Agosto! – La zanzara e il ponfo! – Un gelato al limon. – Il tamarindo. – La lucertola, la spilla dei muretti. – Calabrun o bergiun!. – Dal scrieul ai ciarlatan. – La caussàgna d’l gorègn! … LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Agosto! Benvenuto agosto ottavo mese del calendario gregoriano e il terzo mese

dell’estate. Anticamente venivi chiamato sextilis, poi il senato romano ti rinominò “augustus”, nell’anno 8 a.C., in onore dell’imperatore Augusto, dal quale prende il nome anche il ferragosto, feriae Augusti. Il Senato aggiunse un giorno alla durata di agosto, levandolo a febbraio, per renderlo uguale a luglio dedicato a Cesare.
Nei primi giorni d’agosto tutta l’estate risplende ancora la luce dell’estate. Tra otto, quindici giorni, nella natura ci sarà un’impercettibile sfumatura di mutamento. Agosto è il periodo dell’anno in cui tutto rallenta. I passi morbidi sulla sabbia, le onde che si frangono sulla riva, i pensieri che si guardano intorno e scoprono la bellezza di non fare niente. Accelerano solo le pagine dei libri letti, gli sguardi d’amore e i battiti del cuore quando guardano il cielo di notte. Questo mese possiamo “staccare la spina”. Per molte persone è l’unico mese per potere “uscire dalla mischia quotidiana”, che spesso assorbe tutto l’umano tempo. Agosto mese di riflessione su prospettive, trend, obiettivi e strategie da seguire. E’ il periodo dell’anno che preferisco perchè è il momento in cui penso e avvio nuovi progetti e posso anche dedicarmi alla riflessione. Continuerò ad essere presente sui social perchè ad Agosto, a differenza di quanto si possa pensare, succedono tantissime cose.

Ciao a tutti.

Favria, 1.08.2022  Giorgio Cortese

Buona giornata. Ci sono avvenimenti ad agosto che ci aspettano in così tanti posti.
E noi non li raggiungiamo mai. Felice lunedì.

Vivi con quelli che possono renderti migliore e che tu puoi rendere migliori. C’è un vantaggio reciproco, viva la vita se doni la vita. Ti aspettiamo a FAVRIA VENERDI’ 5 AGOSTO  2022, cortile interno del Comune dalle ore 8 alle ore 11,20. Abbiamo bisogno anche di Te. Dona il sangue, dona la vita! Attenzione, per evitare assembramenti è necessario sempre prenotare la vostra donazione. Portare sempre dietro documento identità. a Grazie per la vostra collaborazione. Cell.  3331714827- grazie se fate passa parole e divulgate il messaggio

La zanzara e il ponfo!

Questa notte complice un bliz notturno di un paio di zanzare che senza violenza, con calma e impazienza le ho sentire ronzare nelle stanza. Mi sembrava che svolazzavano a zonzo ed invece ero io la loro vittima designata della serata. il regalo finale è stato constatare, dopo, un paio di ponfi sulle gambe scoperte, e la coda dell’immancabile prurito. In natura, ogni elemento ha sempre un suo scopo di esistere, anche le zanzare servono, pensate che hanno una loro funzione e un proprio ruolo nella natura che ci circonda. I maschi della zanzara sono degli impollinatori come api e bombi,  si nutrono esclusivamente di sostanze zuccherine,  infatti non sono loro i responsabili dei tanto fastidiosi pruriti e le punture provengono dalla zanzare femmine dedite alla riproduzione e,  per portare a termine il processo riproduttivo, hanno bisogno del sangue come fonte di nutrimento per l’alto contenuto proteico che permette la maturazione e lo sviluppo delle uova. E poi le zanzare che sono numerosissime in natura circa 3.580 nel mondo e in Italia circa  60 specie, rappresentano un’immensa fonte di cibo per altri animali, come rane, rospi, pipistrelli, uccelli e piccoli rettili. Quello che mi consola è la mia bontà, altrimenti perché le  zanzare  vengono ad assaggiarmi di notte mentre dormo, poi questa mattina ho finalmente  capito perché la zanzara fa zzzzzz…. Argomento di viva attualità, dato l’assalto delle zanzare che si verificava ogni notte, ma di questo lo scrivo un’altra volta mentre ogni notte le zanzare svolazzano a zonzo con arrogante imprudenza nella calda notte quando io dormo e nel sonno sono in stato di incoscienza, senza la zanzariera.

Favria,  2.08.2022 Giorgio Cortese

Benvenuto agosto. Un mese senza orari, senza cose urlate, senza fretta, senza obiettivi. L’assenza di quasi tutto. Ma la leggerezza e la gioia intorno. Felice martedì.

Un gelato al limon.

Carissimi, la canicola ci avvolge nelle sue calde spire e per trovare sollievo mi gusto un sorbetto al limone pensando alla canzone di Paolo Conte:

“Un gelato al limon.

Gelato al limon

Gelato al limon

Spofondati in fondo a una città

Un gelato al limon

è vero limon.

Ti piace?”

Mentre ci gustiamo il gelato che solletica le nostre papille gustative di freschezza ci domandiamo da quanto tempo hanno fatto la prima limonata nella storia umana.

Udite, udite, la prima limonata fu figlia di una titanica fatica, nel vero senso della parola. Secondo alcuni autorevoli interpreti della storia Antica, quando si narra del famoso “Albero dei pomi d’oro”,  che si trovava nel giardino delle Esperidi,  figlie del titano Atlante e di Esperide,  si fa riferimento proprio ai limoni.  L’albero dai pomi d’oro era stato dato in dono da Gea, Madre Terra, a Hera, Giunone, il giorno delle sue nozze con Zeus, Giove.

Questo giardino sorgeva in Mauritania alle pendici del Monte Atlante, era un luogo fantastico ed incantato, dove si trovava l’albero dai pomi d’oro, simbolo di fecondità e amore. Questo magico albero era gelosamente custodito dalle tre Esperidi: Egle, Erizia ed Esperaretus, e da Ladone, il drago dalle 100 teste che non dormiva mai. 

Erccole in una delle sue mitiche dodici fatiche, fu costretto a scarpinare fino all’estremità occidentale del mondo, per saccheggiare il giardino delle Esperidi e regalare ai mortali il prezioso agrume su richiesta del re Euristeo.  Qui il mito si diffonde in diversi racconti, in una Ercole ingannò Atlante, padre delle tre ninfe, affinché rubasse per lui alcuni frutti del prezioso albero.

Secondo altre versioni  Ercole rubò direttamente i pomi d’oro uccidendo il drago  Ladone con un colpo di freccia e , le Esperidi, per il gran dolore di aver perso i frutti che dovevano custodire si trasformarono ciascuna in un albero simbolo della tristezza: pioppo nero, salice e olmo. Così almeno dice il mito.

La storia del limone, come si sa è un’altra. Questa pianta proviene dall’ Estremo Oriente. Forse dalla Cina, forse no, chissa? Certo è che il frutto giallo era di casa nell’impero Acmenide nell’antica Persia, dove Alessandro Magno lo vide, se ne invaghì, gli piacque e lo portò in Europa.

Da quel momento la storia del Mediterraneo si tinge di giallo. Il pomo della Media, cosi veniva chiamato fa il suo ingresso trionfale a Roma, come pianta ornamentale e profumata, ma anche come ingrediente per ricette sofisticate. Apicio, il masterchef dell’antichità, consigliava addirittura di adoperarne la parte bianca per mitigare il sapore della carne di maiale.

Insomma, allora il limone era un frutto per arricchiti con la puzza sotto il naso, uno status symbol. Nel Satyricon, il furbetto del quartiere Trimalcione lo ostenta per fare vedere la sua ascesa sociale.

Poi con le invasioni barbariche, del limone si perde la traccia e viene dimenticato.

Ritorna in Occidente con gli arabi, e in italiano assume il nome attuale di limone, dall’arabo laimun, forse preso in prestito dal persiano limun, a sua volta proveniente da altre  lingue  del sud est asiatico.

In altre lingue come il francese ed il tedesco, la parola limone si dice citron e zitrone, che traggono origine dal lemma latino citrus che nell’italiano, spagnolo ed inglese si è perso ed invece acquisito quello arabo. E, a noi in italiano è rimasto l’acido citrico , contenuto nei suoi succosi frutti. Ritornando al limone, fa la sua comparsa in Andalusia, al seguito degli invasori arabi dal Marocco, vicino ai mitici luoghi indicati come giardino delle Esperidi, poi in Sicilia, fino a quando gli astuti mercanti della repubblica amalfitana fiutano l’affare e impiantano agrumeti a tappeto nella loro incantevole costiera e nella penisola sorrentina. è il trionfo definitivo del citrus limonum.

Le virtù terapeutiche, il sapore deliziosamente rinfrescante, l’inebriante profumo esperideo, la bellezza della pianta, la fioritura perenne sono le ragioni dell’irresistibile ascesa di un frutto che finisce per diventare l’icona del Mezzogiorno italiano.

Con il contributo davvero straordinario dei viaggiatori del Grand Tour che creano una vera e propria mitologia del limone, facendo degli scintillanti giardini di Sorrento, di Amalfi e delle limonaie della Conca d’ oro l’immagine stessa dell’abbagliante solarità mediterranea.

Al paesaggio dela terra dove fioriscono i limoni ben si addicono anche i versi che J.W. Goethe mise sulla bocca della sua Mignon: “Conosci tu il paese dove fioriscono i limoni? Nel verde fogliame splendono arance d’oro Un vento lieve spira dal cielo azzurro Tranquillo è il mirto, sereno l’alloro Lo conosci tu bene? Laggiù, laggiù Vorrei con te, o mio signore, andare! “.

E proprio in quel Sud idealizzato da Goethe stava nascendo l’industria dell’agrume, che all’ inizio dell’Ottocento, grazie alle coltivazioni intensive diventa un frutto sempre più democratico, una vitamina alla portata di tutti.

Tra l’altro proprio in quegli anni gli Inglesi scoprono che il succo di limone cura lo scorbuto e la marina britannica include la limonata nella razione kappa della flotta di Sua Maestà. In verità, che il limone fosse una panacea per molti mali era cosa ben nota alla saggezza popolare che con il citrus conciliava da sempre gusto e salute. Tant’ è che in città come Napoli e Palermo la spremuta scorreva a fiumi dai banchi stradali degli acquafrescai.

Ben prima che l’ungherese Albert Szent-Gyorgyi scoprisse nel 1932 quell’ ascorbina, che sotto il nome di Vitamina C, che è diventata un mantra del salutismo moderno.

Insomma, un po’ per passione un po’ per necessità, dal Mezzogiorno iol gusto del limone si è trasformato da ingrediente locale in un aroma globale, un contrappunto planetario del sapore: dalla mayonnaise alla scaloppina, dal sorbetto al lemon pie, per non dir dei frutti di mare. Un vero universale popolare della gastronomia. Quintessenza di liquori “fai da te” come il limoncello, che una ecumenica spinta dal basso ha trasformato in uno spirito del tempo.

Come vedete senza questo viaggio millenario, con i suoi miti oggi non avremmo la ghiacciata o il gelato al limon per rinfrescarci nella calura estiva né potremmo poi goderci un limoncello fatto in casa alla fine del panraguelico pranzo di Ferragosto.

Si capisco, la malizia di chi legge, vi state domandando da dove salta fuori il limonare.

Non possiamo darvi una risposta univoca, per alcuni pare dal moto delle lingue nell’atto del bacio che richiama il movimento della mano che spreme un limone.

Non sappiamo chi per primo ha fatto questa associazione di idee, forse una persona che si stava gustando un gelato al limon, magari ascoltando la conzone di Enzo Jannacci, “Parlare con i limoni”:

“Da un giorno all’altro sei lì a parlare, e con i limoni

Uno che è giallo, uno che è verde

Uno che grida ma non si arrende.”

Favria, 3.08.2022 Giorgio Cortese

Buona giornata. Domani sarò ciò che oggi ho scelto di essere. Felice mercoledì

Vivi con quelli che possono renderti migliore e che tu puoi rendere migliori. C’è un vantaggio reciproco, viva la vita se doni la vita. Ti aspettiamo a FAVRIA VENERDI’ 5 AGOSTO  2022, cortile interno del Comune dalle ore 8 alle ore 11,20. Abbiamo bisogno anche di Te. Dona il sangue, dona la vita! Attenzione, per evitare assembramenti è necessario sempre prenotare la vostra donazione. Portare sempre dietro documento identità. a Grazie per la vostra collaborazione. Cell.  3331714827- grazie se fate passa parole e divulgate il messaggio

Il tamarindo.

Un ricordo che ho da bambino quando nei lunghi pomeriggi d’estate rimanevo in casa con mia nonna, e nei momenti più caldi del pomeriggio,  ricordo mia nonna  quando si sedeva sugli scalini di pietra della scala interna, lasciando che salisse il fresco dalla tromba delle scale della sottostante cantina. Mi faceva sedere vicino a lei nel raccontarmi delle storie e mi preparava acqua e tamarindo. Versava lo sciroppo di tamarindo da una elegante bottiglia quadrata che sul retro descriveva il prodotto. Per me allora era la miglior bibita dissetante del mondo. Allora mi chiedevo che cosa fosse questo succo di tamarindo che versava da un botticino. La pianta del tamarindo, nome scientifico Tamarindus indica, è un sempreverde appartenente alla famiglia delle leguminose che può raggiungere anche i 30 metri di altezza, albero sempreverde maestoso, di lunga vita, appartenente alla famiglia delle leguminose, originario del Madagascar e poi diffuso in tutte le aree tropicali asiatiche e poi anche in America  latina.  Il suo frutto è simile al carrube, una fava che contiene al suo interno dei semi,  solito dalle 4 alle 12 unità per baccello.  Il tamarindo ha la caratteristica di essere longevo, arrivando anche ai 150 anni di età! Viene e anche chiamato dattero d’India. Del tamarindo viene utilizzato anche il legno per la realizzazione di mobili e suppellettili, mentre le sue foglie sono un ottimo nutrimento per i bachi da seta e dai fiori si ricava un antiparassitario, infine i frutti di questa pianta sono molto apprezzati anche dalle scimmie. In Italia il tamarindo venne usato per creare una bibita, chiamata Tamarindo Erba, quello che mi offriva mia nonna, che al suo esordio sino dal 1898 è stato un prodotto di grande diffusione e successo e si allungava con acqua ghiacciata, mia nonna negli anni sessanta del Novecento faceva scorrere l’acqua del rubinetto, che era molto fredda. La bibita mi ricordo era molto rinfrescante o che diceva mia nonna per destissé la sej, spegnere la sete, infatti le popolazioni del deserto usano ancora adesso masticarne le foglie per combattere la sete. Pensate che  in India nella mitologia hindu questo frutto viene solitamente associato al matrimonio di una delle divinità, avvenuto in novembre, periodo in cui si trovano più comunemente. Si dice, inoltre, durante l’Età Vittoriana, gli inglesi colonizzatori che vivevano a Goa in India, tenevano un baccello di tamarindo sull’orecchio quando si recavano nei quartieri più poveri per tenere lontano gli abitanti del posto, i poveri indiani pensavano che i baccelli fossero abitati da demoni e per questo evitavano i soldati; questa usanza dei soldati inglesi valse loro il nome di teste di tamarindo. Concludo con questo racconto orientale che dice così: “Chi pianta tamarindi, non raccoglie tamarindi”. Questo perché il Tamarindo impiega almeno 90 anni per dare i suoi primi frutti. Una volta un giovane ragazzo incontrò un vecchio e saggio coltivatore di tamarindi e gli chiese: “Nonno, perché pianti i tamarindi se sai già che non potrai raccoglierli mai?” E allora il vecchio e saggio nonno posò gli attrezzi, e disse “Questi alberi non le metto a dimora per me ma per le future generazioni, perche possano usarli loro come io mangio i frutti degli alberi messi a dimora dai mei nonni”. Molte volte ci dimentichiamo che noi non ereditiamo la terra dalle precedenti generazioni, ma  la prendiamo in prestito dai nostri figli.

Favria, 4.08.2022 Giorgio Cortese

Buona giornata. Del Paradiso ci sono rimestae su questa terra tre cose: le stelle, i fiori ed i bambini. Felice giovedì.

Vivi con quelli che possono renderti migliore e che tu puoi rendere migliori. C’è un vantaggio reciproco, viva la vita se doni la vita. Ti aspettiamo domani a FAVRIA VENERDI’ 5 AGOSTO  2022, cortile interno del Comune dalle ore 8 alle ore 11,20. Abbiamo bisogno anche di Te. Dona il sangue, dona la vita! Attenzione, per evitare assembramenti è necessario sempre prenotare la vostra donazione. Portare sempre dietro documento identità. a Grazie per la vostra collaborazione. Cell.  3331714827- grazie se fate passa parole e divulgate il messaggio

La lucertola, la spilla dei muretti.

Mi inchino ai piedi di un muretto a secco e tu, lucertola, sei lì da tempo immemorabile.

In attesa. Mi guardi altera, circonfusa dalla magia di un corpo armato interamente di colonna vertebrale eppure capace di curvarsi senza tema in tutti i sensi, come molti politici.

 Eccoti lì immobile sotto il sole cocente, solitaria quieta lucertola, che accoglie il sole sopra un sasso. Ferma e calma ricevi il calore e non serbi rancore, ferma lì, di luce nuova ti nutri.

Con calma osservi sulla guglia di quel sasso rovente ed io di soppiatto Ti scruto.

Quella piccola lucertola nel silenzio dell’orto, rotto dal frinire delle cicale sembrava dirmi che era un brontosauro per parte di madre. Io non risi; le persone che si vantano degli antenati spesso hanno ben poco d’altro cui appoggiarsi. Assecondarle non costa niente e accresce la felicità in un mondo dove la felicità scarseggia sempre.

Passa un gatto nell’orto, sembra una tigre da salotto, allora la lucertola è un coccodrillo tascabile.

I dinosauri non sono lucertole, e viceversa. Le lucertole sono rettili squamosi d’una dinastia antica. 

La lucertola facile preda di diversi animali, riesce ad auto amputarsi la coda attraverso contrazioni muscolari, così da simulare la propria morte e depistare possibili nemici. La coda, successivamente, è in grado di ricrearsi e riacquistare l’aspetto e la dimensione che aveva in precedenza. Per questa peculiarità, la lucertola era ritenuta anticamente simbolo di rinascita e rigenerazione, inoltre il suo bisogno costante di uscire dai luoghi chiusi, nascosti, inaccessibili, e mostrarsi alla luce, simboleggia la necessità di uscire dalle proprie paure per poter godere del sole della vita. La lucertola ama riscaldarsi e, per farlo, resta assolutamente immobile. L’immobilità, in questo caso, è il simbolo di osservazione e invita, pertanto, al risveglio delle percezioni.  Queste sue caratteristiche hanno alimentato in passato dei miti, secondo una leggenda  africana del Basso Congo, un giorno il sole riempì di fango la luna che, a sua volta, favorì un forte diluvio sulla Terra facendo così sparire la razza umana. Ogni essere umano mutò in animale: gli uomini divennero scimmie e le donne furono trasformate in lucertole. Per gli Indiani d’America, le lucertole erano in grado di assicurare una vita lunga e piena di salute ai nascituri e, per questo motivo, venivano utilizzate durante rituali propiziatori. Nei miti greci, narrati da Ovidio nelle Metamorfosi, la dea Demetra aveva perso sua figlia Persefone, per colpa di Ade, il dio dei morti, e andava alla sua ricerca in tutta la Grecia. Ascalafo, un argolide, incontra la Dea durante la sua ricerca di Persefone. Distrutta dal viaggio, Demetra si stava rifocillando in maniera piuttosto goffa, suscitando le risate dell’uomo che quindi la schernisce per il modo in cui beve. Irata, Demetra lo trasforma in una lucertola. Siamo in estate e ansimano le lucertole sulle pietre roventi, e verso sera con la via Lattea che risplende nella volta celeste, passa un lento carro di fieno che trasmette effluvi di questa calda estate, dove la lucertola è la spilla dei muretti simbolo dell’anima che cerca la luce, e quando la trova resta immobile, in estasi contemplativa.

Favria, 5.08.2022 Giorgio Cortese

Buona giornata. Se ogni giorno giudichiamo le persone, come facciamo ad avere il tempo per amarle! Felice venerdì.

 Calabrun o bergiun!

In piemontese la vespa crabro, calabrone si dice calabron, galavron, calavron ma non ho trovato la parola bargiun, borgiun, bergiun o burgiun, parola usata con diverse pronuncie da anziani ascoltati in Canavese. La parola calabron o sue varianti deriva dal latino crabronem, con l’infulenza del lemma scarabaeum, che deriva su un anteriore lemma frasko, calabrone di origine longobarda, affine al germanico kruslo. Si registra una variantE archaica calabruri, cavalocchio, antica denominazione del calabrone. La parola canavesana per indicare il calabrone bergiun o sue varianti potrebbe derivare dal lemma piemontese borgno, cieco. O anche da sborgnia, ubricatura con l’aferesi nel parlare della s iniziale, per indicare il tipico vole serale calabrone che sembra che va a sbattere contro gli ostacoli come un ubricato che dondola e si inciampa. In francese la parola cieco si dice borgnè, a sua volta dal latino eburneum oculum. Bianco come l’avorio, per l’aspetto biancastro pupilla. Ma in francese la parola calabrone si dice frelon e questo non ci aiuta, ma nel sud ovest della Francia, calabrone si dice: beurgaud, burgaud o bergaou. Il toponimo Burgaud, è una cittadina ruraleove si formano le prime colline della Guascogna, è il suo nome ricorda l’erica che ricopriva il vecchio territorio. Come si vede l’origine canavesaba del bergiun o bargiun non è chiara, ma nella ricerca, mi è stataraccontata una vecchia leggenda Canavesana che parla di questo insetto, associato agli stregoni e alle masche.  Una volta i lavori in campagna erano fatti tutti a mano non esistevano i trattori e allora si raccontava che gli stregoni amavano assumere le sembianze di animali particolari, quando non si presentano come uomini. Si narra che uno di questi animali preferito allora era il calabrone e ora vi racconterò il perché. Un giorno un gruppo di contadini venne a sdraiarsi sul bordo del campo dopo aver tagliato l’erba da fieno tutto la mattina, riposarsi e ristorasi dal faticoso lavoro nei campi, mangiando del formaggio fresco tagliato con una corda detto lo strasapapè, bevendo del vito mischiato con aceto, per non ubriarsi ma per togliersi con il gusto acre la sete della calura del giorno. Uno di questi contadini, preso dalla fatica e magari bevuto vino puro e non tagliato con aceto si addormentò a bocca aperta. Poco dopo, gli altri uomini sentirono un ronzio pesante e videro uscire dalla bocca dell’addormentato un calabrone. Gli altri contadini, che su di lui nutrivano sospetti per certi fatti che erano parsi insoliti, ebbero la conferma che questa persona era un mascun, uno stregone e, appena il calabrone volò via, decisero di verificare la cosa e impedirgli così di fare del male a qualche innocente. Vuotarono perciò il barilotto con il poco vino e aceto rimasto che avevano portato con loro per il pranzo e lo sistemarono sulla bocca dell’uomo, con l’apertura verso l’alto.Quando l’insetto ritornò, cercò in tutti i modi di entrare nella bocca dell’uomo che dormiva, ma ovviamente non ci riuscì. Pian piano, ronzando e posandosi sulla botticella, iniziò a scalarla e quando trovò il buco del tappo aperto ci si infilò dentro alla svelta. I contadini, che erano rimasti fermi e immobili accanto allo stregone per non spaventare il calabrone, saltarono su e tapparono prontamente il piccolo barilotto, imprigionandovi dentro l’insetto. Dall’interno del barilotto si cominciò a sentire il ronzare furioso del calabrone, il contenitore si alzò in volo, spinto dalla rabbia dello stregone-insetto! Il piccolo barilotto iniziò a volare a destra e sinistra, andando a sbattere contro una quercia li vicino. A forza di sbattere contro degli alberi, finalmente il barilotto si spezzò e il calabrone volò via sparendo dalla vista dei contadini. L’uomo che dormiva sul prato però non si svegliò mai più.

Favria, 6.08.2022   Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno se hai la coscienza pulita, puoi permetterti di guardare tutti in faccia, al contrario di chi deve abbassare lo sguardo, per la vergogna. Felice sabato.

Dal scrieul  ai ciarlatan.

La lingua piemontese è ricca  di termini  ed inizio dallo scoiattolo europeo, sciurus vulgaris. La parola piemontese scrieul deriva dal latino volgare scuriolum  derivato  a sua volta dal latino classico  scirum ed il suo verso scriolè, significa anche gridare e vine  anche chiamato scassanissole, con il significato intuibile nel prendere e rompere le nocciole. In piemontese la  ratavolòira è il pipistrello,  foìn la  faina,  la mostèila o beletta , la donnola, la galinnetta dla Madona,  la coccinella, la bòja panatera le scarafaggio stercoraio chiamata ‘panatera’ perchè infesta i sacchi di farina e quando  ci dicono che siamo al pian dij bàbi, significa che non siamo molto più su di un rospo.  Runì, il verso della volpe dal latino grundire, prima nel latino volgare grunnire e poi in occitano runì. Lapasòt. in italiano il farfaraccio, tussilago farfara, lapazio, tossilaggine, pianta erbacea medicinale perenne. Parliamo di una pianta erbacea perenne: possiamo trovarla tutto l’anno in aperta campagna, specie da queste parti. Si tratta del lapassòt, comunemente conosciuto come farfaraccio, ma anche pié d’asino, lapazio o tossilaggine. Sempre di lapassòt si tratta. Il nome scientifico tussilago farfara, deriverebbe dall’uso antico di questa pianta nel campo della medicina popolare fino a non molto tempo fa: funzionava proprio a far passare la tosse. I primi riferimenti si trovano già negli scritti di Plinio il Vecchio. Il ricorso all’utilizzo del Farfaraccio era una pratica dai benefici curativi assicurati. Pianta con proprietà diuretiche e depurative, il lapassòt posizionato sul ventre, attenuava sino a far scomparire completamente l’infiammazione. Anche l’etimo in senso stretto della parola piemontese lapassòt non è meno sorprendente. Partiamo dal latino, lappacea, trascrizione del greco lapazein, che significa sciogliere il ventre. Grazie al Repertorio Etimologico Piemontese, ecco confermata anche in questo caso la sua utilità medica plurisecolare. Questa pianta, in Piemonte non è soltanto chiamata lapassòt, ma c’è anche chi l’ha battezzata cojàss, inteso come dispregiativo di còj, per l’analogia ben più grezza della pianta del cavolo, oppure c’è chi la identifica come pé d’òca (per la morfologia delle foglie che ricorda l’arto palmato delle oche) Il lapassòt viene  anche pronunciato nella commedia Ciarlatan di Oscar Barile durante l’esilarante incursione di due improvvisati operatori sanitari che debbono vendere un’enciclopedia medica che si riveleranno autentici mascalzoni appena si comincia a parlare del prezzo.  La parola piemontese Ciarlatan significa,  oggi venditore di fumo, inaffidabile persona di infimo ordine,  affibbiata anche, nella parlata piemontese, in senso negativo, a certe persone che si inventano il mestiere di attori e si divertono a farlo: “ij piàs pròpi fé ij ciarlatan”. Pochi sanno che, in questa accezione, l’epiteto diventa un complimento perché furono  proprio le scenette e le farse messe in scena, in piazza, da Tabarin, il più grande ciarlatano, compagni di attori girovaghi, di  Francia, nella prima metà del Seicento, ad essere riprese dalla commedia dell’arte e ad ispirare Molière. Oggi di ciarlatani il mondo è pieno e si nascondono sotto mentite spoglie, cercano di imbrogliare i malcapitati che capitano loro a tiro e molte volte ci riescono, sono imbonitori e venditori di cianfrusaglie, di paccottiglia e di sogni a buon mercato che approfittano delle mode e della buona fede dei loro clienti, ma anche dei burocrati di mediocri capacità assurti ad alti livelli soltanto grazie alla poltrona che occupano, politici inossidabili ed impermeabili che, tra scandali e intrallazzi, portano avanti brillanti carriere, approfittando dell’ingenuità e della fiducia di chi, nonostante tutto, continua a credere in loro.

Favria, 7.08.2022 Giorgio Cortese

Buona giornata. L’empatia è una bellissima parola, che significa sentire felicità e dolore dell’altro, sentirlo  veramente. Felice domenica

Vivi con quelli che possono renderti migliore e che tu puoi rendere migliori. C’è un vantaggio reciproco, viva la vita se doni la vita. Ti aspettiamo a FAVRIA  prelievo straordinario GIOVEDI’ 18 AGOSTO  2022, cortile interno del Comune dalle ore 8 alle ore 11,20. Abbiamo bisogno anche di Te. Dona il sangue, dona la vita! Attenzione, per evitare assembramenti è necessario sempre prenotare la vostra donazione. Portare sempre dietro documento identità. a Grazie per la vostra collaborazione. Cell.  3331714827- grazie se fate passa parole e divulgate il messaggio

La  caussàgna d’l gorègn!

Il lemma gorègn significa in italiano tenace, coriaceo, temprato alla fatica. Difficile da masticare o digerire. Si tratta chiaramente di un aggettivo, al femminile gorëgna, attribuibile principalmente a persone ma anche a oggetti e a cibi di difficile masticazione e digestione. È una parola  che deriva dal latino medioevale gurram, vimini e molto probabilmente deriva da una precedente parola gorra, pascolo che si collega ad una parola indoeurope da  gorr, pecora montone. Adesso in piemontese ed in Canavese la persona gorégn rappresenta qualcosa di duro, forte, resistente alla fatica lavorativa. I Favriesi ed i Canavesani in genere sono un popolo gorègn, che nei secoli hanno lavorato e lavorano non solo la terra con con laboriosità ed in silenzio, e che adesso queste nostre radici sono un prezioso nostro patrimonio storico, il valore dell’essere umano laborioso. Tempo fa mi hanno raccontato una storia al riguardo. Dicono che i Canavesani sono teste dure e chi  non la pensa come noi, tenderà sempre a fargli cambiare idea con le parole, con la forza, con chissà cosa. Bene, bisogna sapere che quando si cerca di provocare, spostare o trascinare via una testa dura, questa traccerà un solco con il naso e in quel solco resteranno i semi delle buone idee da cui cresceranno ottimi frutti.  Il solco tracciato è la caussàgna, in italiano capezzagna che è il solco perpendicolare in capo al terreno alla fine del campo. Una parola che avrete sentito dire, purtroppo sempre più raramente e che indica ciascuna delle due strisce di terreno sulle testate opposte di un campo rettangolare, su cui l’aratro, giunto al termine di un solco, inverte la marcia per tracciare il solco successivo, viene anche detta in italiano  capitagna, cavedagna e derivano tutte da una parola latina medievale  capitianea, derivato di capitium, estremità , che riguarda il capo ed inteso, in questo caso, come termine del terreno agricolo e ricordiamoci sempre quando lavoriamo che nei campi  la tèra a l‘è bàsa! La terra è bassa! Buona vita a tutti.

Favria, 8.08.2022 Giorgio Cortese

Buona giornata. Non giudichiamo i giorni dalla raccolta che facciamo, ma dai semi che seminiamo. Felice lunedì.