AAA mancano insetti impollinatori – Re Mida! – Grandalbero e Bellachioma – Donazioni Fidas a giugno in Canavese – Ferluch non ferloch. – Leontè!…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

AAA mancano insetti impollinatori
Oggi mancano gli insetti pronubi impollinatori e secondo gli esperti che

studiano il fenomeno il calo dei semi prodotti dai fiori selvatici arriva fino al 50%, mettendo a rischio la sopravvivenza degli stessi fiori e della biodiversità dei nostri panorami. Sulle Alpi ci sono 13 mila specie di piante: circa l’8% sono endemiche, cioè crescono solo in questi ambienti. Ci sono specie che da sempre hanno accompagnato l’uomo sulle montagne come le erbe per i foraggi degli animali o gli alberi da legna che hanno assicurato per secoli una serie di servizi ecosistemici indispensabili allo sviluppo delle comunità di alta quota. Non mancano i relitti vegetali sopravvissuti alle glaciazioni e una famiglia allargata di fiori spontanei che anima i giardini naturali che si formano nelle praterie: alcuni sono così rari che si trovano solo in numero ristretto di valli. In media nell’habitat alpino si possono contare 80 specie diverse, tra flora e fauna, in cento metri quadrati. Molte piante presenti in questo ambiente si comportano da indicatori biologici, offrendo agli scienziati prove e campioni per studiare i cambiamenti climatici. Oggi una parte di queste popolazioni è a rischio estinzione per l’arretramento dei ghiacciai dovuto al riscaldamento globale. Fiori come speronella, fiordaliso, gittaione, garofanino selvatico o e nigella svolgono una “silenziosa terapia del benessere” mediante i proprio sgargianti colori durante le rispettive dinamiche di fioritura. La progressiva colonizzazione umana o meglio antropizzazione del territorio che priva di spazi ecologici gli impollinatori, unitamente a una gestione agrionomica estremamente semplificata, rischiano di determinare una sorta di progressivo “abbruttimento” dei paesaggi rurali rendendoli sempre più poveri di quella componente cromatica che noi percepiamo come bellezza”.
Favria,  25.05.2021 Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita ricordiamoci sempre tre cose: ciò che è bene per la terra viene prima di tutto, non prendiamo mai ciò che non ci appartiene e condividiamo quello che possediamo in abbondanza. Felice martedì.

Re Mida!

Mida, il re della Frigia, è il protagonista di uno dei miti più conosciuti dell’Antichità. La versione più nota della sua storia è quella tramandata dal poeta romano Ovidio, che nelle sue Metamorfosi racconta di come Mida riuscì a catturare Sileno, un anziano satiro che un tempo era stato precettore di Dioniso. Secondo un’altra versione del mito, il dio dalle sembianze di anziano Sileno, essere saggio eppure sempre alticcio perché amante del vino, viveva libero in un meraviglioso giardino ai piedi del monte Bermio, in Macedonia, dove crescevano rarissime e sgargianti rose di sessanta petali. Mida colmò di vino la fonte dove il vecchio era solito bere e così, non appena questi cadde ubriaco, il re poté farlo prigioniero. Mida chiese a Dioniso «che tutto ciò che tocchi con il mio corpo si trasformi in oro splendente. In altri racconti i pastori di Mida sorpresero Sileno mentre dormiva nei giardini reali; lo legarono e lo condussero davanti al re. Una volta al cospetto di Mida, le corde che trattenevano il vecchio si sciolsero come per magia, e il suo arrivo fu celebrato con dieci giorni di festa e Sileno, tutt’altro che offeso per il suo rapimento, istruì il re “sulla natura e sul passato”. In seguito Mida condusse Sileno davanti a Dioniso. Questi volle ricompensare Mida per essersi preso cura del suo vecchio precettore e gli concesse la possibilità di scegliere la sua ricompensa, garantendogli che avrebbe esaudito un suo desiderio. Mida chiese al dio «che tutto ciò che toccherò con il mio corpo si trasformi in oro splendente». Dioniso lo accontentò e il re frigio poté provare, felice, che la promessa era stata mantenuta toccando tutto ciò che gli capitava sotto tiro: il ramo di un leccio, un sasso, una zolla di terra, delle spighe di grano, i frammenti di una porta, un frutto e finanche l’acqua che scorreva tra le sue mani. Ma quando, stanco di provare il suo fiammante potere, decise di rifocillarsi, si rese conto che il cibo diventava oro non appena le sue labbra o i denti lo sfioravano e i liquidi scorrevano dalla sua bocca come metallo fuso. Stupefatto, triste, affamato e distrutto dalla sete, il re chiese perdono al dio e lo supplicò di riprendersi quel regalo maledetto. Mosso dalla pietà e convinto dal pentimento e dalle suppliche del re, Dioniso accettò, riportando Mida alla sua condizione naturale. Tuttavia il sovrano dovette sottoporsi a un rito purificatorio: immergersi con tutto il corpo alla sorgente del fiume Pattolo, sul monte Tmolo, in Lidia. Mida si liberò così di quello scomodo dono e da quel momento sarebbero state le acque del fiume a trasportare pepite d’oro. La leggenda de re Mida affonda le sue radici nelle origini del popolo frigio, inizialmente stabilitosi nella regione della Macedonia. Verso la fine del II millennio a.C. i frigi si diressero dall’Europa fino a un’amplia regione dell’Asia Minore, l’odierna Turchia, che con il tempo avrebbe preso il nome di Frigia. Furono loro a portare con sé fino in Asia la leggenda di Sileno, una divinità o genio ibrido della natura, daímono creatura divina inferiore legata ai riti dionisiaci e al seguito del dio Dioniso. D’altra parte il mito del dono divino ricevuto da Mida, grazie al quale il re poteva tramutare in oro tutto ciò che toccava, derivava dalla credenza molto diffusa secondo la quale i re frigi possedevano enormi ricchezze naturali. Sia in Macedonia che in Tracia, luogo di provenienza dei frigi, sia nelle regioni dell’Asia Minore occupate dalla loro stirpe, la storia racconta di monti auriferi come le miniere del Pangeo, del Tmolo e del Sipylos, e di correnti fluviali che trasportavano oro, come i fiumi Pattolo e Ermo, oggi denominato Gediz. Molte tradizioni locali dell’Asia Minore tramandano storie di leggendarie “fonti del re Mida”, dove il monarca aveva fatto prigioniero Sileno. Sotto il governo di Mida, tra la fine dell’VIII secolo a.C. e l’inizio del VII secolo a.C. i frigi raggiunsero la loro epoca di massimo splendore. Oggi sappiamo che il protagonista del mito, Mida, figlio di Gordio, fu una figura realmente esistita, che coincideva con uno dei primi monarchi della Frigia. Sotto il suo governo, tra l’ultimo terzo dell’VIII secolo a.C. e l’inizio del VII secolo a.C., i frigi raggiunsero la loro epoca di maggiore splendore. Lo scrittore cristiano Eusebio di Cesarea nel suo Chronici Canones indica che il regno di Mida si estese dal 740-739 a.C. al 696-695 a.C. Mida avrebbe dunque regnato sui frigi per più di una generazione. Queste date sono sate confermate da fonti orientali, che documentano l’esistenza di un re chiamato Mittaa , Mitâ), il quale regnava sul paese di Moshki o Mushki (Frigia) tra il 718 e il 709 a.C. Durante questo periodo i frigi godettero di un certo protagonismo nelle relazioni con il resto del mondo greco e con i regni d’Oriente, in particolare con l’Impero assiro. Mida fu contemporaneo dei re assiri Tiglatpileser III, Salmanassar V, Sargon II e Sennacherib. Già ai tempi del monarca assiro Tiglatpileser I, il popolo moshki aveva cercato di invadere una parte dell’Impero assiro, arrivando a minacciarne seriamente la frontiera occidentale. Gli annali del re Sargon II ci informano che nel 717 a.C. Mida aveva stipulato un patto con il re luvio di Karkemish, vassallo di Sargon, dando poi inizio a delle ostilità con l’Assiria. Sappiamo anche che Mida ordì diversi piani contro gli assiri insieme ai re luvi delle città di Tyana, Melid e Gurgum, in Anatolia. In altre occasioni tentò senza successo di stabilirsi in Cilicia, nella costa sudorientale dell’Asia Minore, e più tardi, di comune accordo con i re armeni, incoraggiò le rivolte popolari che scoppiarono in Cappadocia. Il re assiro Sargon si vide allora obbligato a innalzare fortificazioni per proteggersi dagli armeni e dai frigi. In questo momento il regno di Mida raggiunse la sua massima espansione, dal corso superiore del fiume Halys fino a toccare, a sud, la frontiera con la Cilicia. Ma anche Mida aveva i suoi avversari: i suoi territori erano minacciati dal popolo nomade dei cimmeri. Il re frigio dovette così scendere a patti con l’Impero che tanto a lungo aveva cercato di invadere: per difendersi dai cimmeri, decise di porsi sotto la tutela degli assiri. Tra il 710 e il 709 a.C. firmò un trattato di pace con il governatore assiro della Cilicia e inviò all’imperatore Sargon una serie di regali, com’era uso all’epoca, impegnandosi a consegnare annualmente un tributo ai suoi nuovi protettori. Mida donò al santuario di Delfi il trono reale dal quale amministrava la giustizia sui suoi vassalli. Agli occhi dei greci l’importanza e la magnificenza di Mida furono palesi già quando il monarca era ancora in vita. Erodoto racconta che il re donò al santuario di Delfi il trono dal quale amministrava la giustizia sui suoi territori. Questo manufatto si custodiva all’interno del cosiddetto tesoro dei Corinzi (che si pensava fosse il tesoro del tiranno Cipselo) insieme ad altri preziosi oggetti d’ oro e d’argento che erano stati inviati a Delfi dal re Gige di Lidia. Ai tempi di Erodoto, ormai a metà del V secolo a.C., il trono faceva ancora parte del tesoro, anche se era evidente che non si trattava di quello autentico, ma piuttosto di un’offerta agli dei tipica della diplomazia orientale. Le rappresentazioni di troni vuoti si trovano spesso, soprattutto come ex voto, nei templi dell’antica Frigia. La donazione di quel trono all’oracolo di Delfi costituisce un indizio indiretto del fatto che il re frigio mantenesse buone relazioni con i greci dell’Asia Minore e con i suoi vicini lidi. Esistono prove di questo contatto stabile, come il fatto che Mida avesse contratto matrimonio con Hermodike, Damodice o Demodike, la figlia del re Agamennone di Cyme. È probabile che questo legame rivestisse una valenza politica e che avesse come fine ultimo quello di consolidare le mire espansioniste del regno di Frigia verso le coste occidentali dell’Anatolia. Una spiegazione simile può essere data riguardo all’aneddoto del supposto epigramma funebre di Mida. Secondo una leggenda i suoceri o i cognati del re frigio avrebbero incaricato lo stesso Omero di redigere un testo sulla stele funebre di Mida, sulla quale era disegna una ‘vergine di bronzo’, forse una sirena. Questo sarebbe l’epitaffio creato da Omero: “Sono una fanciulla di bronzo, sto sulla tomba di Mida. / Finché l’acqua scorrerà e i grandi alberi saranno verdi, / il sole sorgente e la luna luminosa splenderanno, / i fiumi scorreranno e il mare ondeggerà, / restando qui sulla tomba molto compianta, / annuncerò ai passanti che qui è sepolto Mida”. Sebbene i versi attribuiti a Omero sembrino risalire a un’epoca posteriore, probabilmente al IV secolo a.C., questa composizione è indicativa delle relazioni politiche che esistevano tra Frigia, Lidia e tutte le città greche della costa dell’Asia Minore tra l’VIII e il VII secolo a.C. La sua tomba, riccamente decorata, si trova probabilmente  a Gordio. Al suo interno gli archeologi hanno portato alla luce una bara di legno e diversi mobili funebri. Riguardo al resto della biografia di Mida, le fonti antiche aggiungono solo che il regno della Frigia alla fine fu vittima dell’invasione dei cimmeri, e che il sovrano preferì darsi la morte ingerendo veleno. La sua tomba si trova probabilmente vicino a Gordio, l’attuale città turca di Yassihüyük, nel cosiddetto tumulo del re Mida. Nei suoi locali interni, riccamente decorati, gli archeologi hanno rinvenuto negli anni cinquanta del secolo passato una bara di legno e numerosi mobili funebri. Fu proprio a Gordio dove Alessandro Magno, all’inizio della sua avanzata contro l’impero persiano, si fermò per tagliare il celebre “nodo gordiano”: secondo la profezia infatti, chiunque fosse riuscito a sciogliere il nodo sarebbe diventato imperatore dell’Asia Minore.

Favria,  26.05.2021 Cortese

Buona giornata. Nel quotidiano cammino spesso inciampo tra gli sterpi della vita, e i graffi che mi provocano  si rivelano vere perle di saggezza per la mia crescita interiore. Felice mercoledì.

Grandalbero e Bellachioma

C’era una volta nel bosco della Favriasca un Pioppo Nero come i segreti dell’oscura notte, che s’ergeva elegante e maestoso tra il Saggio Frassino, il vecchio Olmo, il cugino Ontano Nero e ai suoi figli Salice Bianco e Salice Rosso. Messer Pioppo Nero chiamato Grandalbero. Non era l’albero più imponente del bosco ma sicuramente aveva un suo particolare fascino con una chioma ovale, verdissima e ricolma di foglie lunghe e strette, che creavano un immenso gioco di luci e di riflessi. La chioma di Grandalbero in autunno conquistava tutte le sfumature del rosso e dell’oro  e per questo era corteggiato da tutte le pioppelle del bosco, cosi si chiamavano i pioppi femmina nel popolo degli alberi. Grandalbero era orgoglioso della sua capigliatura costantemente scossa dal vento, sia dai leggeri refoli o durante i violenti temporali. Quando veniva scosso dal vento pareva che dalla sua  chioma si generasse una sinfonia di note che si irradiava nel bosco, come un canto di fate. Grandalbero si ergeva al limite della chiara radura con il suo abito nerastro, possente e tenace come un guerriero. La sua chioma racchiudeva tantissimi nidi di uccelli piccoli, vivaci che scrutavano il cielo dai rami che si ergevano dal tronco diritto e nodoso, dalla corteccia fessurata e stanca. Un giorno Grandalbero pensò che voleva girare il mondo, o meglio il bosco, stanco della bella radura luminosa dove abitava da tempo. Pensava spesso che avrebbe potuto conoscere altri luoghi, altri alberi  e fiori profumati. Era attratto dalla bellezza delle maestose querce, la sapienza delle antiche sequoie, la gioiosa freschezza dei tigli. Voleva vedere il tramonto del sole in altri luoghi, ma finchè restava fermo con le sue possenti radici, non si sarebbe spostato da una zolla.  Come ogni anno Grandalbero mostrava la sua splendida fioritura espandendo il suo intenso profumo, finché un bel giorno i suoi frutti furono maturi, e da essi fuoriuscirono tanti piccoli semini piumosi come cotone che il vento portò molto lontano. Uno di questi andò a posarsi su una splendida pioppella chiamata Bellachioma. Bellachioma con un canto che solo gli alberi sanno cantare chiamò a se Grandalbero. Allora Grandalbero ruppe gli indugi, meglio ruppe le zolle di terra vicino alle radici, ne ruppe qualcuna ed estrasse le sue possenti gambe dalla zolla,  andando verso l’ignoto, verso il canto di Bellachioma. Ogni tanto si bagnava nelle acque di un ramo della roggia che  scorreva pigramente nel bosco e  si fermava a far riposare la sua immensa fatica. Un giorno arrivo al bordo di una radura con uno stagno, detta radura del Sambuco. Grandalbero ebbe davanti a sé uno spettacolo che le accese subito il cuore un germano reale e un martin pescatore volarono intorno a lui e le mostrarono la strada per proseguire il viaggio. Grandalbero  si congedò dagli altri amici conosciuti durante il cammino, signor Rospetto e madama Raganella. Proseguì il suo viaggio ed incontrò due Ontani neri, messer Sambuco e sorridente Frassino.  Dalle loro fronde s‘alzò un canto di merli e cardellini ed un picchio che, smise per un attimo di  cercare insetti e gli sorrise. Un grazioso Olmo campestre si levò gentilmente il cappello e tutto il sottobosco si fece avanti ricco delle sue fioriture: biancospino, frangola, corniolo, nocciolo, prugnolo, ligustro, sanguinello, fusaggine e luppolo. Il viaggio proseguì in un clima di festa e l’allegra compagnia si spinse avanti fino al tramonto. La giornata volgeva al calere del sole sorse una Luna rossa. Grandalbero fu sedotto da tanta bellezza e restò a contemplare la scena prima d’abbandonarsi al sonno e ai sogni della notte. Durante la notte mentre  dormiva aveva l’impressione che tutti il popolo degli elfi saliva sui suoi rami  coccolandolo tutto. Al suo risveglio Grandalbero non trovò più nessuno, o meglio solo una lepre che era pronta a indicarle il cammino. La guardò con i suoi occhietti curiosi e iniziò una veloce corsa. Grandalbero dovette districarsi tra le piante, attraversare campi di fiori, e guadare i rami della roggia, attraversare dei verdi prati. La sua marcia proseguì per  tre giorni e tre notti e la terza notte raggiunse una radura illuminata dal cielo stellato. Era piacevole il bagliore di tutti quei puntini e il suo cuore fu colmo di desideri. Non era più ansioso di arrivare a destinazione, ma voleva assaporare ogni momento del viaggio. Nella notte attraversò un muro luminoso formato da tante piccole lucciole e all’alba si trovò finalmente proprio vicino a Bellachioma con la gioia nel cuore l’aveva trovata. Ma la cosa piacevole erano stati i  tanti  interessanti incontri, che sono i lati positivi della vita. Era stato accolto con  gentilezza dalle Betulle, dalla tristezza dei Salici, dalla precisione dei Cipressi, dalla possanza dei Faggi e dalla sicurezza dei Frassini. I fiori incontrati durante il viaggio le avevano raccontarono i segreti dei loro colori inondandola della loro fragranza. Le lumachine che s’affrettavano verso uno stagno le mostrarono splendide Ninfe intente a filare e tessere i destini degli uomini, deliziose Silfidi avvolte in vesti argentate tra i cespugli di rose bianche e Ondine danzanti sul far della sera o alle prime luci dell’alba. La lentezza del suo passo le consentiva di osservare quel mondo invisibile che spesso sfugge ai sensi distratti. Sfidò le tortore che svolazzavano in aria festose. Gli animali lo guidarono: l’ermellino bianco nelle strade più fredde, gli scoiattolini nelle radure del bosco, i lupi attraverso la selve più intricate. Tutto lo rendeva felice facendole pian piano sentire quella terra che nutriva le sue radici. Oltre ad aver incontrato Bellachioma il viaggio le aveva donato conoscenza e aperto nuovi orizzonti.

Favria, 27.05.2021    Giorgio Cortese

Buona giornata. Quando ci sforziamo di diventare migliori di quello che siamo, anche tutto ciò che ci circonda diventa migliore. Felice giovedì.

Donazioni Fidas a giugno in Canavese

Ecco dove si dona a giugno in Canavese Zona 2 Fidas

Locana, giovedì 3 giugno

Feletto, domenica 6 giugno

Rivarolo, lunedì 7 giugno

Pont C.se, sabato 12 giugno

Valperga, domenica  13

Pont C.se, lunedì, 14 giugno

Varisella, mercoledì 16 giugno

Rivarolo,  giovedì 17 giugno

Bosconero, domenica 20 giugno

Ozegna, lunedì 21 giugno

Rivarolo, venerdì 25 giugno

Qui di seguito cellulari dei referenti gruppi dove potete prenotarvi

Aglie’  331-3539783

Barbania / Front  347-9033496

Bosconero 011-9889011 e 338-7666088

Cirie’   340-7037457

Corio   348-7987945

Favria   333-1714827

Feletto  339-1417632

Forno Canavese _ 338-8946068

Levone  340-0675250

Locana  349-6623516

Lombardore / Rivarossa   333-3310893

Montanaro  377-7080944

Ozegna  334 7717626

Pont  333-8937412

Rivara  339-6339884

Rivarolo Canavese  348-9308675 e 347-4127317

San Giusto Canavese   377-1213021

Valperga / Salassa / Pertusio  347-5821598

Varisella / Vallo  333-9584743 

Favria,  28.05.2021    Giorgio Cortese

Buona giornata. Credo che nulla nella vita non sia importante, ogni momento può essere un inizio. Felice venerdì!

Ferluch non ferloch.

Ferluch, questo lemma piemontese proviene dall’aggettivo anglosassone feordheling, quarto di moneta, da cui l’italiano ferlino, la parola nasce dall’olandese vierling, tedesco vier e inglese four che vuole dire quattro. Il ferlino era anticamente unità di misura per pesare l’oro, l’argento e le monete. In Inghilterra valeva 1/4 di sterlina e in Francia 7,2 grani.  Si trova indicata con questo nome anche una moneta di necessità coniata a Candia, dominio della Serenissima Repubblica di Venezia dal capitano generalE G.B. Grimani nel 1647. La variante femminile ferlina era invece un particolare tipo di bombarda, detta bombarda alla ferlina, usata nella seconda metà del sec. 15°, in Lombardia; prese il nome dal maestro “gittatore” Ferlino, che fu al servizio prima del marchese di Chieri, poi del conte Francesco Sforza. In francese la parola derivata freluques, voleva indicare monete di scarso valore. Tornando al lemma piemontese ferluch, che vuole dire  quattrino ma anche persona di scarso valore, presuntuosa e saccente. In italiano potremmo dire che è un farlingotto persone che si vantono di sapere e parlano male storpiando il linguaggio, sopprannome dato anticamente ai lanzichenecchi per ovvi motivi. Insomma: di farlingotti in giro, di questi tempi, ce n’è tanti; sono coloro che per ignoranza, noncuranza o per darsi lustro usano inutilmente o forzatamente parole straniere pur in presenza di un perfetto corrispettivo italiano. E qui arriviamo partento dal saccente  ferluch al ferloch che in piemontese vuole dire babbeo ciarlone che favella senza fondamento, purtroppo  questa fauna bipede è molto numerosa in ogni ambito. La cosa carina che la parola ferloch deriva dal francese freluquet, che indicava una perosna esile e frivola, pure pterenziosa.  In piemontese  da questa parola nasce la parola fanferluchet, parlares modatamente per nulla,  dalla stessa parola nascono i lemmi simili di tardochè e terdochè. L’italiano farlocco nasce dal gergo romanesco ma non si è sicuri che derivi dal ferloch piemontese, ma certe persone lo sono veramente dei ferloch!

Favria,  29.05.2021   Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita trovo persone che mostrano la loro umanità ed altre che la dimostrano, ed è una bella differenza. Felice sabato.

Leontè!

Eracle, Ercole, era figlio di Zeus, Giove un dio e  di una mortale. Egli aveva preso anche moglie e aveva avuto diversi figli. La dea Era, Giunone la moglie di Zeus che continuava a vederlo come il frutto del tradimento di suo marito, ed il suo odio continuava a crescere a dismisura. Un giorno, colta dai mali sentimenti che provava verso il giovane, gli fece calare un panno intriso di sangue sugli occhi. Quando il panno lo raggiunse, Ercolefu colto da un’improvvisa follia, e  colpì a morte i suoi figli e la moglie. Inoltre uccise anche due dei suoi amati nipoti, figli del fratello Ificle. Soltanto Iolao riuscì a sfuggire alla morte. Quando si riebbe, il giovane Ercole fu preso dal rimorso davanti al suo scellerato operato, e rifuggì il cibo e la luce del sole per molti giorni. Tuttavia Gioveera pronto a dare una possibilità al figlio prediletto, e gli disse attraverso la pizia, veggente, di Delfi, che avrebbe potuto riscattarsi compiendo dodice fatiche che gli avrebbe imposto Euristeo, il re che gli aveva involontariamente usurpato il trono, e che quindi Ercoleodiava. L’eroe acconsentì e si mise in viaggio verso le porte della città dove si sarebbe messo a servizio del sovrano. Una volta giunto a Tirinto, Ercole si sottomise ad Euristeo, ma il re, spaventato dalla possibilità di essere spodestato dal suo regno, scelse come prima prova una missione impossibile da assegnare all’eroe. Infatti egli gli impose di uccidere il leggendario leone di Nemea, una creatura posta a castigo degli esseri umani per un mancato sacrificio agli dei. Nell’Argolide c’era una valle chiamata Nemea dove viveva un mostruoso leone, nato da Tifone e dal Echidna, che devastava paesi, uccideva animale e uomini, di cui tutti gli uomini avevano paura. Questo leone era invulnerabile, nessuna arma dal legno, al metallo, alla pietra era capace di scalfire la sua durissima pelle. Ercole accettò il compito, ed armato di alcune lance e della sua fidata mazza, si recò in quelle lande per stanare la tremenda bestia. Giunto nel villaggio vicino alla tana conobbe Leorco, l’unico abitante superstite, che aveva avuto la famiglia sterminata dalla belva. egli lo ospitò di buon grado, e gli diede dei consigli per fronteggiare la fiera. Giunto il mattino Ercolesi avviò alla tana del Leone di Nemea, e vedendolo abbeverarsio presso un fiume, gli scagliò contro le sue lance letali. Purtroppo queste si infrangere sulla corazza invincibile del leone. La belva fuggì verso la propria caverna e Ercole la inseguì, e pose un enorme macigno di fronte all’ingresso. La fiera gli si pose dinnanzi, ma Eracle la colpì con un vigorosissimo colpo di clava sul muso, mandandola in pezzi. Il leone di Nemea rimase illeso, tuttavia stordito. A quel punto l’eroe gli saltò addosso a mani nude, e gli cinse il collo con forza. Il leone gli strappò la falange di un dito nella lotta, ma Eracle alla fine ebbe la meglio e lo soffocò. Quando il giovane si presentò alla corte di Euristeo con la pelle del leone, egli fuggì spaventato, e gli impose di lasciare i suoi trofei al di fuori delle porte della città. Eracle conciò la pelle invincibile del leone, e ne fece un mantello per se stesso, mentre della testa ne fece un elmo, e questa prima fatica era compiuta.

Favria, 30.05.2021 Giorgio Cortese

Buona giornata. Se nella vita a volte non ci fosse il dubbio, tutto sarebbe scontato. Felice domenica