma anche testimoniati da alcuni preziosi reperti miracolosamente conservati fino ai giorni nostri grazie a condizioni atmosferiche e ambientali del tutto particolari, quali il clima secco. La caliga era una tipologia di sandalo realizzato interamente in cuoio, molto robusto e con la suola chiodata. La caliga faceva parte della dotazione fornita dall’esercito ai legionari e agli ausiliari ed era progettata appositamente per essere indossata durante le lunghe e faticose marce alle quali i soldati erano sottoposti, che prevedevano tragitti su terreni spesso impervi e accidentati. Il passo era facilitato, cosa non da poco, proprio dalla presenza di chiodi che, oltre a fissare e rinforzare la suola, fornivano al piede la presa necessaria per procedere, migliorando la trazione. Inoltre, in caso di estrema necessita la suola chiodata poteva trasformare le calzature in un agile strumento di offesa. Non solo. La  caliga era realizzata in modo da evitare, per quanto possibile, l’insorgere delle fastidiosissime vesciche, compagne inseparabili dei soldati durante i lunghi spostamenti. Inoltre, grazie alla forma anatomica e alla presenza di aperture limitavano il proliferare di una patologia pericolosa causata da freddo, umidità e scarsa igiene, il cosiddetto “piede da trincea”. Usate in tutti i gradi dell’esercito romano dall’età repubblicana a quella imperiale, le caligae conobbero un picco di popolarità con il terzo imperatore romano, Gaio Giulio Cesare Germanico (15 a.C.-19 d.C.), per l’abitudine di indossarle sin da piccolo, si meritò dai soldati il soprannome Caligola. I sandali non erano una invenzione dei romani, nella Terra del Nilo, già 6.000 anni fa, gli Egizi producevano sandali nelle più svariate versioni, tra cui le intramontabili infradito : nella  tomba di Tutankhamon ne sono state scoperte molte paia, alcune delle quali arricchite con pietre e metalli preziosi. Erano i precursori degli odierni “sandali gioiello”. Se si esclude l’età contemporanea, il periodo d’oro delle calzature aperte è stato però quello dell’antichità greco-romana. La stessa parola “sandalo” ha origine in Grecia, dove il termine sandalon indicava una scarpa costituita da una suola e varie liste di cuoio intrecciate nei modi più disparati. Non si trattava peraltro di una semplice protezione per il piede. Spesso i sandali erano caricati di significati profondi: per esempio, il rito matrimoniale greco prevedeva che la donna indossasse i nymphides, dei sandali da sposa che rappresentavano il passaggio dal nubilato alla vita coniugale. Questi venivano allacciati quando la futura sposa si trovava ancora nella casa del padre, per poi essere slacciati prima di unirsi ufficialmente al consorte.  Tornado ai sandali in uso nell’esercito romano, durante la crisi economica e militare  del II secolo  d.C. iniziò a dismettere l’uso dei sandali, a partire da allora, i legionari cominciarono a indossare progressivamente, adattandoli alla vita militare, i calcei, sorta di stivaletti chiusi alti fino a circa metà polpaccio, già utilizzati in ambito civile sin dall’epoca repubblicana. Negli ultimi secoli di vita imperiale i più ‘avvolgenti’ calcei soppiantarono definitivamente le più “aperte” caligae.  Con la caduta dell’Impero romano, la moda dei sandali svanì. Nei secoli che seguirono, a indossare i sandali erano solo i membri di alcuni ordini sacerdotali, quale simbolo di povertà e vita monastica. Per rivederli ai piedi della “gente comune” bisognerà attendere la fine del Settecento, quando il gusto per l’antico promosso dal Neoclassicismo influenzò anche il modo di abbigliarsi. Ma, a differenza del passato, erano soprattutto le donne di alto rango a indossarli, mentre erano pressoché assenti nei guardaroba maschili. A guardar bene, però, i sandali proposti tra Sette e Ottocento avevano poco a che fare con le calzature a cui s’ispiravano. I modelli in voga tra XVIII e XIX secolo erano infatti scarpe chiuse e con tacco basso. E a evocare gli antichi sandali dei  Greci e dei Latini erano solamente le decorazioni sulla tomaia, che somigliavano a stringhe intrecciate. Alle donne, infatti, non era concesso mostrare il piede seminudo. A fare eccezione furono le Merveilleuses, meravigliose, appartenenti a una corrente culturale francese nata in seno al Direttorio (1795-1799), la forma di governo affermatasi dopo la Rivoluzione francese. Le Merveilleuses, nostalgiche dell’Ancien Régime, portavano avanti una personalissima protesta anti-rivoluzionaria attraverso un look alla greca, caratterizzato da abiti semitrasparenti e, per l’appunto, sandali che lasciavano i piedi scoperti. Nel corso dell’Ottocento la moda continuò a proporre calzature ispirate all’età classica, come nel caso delle delicate scarpette-sandalo, realizzate con nastri da avvolgere alla caviglia o lungo la gamba: si trattava di calzature quasi inconsistenti che poco si adattavano all’uso quotidiano. Del resto, uscire e camminare fuori casa erano attività che mal si coniugavano con l’ideale femminile ottocentesco: la donna, aristocratica o borghese, era il centro spirituale e affettivo della casa, e lì doveva “regnare”, non certo per le strade dissestate e fangose dell’epoca. In compenso le scarpe sandalo erano perfette per le ballerine. In anni in cui il balletto smise di essere un passatempo riservato agli aristocratici e iniziò ad appassionare anche le classi borghesi, le danzatrici apparivano leggere ed eteree nelle loro scarpette di seta che, opportunamente modificate, permettevano anche di danzare sulle punte. Fu Maria Taglioni nel 1832 la prima ballerina a inaugurare la tecnica, dopo aver rinforzato le sue scarpette da ballo con opportune cuciture laterali. Un altro contesto che richiedeva l’uso di sandali o scarpette leggere erano le neonate vacanze al mare. Poiché il piede nudo era ancora tabù, il guardaroba dei primi vacanzieri si adattò alle nuove esigenze: in mare si entrava rigorosamente con i piedi calzati. Il XIX secolo fu anche l’epoca dell’apertura verso nuove mete esotiche, Nord Africa e Oriente in primis, che, grazie ai racconti di viaggio di artisti e intellettuali, catturarono l’immaginario europeo. E ancora una volta i sandali tornarono a imporsi: le scarpe provenienti da quei luoghi incarnavano infatti l’armonia con la natura e il distacco dalla cultura borghese dominante, assumendo dunque un carattere anticonvenzionale. Dopotutto, li calzava la stessa Libertas, dea romana che personificava la libertà. E fu proprio ispirandosi a questa divinità che, non molto tempo dopo, alcune attiviste americane per il suffragio femminile indossarono vestiti classicheggianti e sandali alla marcia di Washington del 1913. A politicizzarli contribuirono poi anche gli uomini. Lo scrittore socialista Edward Carpenter (1844-1929), noto agitatore politico, ne fece per esempio l’emblema del radicalismo e della “vita semplice”. Altro personaggio che contribuì a stringere il legame con il pensiero radicale fu Raymond Duncan (1874-1966), fratello della scandalosa ballerina Isadora, colei che per prima osò danzare a piedi nudi. Strenuo sostenitore di uno stile di vita genuino e lontano dai precetti borghesi, Raymond scelse di vivere indossando perennemente tunica e sandali, anche in inverno. Dal XX secolo, l’industria della moda promosse i sandali per il guardaroba giornaliero, complice anche un rinnovato interesse per l’estetica del piede femminile e il fatto che le gonne, ormai, continuavano ad accorciarsi. Fu in tale contesto che nacque un vero mito: la zeppa, pietra miliare nella storia dei sandali giunta fino a oggi. In realtà, suole imponenti erano in uso anche nel Rinascimento, quando le dame di corte spagnole e italiane indossavano altissime pianelle, o chopine.  Ispirato da queste bizzarre scarpe, negli anni Trenta, lo stilista Salvatore Ferragamo iniziò a usare pezzi di sughero per riempire lo spazio tra tacco e suola. Era l’Italia del fascismo, sul Paese pesavano le sanzioni economiche imposte dopo l’invasione dell’Etiopia e il regime incoraggiava le industrie a impiegare materiali locali. Ferragamo scelse quindi di utilizzare sughero sardo, con cui nel 1937 brevettò il suo primo modello di zeppa. E fu subito un successo mondiale. Subito dopo, nel secondo dopoguerra, il Giappone divenne un grande produttore di gomma. E fu proprio la gomma a sostituire le fibre naturali per la produzione degli zori, gli infradito della tradizione nipponica. Nacquero così le ciabatte casalinghe o da doccia , in Occidente assunsero il nome di flip-flop per via del rumore che emettono camminando, che rapidamente divennero l’emblema indiscusso del relax estivo. Negli anni che seguirono, la controcultura hippy degli anni Sessanta e Settanta si appropriò dei sandali, conferendo loro nuovamente un carattere anticonvenzionale. Il celebre modello tedesco Birkenstock, nato come articolo ortopedico, si affermò tra i seguaci di una vita spartana e libertaria, tanto da diventare oggetto di scherno: alle primarie presidenziali americane del 2004, alcuni conservatori coniarono infatti il termine Birkenstock liberal per deridere i sostenitori degli avversari politici. Ma i sandali da uomo, tenuti lontani dal guardaroba maschile per secoli, saranno definitivamente sdoganati solo negli anni Ottanta, grazie anche al lancio del primo modello sportivo della storia: il Teva, creato nel 1984 da una guida fluviale del Grand Canyon, che aggiunse dei cinturini da orologio a delle comuni ciabatte da spiaggia. Un gesto semplice che chiuse il cerchio: i sandali tornarono a essere la scarpa adatta a tutti, uomini e donne, sportivi e non. Proprio come era già stato per i Greci e i Romani dell’antichità.

Favria, 30.09.2024  Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno sperare senza disperare è l’unico modo per poterci un po’ salvare. Felice lunedì.

Il potere di salvare la vita l’abbiamo nel sangue.

Vieni a donare il sangue, vieni a donare a Favria *MERCOLEDI’ 16 OTTOBRE *, cortile interno del Comune dalle ore 8 alle ore 11,20. Abbiamo bisogno anche di Te. Attenzione, per evitare assembramenti è necessario sempre prenotare e portare sempre dietro documento identità. a Grazie per la vostra collaborazione. Per info, Cell. 3331714827. Ricordo i requisiti minimi per donare: età compresa tra i 18 e i 60 per la prima volta, poi dai 65 a 70 anni, l’idoneità a donare va valutata dal medico. Grazie se fate passa parola e divulgate il messaggio.