Anemone. – Il gioco. – Castagnata! – Bietola o bietolone. – Bellum e bello. – Pedalando nella storia dell’italiano. – Gavè! …LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Anemone Anemone era una ninfa della corte della Dea della primavera Cloris, che

poi diventerà Flora. Data la sua bellezza se ne innamorarono Zefiro, vento dell’Ovest,  e Borea, vento del Nord. Chloris indispettita decise di punirla per tanta beltà e la trasformò in un fiore bellissimo, ma molto delicato. Perdeva tutti i suoi petali ad un sol soffio di vento. Così le Carezze di Borea, la tramontana, disperdevano nel vento i delicati petali e Zefiro quando arrivava sulla terra non poteva che rimirare solo il ricordo della beltà.  Nonostante questo sia il mito più diffuso, la nascita di anemone è legata ad un racconto ancora più famoso. Anche lo stesso Ovidio ce lo racconta. In questa versione la nascita dell’anemone è legata alla figura di Adone.  Adone passato alla storia e al mito era un bellissimo giovane. Di lui erano innamorate sia Afrodite che Persefone. Per risolvere la contesa le due dee si rivolsero a Zeus che ordinò che l’anno si dividesse in tre parti dove  per un terzo Adone stava da solo e i due restanti rispettivamente con le due contendenti. Afrodite grazie a un amuleto trovò il modo di trascorrere più tempo del dovuto con Adone, se non che  Persefone lo scoprì e avvertì Ares amante di Afrodite che si trasformò in cinghiale e uccise il bell’Adone. Afrodite disperata versò una pozione magica sul sangue versato e così nacque l’anemone un fiore di brevissima durata poiché i venti lo privano subito dei petali. Il triste destino di Adone segna la nascita di un  fiore che troviamo in oltre 150 varietà e in molteplici sfumature di colore.  Gli antichi lo associavano ad un simbolo funereo e gli Etruschi lo coltivavano intorno alle tombe. Inoltre l’anemone indica l’effimero e l’abbandono, si regala per far notare di essere trascurati in un’amore o in amiciziaL’anemone appartiene alla famiglia delle ranunculaceae. Si possono classificare in base alla fioritura distinguendo le specie tra quelle che fioriscono in primavera e quelli invece che invece fioriscono nel periodo tardo estivo autunnale. 
Favria, 18.10.2022  Giorgio Cortese

Buona giornata. Cadete foglie, cadete fiori e svanite, notte distenditi, accorciati giorno, ogni foglia mi parla di pace soave staccandosi con un sussulto dall’albero autunnale. Felice martedì.

Vivi con quelli che possono renderti migliore e che tu puoi rendere migliori. C’è un vantaggio reciproco, viva la vita se doni la vita. Ti aspettiamo oggi a FAVRIA  VENERDI’ 4 NOVEMBRE  2022, cortile interno del Comune dalle ore 8 alle ore 11,20. Abbiamo bisogno anche di Te. Dona il sangue, dona la vita! Attenzione, per evitare assembramenti è necessario sempre prenotare la vostra donazione. Portare sempre dietro documento identità. a Grazie per la vostra collaborazione. Cell.  3331714827- grazie se fate passa parole e divulgate il messaggio

Il gioco.

Affermava lo scrittore irlandese George B. Shaw che: “Gli esseri umani  non smettono di giocare perché invecchiano, ma invecchia perché smettono di giocare.” Il gioco è una delle più antiche attività umane. È anche uno dei primi mezzi di conoscenza per ogni bambina e bambino. Giocando affiniamo l’intelletto, sperimentiamo, apprendiamo, scopriamo i nostri limiti e cerchiamo di superali. Il gioco è un’attività sociale, ci permette di rinsaldare i legami con chi ci sta vicino. Del resto gli stessi animali giocano, almeno quelli più intelligenti, una forma non cruenta per stabilire gerarchie e per perfezionare abilità indispensabili alla sopravvivenza. Ma noi esseri umani abbiamo fatto del gioco una base fondamentale per la nostra evoluzione, sviluppando, nella storia, forme di giochi sempre più raffinati e sorprendenti.  Per alcuni antropologi l’evoluzione degli ominidi si sarebbe compiuta quando quell’essere ancora animalesco abbandonò la strada della necessità, dell’utile, della prevaricazione per avere, e fece un atto gratuito e inutile, come mettersi a giocare o a tracciare qualche segno simbolico nelle caverne. Purtroppo bisogna riconoscere che il gioco libero e puro sta trasformandosi sempre più in affare e persino in violenza: si pensi solo alla degenerazione dello sport fuori e dentro gli stadi nelle partite di calcio, al giro finanziario che ruota attorno ad esse, al doping e così via. Da bambini, quando non esistevano ancora i giochi su internet, era bello giocare per correre all’aria aperta, anche con la fantasia, una paletta ed un poco di sabbia, e diventava una fortezza. Una scopa si trasformava in un cavallo, la semplice zucca con quattro bastoncini diventava un drago che voleva distruggere il castello di sabbia. Allora, anche senza internet e gli smartphone bastava poco per improvvisare delle divertenti gare nei lunghi ed interminabili pomeriggi estivi. Bastava un gessetto, un sasso per ogni giocatore, 7 caselle disegnate per terra e tanta voglia di saltellare. Per migliorare il senso dell’equilibrio e dello spazio.  Vi ricordate il gioco della Settimana? Si disegnava per terra con un gessetto 7 caselle. Le prime 3, di seguito, che corrispondevano lunedì, martedì, mercoledì, poi due vicine, giovedì e venerdì, in senso orizzontale, dopo sabato e infine domenica, che in genere disegnata come un semicerchio. Si incominciava saltando con una gamba sola nelle prime 3 caselle, lunedì, martedì, mercoledì, per poi con entrambi i piedi, larghi, su giovedì e venerdì, con una gamba sola su sabato e ancora con tutte e due su domenica. A questo punto, si fa un giro con un salto e si ripetono i passaggi come all’andata. In questo modo, è possibile giocare da soli o in compagnia, nella versione più difficile, invece, ci vuole anche un sassolino ed è meglio essere un gruppetto. Il primo giocatore deve tirare il sasso sulla casella del lunedì, superarla con un salto, e poi procedere come prima. Chi sbagliava, si fermava e passava il turno agli altri compagni di gioco. Poi giocavano a fazzoletto o rubabandiera, dove divevano il cortile in due squadre, con un numero uguale di giocatori che si disponevano uno di fronte all’altro su due file parallele, ben distanziate.  Le due file erano divise da una linea retta che divideva il campo di gioco. Ogni coppia di avversari si dava un numero progressivo partendo dal numero 1. Uno a turno faceva l’arbitro posto al centro tra i due schieramenti, a uguale distanza tra le due squadre, contavamo a passi le distanze. Poi l’arbito teneva in mano un lembo di un fazzoletto, la bandiera, e gridava un numero. I giocatori corrispondenti correvano per cercare di afferrare la bandiera e tornare al proprio posto senza farsi acchiappare dall’avversario. Chi faceva l’arbitro doveva vigilare che i giocatori non oltrepassavano con i piedi la linea di centro campo, e ndare spinte. Gioco di destrezza, astuzia e velocità. Popi se ci studiavano troppo nelle mosse, tardando troppo a prendere la bandiera, l’arbitro chiamava altri due numeri e noi ci trovavano sospesi dal gioco per un turno. Poi ricordo il gioco dei quattro cantoni, e lupo ci sei? Allo stesso modo, da bambino osservavo gli adulti che passavano ore in serenità giocando a carte con gli amici o a bocce, una pratica ora quasi scomparsa. Tutte queste osservazioni, per altro un po’ scontate, ci fanno omprendere il significato della battuta sopracitata dello scrittore irlandese George B. Shaw: anche nel vecchio il gioco riesce a mantenere vivo e libero lo spirito e persino fresca la mente. E a questo proposito, come non spezzare una lancia a favore degli scacchi e dell’enigmistica!

Favria,  19.10.2022  Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno cvi dobbiamo sforzare di essere  di noi stessi l’originale e non la brutta copia di qualcun altro. Felice mercoledì

Castagnata!

Sino dagli albori gli esseri umani si sono alimentati di  castagne e ghiande. Con l’espansione delle coltivazioni  di castagni da parte dei romani, il suo frutto diventò una delle basi alimentari della popolazione. Iniziò a venir consumato fresco, secco, o macinato per fare farina. Dalla fine del  XVIII secolo con la diffusione del mais e della patata ridussero la sua importanza anche nell’alimentazione contadina.  Domenica 23 ottobre la Pro Loco di Favria promuove l’appuntamento annuale della castagnata con la distribuzione delle caldarroste in piazza della Repubblica, davanti al palazzo Municipale, servite tradizionalmente nel classico cartoccio. La sempre attiva e operosa Pro Loco con il patrocino del Comune di Favria organizza una castagnata con distribuzione castagne, polenta concia e frittelle  di mele, possibilità di asporto dalle ore 12,00 cucinate dalle supercuoche della Pro Loco e distribuite dai volontari. Alle ore 14, inizio castagnata allietata dai balli Occitani con Li Barmenk. Le danze occitane sono l’espressione più viva della cultura di una terra dagli ambiti sovranazionali, costituitasi culturalmente a partire dall’anno mille, culla delle tradizioni celtiche al seguito delle popolazioni ivi insediatisi nei tempi più antichi. Tutto suonato in maniera magistrale e coinvolgente dal vivo da Li Barmenk in piazza durante la castagnata. Inoltre durante l’evento festa sui pattini ed esibizione degli agonisti della Lions Skate e per tutta la durata dell’evento intrattenimento con il “pozzo di don Massimo” per tutti i bambini. Per motivi organizzativi è gradita la prenotazione cell 3280284178 – 3457248477. Affrettatevi perché le castagne, polenta concia, frittelle di mele andranno a ruba! Venite numerosi domenica 23 ottobre a Favria perché assaporerete il fascino delle atmosfere autunnali. Che bel mistero le castagne custodite dentro un guscio riccio e spinoso, e dentro un frutto dolce e gustoso! Fuori dal guscio possiedono un mantello e una camicia e hanno la pelle bella e liscia. Solo domenica 23 ottobre  a Favria potrete assaporare le gustose castagne dal sapore autunnale.

Favria, 20.10.2022 Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita quotidiana chi non ha mai affrontato le avversità non conosce la propria forza. Felice giovedì.

Bietola o bietolone.

A volte ho la vaga impressione di non afferrare il senso di quanto sicono certi politici, mi sembra di essere un bietolone.

La bietola è una varietà di barbabietola da orto, diversa da quella da zucchero, che appartenente alla famiglia delle Chenopodiaceae. Buona da cucinare semplicemente cotta al vapore o lessa, la bietola da coste è ideale anche per la preparazione di minestre, minestroni, frittate, sformati e torte salate. Il sostantivo bieta, beta vulgaris, è originario della lingua celtica e e vuol dire “rosso”, in quanto alcune varietà hanno il colore rosso presente nella costolatura e sulla radice.  L’ortaggio barbabietola deriva dal latino herba beta. La bietola ha origine antichissime, la sua antenata era parte delle coltivazioni della preistoria, quando si diffondeva naturalmente nella zona costiera caratterizzata dalla sabbia, nell’area del bacino Mediterraneo. I Babilonesi iniziarono già 3000 anni fa a cimentarsi per  sviluppare la grandezza della foglia di questa pianta.

Già gli Etruschi e i Romani ne annoveravano diverse varietà: una bianca, una rossa, e una a costole sottili che diede vita ai piatti betacei di Apicio, il mastechef di Roma Antica, tanto che i gaudenti del tempo le ricercavano come contorno a piatti sostanziosi.

Nell’Antica Roma la bietola veniva citata dallo scrittore  Columella nel I secolo d.C, esperto di Agricoltura nel trattato De Re Rustica, al Libro X, De Cultu Hortorum. Plauto nelle  sue commedie cita al v. 815 la presenza nell’orto della Bietola fra gli ortaggi: herbes …betam. Cicerone cita la bietola nell’Epistola XCI a Gallo, lamentando la dissenteria: “..a beta  e malva deceptus sum…”.  Ma, caro Cicerone, bietole e malve combattono la stitichezza e oggi in una dieta povera di fibre, ne abbiamo bisogno! Ma è il naturalista famoso dell’Antica Roma, Plinio il Vecchio del I secolo a citare la Bietola nell’opera Naturalis Historia nel Libro XIX

Nel corso dei secoli dalla pianta originaria sono derivate le erbette da orto, le coste, le rape rosse e quelle da zucchero.

Delle biete si studiarono anche le proprietà terapeutiche, come riporta il “tacuinum sanitatis” del XIV sec.: “…il loro succo toglie la forfora dalla testa e scioglie il ventre…”  La graduale selezione operata dall’uomo nel corso degli anni ha avuto come risultato il raggiungimento di diverse varietà di questa verdura: la bietola da foraggio, la bietola da zucchero e infine quella da orto, di cui inizialmente veniva utilizzata unicamente la foglia.

Solo successivamente, all’epoca della Roma imperiale, nacque la tipologia da radice, più simile alla comune bietola rossa conosciuta oggi e quella da costa. La barbabietola in francese betterave, piemontese biarava, spagnolo remolacha, tedesco futterrube o zuckerrube e in inglese beet. L’impiego della barbabietola nell’alimentazione e per la preparazione di medicinali risale ad epoca assai remota, mentre è conquista relativamente recente, inizio del sec. XIX, l’impiego della barbabietola nella fabbricazione dello zucchero e dell’alcool. Il più antico accenno alla pianta si troverebbe in un catalogo babilonese, secondo cui la barbabietola sarebbe stata coltivata nel giardino del re Merodak-baladan (722-711 a. C.), ivi menzionata col termine di selqu che corrisponde al siriaco selqa. È molto dubbio che questo nome possa connettersi col lemma greco, usato da Teofrasto, il quale indicherebbe la Sicilia quale probabile patria del tipo che vive allo stato spontaneo lungo tutte le coste del Mediterraneo. Nel 1600 l’agronomo francese Olivier de Serres metteva in evidenza che cuocendo la barbabietola si ottiene un sugo o sciroppo zuccherato; un chimico prussiano, Marggraf, estrasse per la prima volta nel 1747 zucchero cristallizzato dalle radici. Un allievo di Marggraf, F. C. Achard, procedendo sulla strada segnata dal maestro, con l’appoggio finanziario di Federico il Grande e di Federico Guglielmo III, giungeva a escogitare un metodo di estrazione industriale, che gli permetteva di far sorgere nel 1801 a Kunern, nella Slesia, il primo zuccherificio del mondo. Subito dopo altre fabbriche venivano erette in Francia, in Austria, in Ungheria, in Boemia, in Russia.  Se non che gl’inizî furono quanto mai penosi e difficili. Nella stessa Francia, dove l’industria aveva trovato il più grande e inopinato appoggio in Napoleone I, che decretando nel 1806 il blocco continentale si era illuso di poter dare al popolo lo zucchero di barbabietola in sostituzione di quello di canna, le poche fabbriche sorte con gli alti premî concessi dallo stato dovevano chiudere i battenti alla caduta dell’Impero nel 1814. Solo verso il 1850 coltura e industria cominciarono ad affermarsi e a prendere sempre più vaste proporzioni nell’Europa centrale ove la barbabietola trovò condizioni sotto ogni riguardo propizie; nel frattempo attraverso un razionale processo selettivo la barbabietola poté essere migliorata, così da mettere l’industria in grado di lavorare una materia prima sempre più ricca e tener testa allo zucchero di canna nella competizione del mercato mondiale.  Enorme fu l’influenza esercitata dalla barbabietola da zucchero nell’economia dei paesi dell’Europa centrale. Ben giustamente la barbabietola venne proclamata, da un grande agronomo tedesco, il “buon genio della Germania”, mentre nelle cronache di Francia si narra che l’ingresso di Napoleone III in Valenciennes fu salutato da un arco di trionfo intrecciato di barbabietole che portava la scritta “Circondario di Valenciennes: prima dell’introduzipne della barbabietola 245 mila ettolitri di grano e 7000 capi di bestiame; dopo l’introduzione della barbabietola 408 mila ettolitri di grano e 11.500 capi di bestiame”.

Quanto al nostro paese, dopo molteplici sfortunati sforzi, l’industria dello zucchero poteva prendere definitivo piede solo verso la fine del secolo scorso, nel 1888, zuccherificio di Rieti, per opera di Emilio Maraini. Nel  1895 erano però in attività ancora due sole fabbriche mentre ne sorsero 24 nel successivo quinquennio; 30 erano gli zuccherifici attivi nel 1910, passate poi a 35 nel 1920 e 53 nel 1927. 

Quasi tutte le fabbriche di zucchero si trovano nella Valle Padana, le cui terre alluvionali meglio si prestano per la coltura.

Oggi su usa nei modi di dire che una persona è un bietolone p si comporta con bietolaggine, per indicare insulsaggine, stolidità. Forse perchè la bietola è dolce e poco saporita. Questo veniva già detto nell’Antica Roma con il poeta romano Marco Valerio Marziale del I secolo d.C. così scrive nell’epigramma 13 del Libro XIII intitolato alle Bietole, “Betae” riporta:

Ut sapiant fatuae, fabrorum prandia, betae,

O quam saepe petet vina piperque cocus

O quanto vino, quanto pepe deve chiedere il cuoco

 per dare sapore alle bietole insipide, cibo da fabbri!

Favria, 21.10.2022  Giorgio Cortese

Buona giornata. Nessuno è inutile in questo mondo se è capace di aiutare i suoi simili. Felice venerdì.

Bellum e bello.

Con la guerra in Europa mi sono domandato caro Cesare perché usiamo il termine guerra e non un derivato del latino bellum? E come mai assomiglia così tanto all’aggettivo “bello”?

Guerra  una parola dura che non ha  un’ascendenza latina,  nasce dalla voce germanica werra, cioè “mischia”. In latino guerra si si diceva bellum, un termine dalla lunga e profonda storia, e che è rimasto celebre. Il che è naturale, vista la centralità della guerra nella millenaria esperienza romana. Ma con la caduta dell’impero romano e la nascita della lingua volgare in Italia si assiste a un cambio di marea. Bellum cede il passo a werra. Werra significava “mischia” nel senso di scontro armato  come confusione, mischiamento. Ancora nel tedesco dei nostri giorni wirr è il confuso. Werra, insomma, è una zuffa, non è uno schieramento ordinato di legioni. Con la caduta dell’impero romano la guerra stessa cambiava, cambiavano le forze armate, cambiavano la loro struttura e le loro pratiche, cambiavano le tradizioni. La guerra che davvero segna una devastazione irrimediabile per la penisola, che la spopola e che la getta in tempi certo più scuri col soprammercato di carestie e pestilenze, è la tra bizantini e goti, combattuta nel ventennio 535-553 d.C. Allora gli stranieri che vogliono liberare l’Italia sono i Romani sì, ma d’Oriente, e il ricordo delle ordinate legioni si è ormai perso il ricordo.

I Goti, meglio Ostrogoti, sono al loro posto ormai da quasi un secolo.  Durante il loro dominio la classe dirigente non è più romana e dopo di loro arrivano i Longobardi. In Italia si continua a parlare popolarmente un latino che è sempre meno classico, sempre più volgare e la conservazione culturale si arrocca nei monasteri in attesa di tempi migliori. La lingua volgare si evolve e diverse parole romane classiche vengono abbandonate dalla lingua corrente, che ha sempre di più prestiti da lingue germaniche, che in maniera più o meno stabile fanno il loro ingresso in Italia.

Gotico, fràncone, e soprattutto longobardo danno ampi contributi al lessico  nell’amministrazione, del lavoro, di quello che oggi chiameremmo life style, e forse soprattutto della violenza.

La parola guerra, che  non è più una rissa: è già la nostra guerra. Pare che tra i primi  ad usarlo nel volgare è Brunetto Latini, della generazione precedente a Dante, in riferimento alla contrapposizione fra Guelfi e Ghibellini. Da allora la parola guerra diventa l’ostilità aperta, il contrasto aspro fra gruppi. La tradizione del termine bellum, quindi, si è interrotta. E se alcuni suoi derivati sono stati recuperati in italiano, il bellum no. I dotti del Medioevo, hanno adattato fin da subito un gran numero di parole latine al volgare italiano, che invece pativa un lessico scarso, limitato all’esperienza più strettamente popolare. Ad esempio hanno recuperato il bellicus, che è diventato il nostro “bellico”. Una parola che ci parla invariabilmente della guerra nella sua veste più istituzionale, più solenne e concreta. Oggi possiamo parlare della guerra ai carboidrati e al fumo passivo, lo sforzo bellico, l’apparato bellico descrive solo lo sforzo, l’apparato militare che serve alla guerra vera. Un po’ più moderato può risultare il fratello “bellicoso”, prestito dal latino bellicosus. Bellicoso in prima battuta indica  chi è “incline alla guerra”, ma può significa  un più generico “combattivo”, “battagliero”, atteggiamenti la cui complessità scaturisce pur sempre da un’immagine di scontro in armi, ma che si possono declinare nel piglio bellicoso con cui certe persone si apprestano a fare le pulizie di primavera, o nell’atteggiamento bellicoso del condòmino che nutre acredine con altro condomino.

Come mai una parola di tanta alta storia come bellum ha incontrato una fine così totale? Com’è che non è stata recuperata e adattata da nessuna persona dotta del Medioevo, nemmeno quando i barbari con la loro werra non erano che un antico ricordo, e non si vedeva l’ora di recuperare i fasti della classicità?

Forse abbiamo bisogno di un altro personaggio, per raccontare questa storia, un personaggio dagli umili natali, che proprio nel momento del declino del bellum vide crescere la sua fortuna: il bellus. Certe parole simili nella forma confliggono, si contendono il campo linguistico. Durante l’esperienza latina, bellus, nel senso di bello, o più propriamente carino, non era una parola in vista, di prim’ordine. Invece, quando una classe dotta è stata nelle condizioni di recuperare la tradizione spezzata del bellum, il suo naturale adattamento in bello sarebbe stato assurdo, perché ormai il “bello” era un’altra cosa, un’altra cosa fondamentale e ingombrante.

Difficilmente “bello” avrebbe potuto ospitare altri significati radicalmente diversi dal bello che conosciamo ancora oggi. Ma c’è un cortocircuito etimologico che, da qui, possiamo apprezzare particolarmente. Il bellicoso bellum deriva dall’antico duellum. Il duellum è proprio la guerra, e facendo attenzione possiamo intuire dentro un diminutivo: pare in effetti sia, attraverso forme ricostruite come duenelo/duenolo, un diminutivo nientemeno che di bonus. La guerra è il buonino? Il piuttosto buono? C’è forse da leggerci dentro una parola che racconta la guerra in quanto gesto di valore, atto di coraggio, questa è l’interpretazione di etimologi che si rifanno al primo etimologo della nostra storia, Isidoro di Siviglia. Questi raccontava la genesi del bellum come un paradosso ironico e contrario di bellus: insomma per lui bellum si diceva bellum perché sommamente non bellus.

Eppure “bellus” era per gli antichi Romani una parola da lessico familiare, con dei tratti perfino infantili ,  un “carino”, un “grazioso”, al massimo un “amabile” e un “florido” che non poteva competere con pulcher o del formosus. Questa parola è rimasta con il crollo dell’Impero, a  differenza di  pulcher e formosus che nonhanno avuto delle derivazioni nelle lingue romanze, a differenza di formoso in portoghese ed hermoso inspagnolo.

In italiano è stato il bellus a ricavarsi un ruolo determinante nel nascente volgare. Molte parole latine delle più domestiche e povere, nel periodo del crollo delle istituzioni e della cultura, hanno superato omologhi blasonati, il grandis agricolo soppianta il magnus, l’umile casa si allarga dove c’era la signorile domus, e il bellus si afferma come termine di respiro generale, generalissimo. Anzi: a sentire chi ha studiato il problema è plausibile che proprio il recesso di bellum gli abbia lasciato lo spazio per crescere. Come notava Isidoro, sono parole di diversità così acuta e di somiglianza così netta che ci potrebbe essere dietro qualcosa. Ed ecco l’esito ultimo del cortocircuito cui Ti accennavo. Anche bellus è un diminutivo di bonus, anch’esso attraverso la forma intermedia ricostruita come duenelo/duenolo, anch’esso derivato dalla forma originaria di bonus, cioè duenus. Per noi “bello” è diventata la parola che racchiude in sé tutto ciò che è gradevole a qualsiasi livello estetico, e oggi lo usiamo spesso:  “Com’era il film?” “Bello”. “Bello questo quadro” “ Bella questa poesia”, sicuramente rispetto agli antichi latini ha perso molto la sua mescolanza col buono, meno  necessaria.

Caro Cesare, convieni con me che una parmigiana di melanzane può essere anche bella, ma deve essere soprattutto buona. Ecco: il bello, con questa sua etimologia nascosta, visibile solo a chi ha avuto una certa iniziazione, continua a raccontarci quell’antica commistione.

Una commistione che di solito circoscriviamo nel paragrafo di libro scolastico di chi ha studiato a scuola il greco che spiega la bizzarra e lontana concezione del kalòs kai agathòs,  che strani questi Greci!

Oggi Invece, nonostante il nostro pensiero, continua ad avere una certa rappresentazione, nella lingua,  continuano ad esserci, in italiano ma anche nel resto dell’area romanza, degli accenni in cui platonicamente il buono e il bello si intrecciano, pensiamo al bonito e al bono.

Forse Isidoro, seguendo ragionamenti errati, aveva ragione: bellum e bellus, la guerra e il bello, sono davvero parole sorelle, rami della stessa pianta,  come non avremmo mai pensato fossero, magari nella convinzione di una somiglianza casuale, come accade cento altre volte.

O come forse non ci siamo nemmeno mai domandati: dopotutto per il bellum, in italiano, non c’è più stato gran posto, e così nei nostri pensieri. Soprattutto, in questo percorso che racconta di come i nostri nonni e le nostre nonne di tanti secoli fa hanno cambiato il modo di dire certe cose, è strabiliante osservare come certe parole di nobile origine  vengono espulse dalla lingua, e subentrano parenti, fino ad allora modesti, dalla personalità totalmente diversa nonostante l’infanzia comune, e stranieri senza tradizione che si strutturano a sostituire chi è caduto in disgrazia.

Forse non è un percorso che ci spiega molto di significativo sull’antropologia della guerra, ma ci racconta qualcosa di importante  del nostro  attuale pensiero.

Favria,  22.10.2022 Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita quotidiana i legami più profondi non sono fatti di corde e nodi ma da affetti che nessuno scioglie.  Felice sabato.

Vivi con quelli che possono renderti migliore e che tu puoi rendere migliori. C’è un vantaggio reciproco, viva la vita se doni la vita. Ti aspettiamo oggi a FAVRIA  VENERDI’ 4 NOVEMBRE  2022, cortile interno del Comune dalle ore 8 alle ore 11,20. Abbiamo bisogno anche di Te. Dona il sangue, dona la vita! Attenzione, per evitare assembramenti è necessario sempre prenotare la vostra donazione. Portare sempre dietro documento identità. a Grazie per la vostra collaborazione. Cell.  3331714827- grazie se fate passa parole e divulgate il messaggio

Pedalando nella storia dell’italiano.

Ugo Foscolo definiva l’italiano una lingua morta, facendo riferimento a una lingua italiana commerciale, che aveva un lessico miserrimo, un’assenza di sintassi e una grammatica minima. D’altra parte in quegli anni in Italia aristocrazia e plebe parlavano in dialetto e gli intellettuali in genere conversavano in francese. Di conseguenza l’italiano era una lingua poco diffusa. Eppure, nonostante queste poco lusinghiere premesse, la sua forza dell’essere stata nei secoli per lo più una lingua scritta, ha aiutato in maniera paradossala ad affermarsi nella cultura, anche se poi veniva definita lingua afona, ovvero che non si traduce in voce e che rimane sulla pagina. Attraverso i secoli l’italiano, è vero ha fatto sempre fatto  poco suono, se si esclude l’area privilegiata della Toscana. Malgrado questa diceria sulla mancanza di suono è una lingua musicalissima, tanto che in italiano solitamente si canta volentieri. L’italiano deriva dal latino, mentre il tedesco si è formato, in assenza di una unità statale, con la traduzione di Lutero della Bibbia creatrice di una lingua comune fra i tedeschi. L’inglese ha le sue radici nel teatro elisabettiano di Shakespeare e nella traduzione della Bibbia di San Giacomo. Per l’italiano è stato diverso, pensate che un grande commediografo come Goldoni scriveva in realtà traducendo dal francese in veneziano. L’italiano di Goldoni ha energia vocale, proprio perché si riferisce alla struttura vocale del dialetto. Nelle sue commedie Pirandello traduce dal tedesco in siciliano, in questa lingua strutturata concettualmente, grammaticalmente e anche sintatticamente sul tedesco assume carica vocale perché è tradotta in siciliano. Pirandello ha nell’orecchio le cadenze del dialetto della sua terra. I dialetti, dunque, suggeriscono una cadenza, “fanno suono”, l’italiano, invece, come già prima dicevo è una lingua che fa poco suono. Nella tradizione letteraria italiana esiste la Divina Commedia con la sua incredibile ricchezza lessicale e le innumerevoli contaminazioni. Alla base fiorentina si affiancano, infatti, lingue parlate in tutta la penisola, oltre ai famosi latinismi scolastici, latinismi classici e una quantità di gallicismi. Se oggi in italiano esistessero gli anglismi che Dante praticava in forma di francesismo si griderebbe allo scandalo. La lingua che si comunica attraverso la poesia o il teatro chiama in causa quelli che ascoltano e richiede il loro ascolto come un elemento creativo. Leggere Dante significa avere accesso a molteplici versioni perché ciascuno fa reagire un materiale linguisticamente e stilisticamente molto intenso con la sua storia personale. Quindi, il messaggio viene integrato dall’ascolto. Non così accade oggi nei mezzi di comunicazione di massa che trasmettono messaggi scadentissimi e percepiti passivamente. Molte colpe e qualche pregio della comunicazione globale. Degradazione della sintassi, approssimazione, sciatteria di un lessico altrimenti ricco e articolato hanno abituato gli italiani a parlare usando spesso un vocabolario molto povero e una forte cadenza dialettale. Caro Cesare, quanto Ti ho scritto adesso è un fenomeno  molto pericoloso, perché  quando la lingua si corrompe la gente perde la fiducia in quello che sente e questo genera violenza. Secondo altri, pare che la colpa sia della televisione che parla una lingua televisiva sciatta, quasi senza sintassi, come i miei pensierini. In televisione i commentatori usano le parole a casaccio, con il loro significato stravolto, ad esempio a volte definiscono qualcosa “drammatico “o “tragico” totalmente a capocchia. Forse bisognerebbe porre un freno a questa deriva: il mondo della comunicazione e del giornalismo dovrebbe garantire un accesso alla professione che preveda una verifica delle competenze linguistiche senza sì eccedere in purismi, ma con un’articolata cognizione dei complessi problemi dell’uso delle lingue. La lingua parlata in televisione altro non è che uno strumento attraverso il quale “ i parlanti “si esibiscono: interviste ai vicini di casa di un assassino seriale o al portavoce di politici di primo piano vengono presentate con una lingua insignificante, priva spesso anche della carica emotiva talvolta introdotta dal dialetto. Invece di promuovere l’ascolto di veri soggetti si assiste ad una carrellata di falsi soggetti parlanti. Sicuramente questo fa parte della natura delle lingue vive che nell’espandersi, si abbassano di livello, inglese docet. Il livellamento, infatti, apre diverse e varie possibilità di comunicazione ed espressione. Caro Cesare ne abbiamo parlato con l’Analfabetismo di ritorno che il dibattito sulla lingua della televisione è ormai obsoleto e la nuova frontiera è nel linguaggio degli SMS e dei blog e quant’altro appare di degenerativo nella lingua scritta o anche talvolta parlata dei giovani. Ma già una volta succedeva, il Medioevo è vissuto di “messaggini”: i manoscritti dell’epoca sono pieni di abbreviazioni, come quelle dei quattordicenni di oggi, e proprio attraverso quella lingua abbreviata, dato che la pergamena e l’opera dei copisti costava enormemente, è stata trasmessa tutta la letteratura classica e cristiana. Lo scrivere abbreviato è un esercizio di intelligenza, di riflessione sulla struttura morfologica delle parole; è molto utile, purché non sia l’unico modo di scrivere. Questo nuovo linguaggio non è solo non solo divertente, ma anche funzionale, non solo pratico, ma anche espressivo.

Favria, 23.10.2022 Giorgio Cortese

Buona giornata. Benvenuto Autunno adesso puoi entrare. Ti stavo aspettando per mangiare le prime castagne oggi in piazza dalla Pro Loco di Favria. Felice domenica.

Gavè!

In piemontese a volte sentiamo il modo di dire “Gavé (quaidun) da l’umid”, letteralmente togliere qualcuno dall’umido. Questo modo di dire vuole significare riportare qualcuno, con maniere decise, nella giusta direzione, togliendogli i grilli dalla testa, ma anche togliere dai pasticci con o senza il consenso dell’interessato.

Il modo di dire nasce forse dal fatto che quando una persona cadeva in acqua veniva soccorsa anche senza la richiesta esplicita dell’interessato.

Ma si usa gavè, togliere, anche  con il modo di dire, gavte la nata,  togliti il tappo ma con il vero significato di fatti furbo.

In piemontese si tratta di una metafora . Se il verbo è in prima persona, stiamo dicendo una cosa bella e positiva; se, invece, il verbo è coniugato alla seconda, soprattutto imperativo, o alla terza persona stiamo criticando qualcuno, quindi si tratta di una cosa negativa.

Se diciamo mi me gavo la nata, quando la  frase è coniugata in prima persona, tendenzialmente indicativo, significa “mi tolgo uno sfizio”, il tappo qui intende un desiderio  che tenevo intrappolato dentro di me,  e mi libero magari da una piccola ossessione che avevo per quella cosa. A me fa pensare anche all’otre dei venti ricevuta da Ulisse da Eolo. Quella però non doveva essere stappata. E dei letali effetti di quel tappo malauguratamente liberato, ne seppero qualcosa i marinai del grande e astuto eroe greco. Una volta almeno nella vita, però, ogni piemontese, ben più attento e cauto degli sprovveduti soldati di Ulisse, trova il momento di “gavesse la nata”, cioè di soddisfare quel desiderio che ha sempre inseguito, ma di cui – essendo previdente di natura, parsimonioso e lungimirante – ha sempre pensato di rinviarne la concretizzazione. Fino al momento in cui prende la decisione fatale. E allora, a quel punto, non lo ferma più nessuno.  Se invece mi dico gavte la nata, come scrivevo prima significa fatti furbo o scendi dal piedistallo, per ossigenare il cervello.

Poi per togliere il tappo dalla bottiglia usiamo il gavanate, e qui ritorniamo al gavesse la nata, con il  con il gesto rituale con cui l’oste o il festeggiato, con il tirabosson, estrae il tappo di una bota stopa per dividerne il contenuto con gli amici; oppure (in questo caso senza tirabosson) richiama il gesto con cui si libera il collo di una bottiglia di spumante dall’involucro di protezione (la cosiddetta capsula), e si allenta (svitandola lentamente) la gabbietta di sicurezza di metallo che ne impediva la fuoruscita indesiderata, per far volare al soffitto come un razzo il tappo di sughero.

Spero di non avervi tediato con “Grane dij poj, letteralmente grane di pidocchi,  questioni di poco conto.

Beh la bottiglia è aperta, il vino versato nel bicchiere allora a tutti un “Bon pro” e “Cin cin” benaugural   alla prossima.

Favria,  24.10.2022  Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita per essere felici non abbiamo bisogno di grandi cose, ma pezzi di tenerezza raccolti qua e là. Felice lunedì