Babiot! – Non solo amici per la pelle. – La vita.. – Beethoven. – 18- 20 dicembre, per non dimenticare mai! – Il cavaliere dei faunet. – Da minuetto a minujada…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Babiot!
C’era una volta una coppia di contadini che in tarda età ebbero in dono la nascita di un figlio. Questo bambino era talmente piccolo che tutti lo conoscevano come Babiot, rospetto, era piccolino di statura, ma aveva un coraggio e grande astuzia. Un giorno Babiot salutò gli anziani genitori ne disse che voleva girare il mondo. Si inoltrò bel cupo bosco e dopo aver camminato per diverse ore scese la sera. Babiot si mise a dormire; e dormendo russava, facendo un rumorino curioso, come una zanzarina, passò di in quel momento un Marchese che tornava dalla caccia era il feudatario di tutto il territorio. La notte era buia e ci si vedeva oltre ad un palmo e inoltre Babiot, come vi ho detto, era minuscolo. A momenti il Marchese lo schiacciò sotto il suo scarpone! Per fortuna se ne accorse in tempo! Allora gli chiese cosa ci faceva una persona così piccola nella cupa e grande foresta nel cuore della notte. Gli disse di stare attento perché se arrivava una lepre si prendeva una sonora zuccata e, detto questo si mise a ridere fragorosamente con i suoi aiutanti. Ma, Babiot aveva il sonno duro e non sentì nulla e continuò a dormire e a russare. Allora il signorotto chiamò gli uomini del séguito e ordinò di sparare tutti insieme con gli archibugi per spaventarlo e Babiot allora mosse un poco la testa.. Gli uomini del Marchese continuavano a sparare e alla fine al terzo crepitare delle spingarde e archibugi Babiot di svegliò adirato gridando. Il suo grido era simile al rumore di un moscerino. Il marchese rimase pensieroso nel vedere un omettino così piccolo con un coraggio così grande, poi si mise a ridere a ridere a ridere che cadde a terra preso dal forte riso. E ridendo gli disse che poteva fare a pugni al massimo con delle cavallette ma non con un grosso orso che infestava le sue terre. Gli disse ridendo che se catturava gli orsi gli avrebbe dato in sposa sua figlia. Ma se non ci riusciva avrebbe preso tante legnate. Babiot si mi alla ricerca del grosso orso alle primi luci del giorno. Camminando ai margini della foresta ecco comparire tra gli alberi un grosso orso nero. L’orso alla vista dei cacciatori del Marchese si mise a fuggire. Babiot si riempì le tasche di sassolini e si lanciò all’inseguimento dell’orso. Quando riuscì a raggiungerlo, il bestione si era addormentato vicino a un fienile. Babiot gli lanciò un sassolino e l’orso si destò, allora Babiot gliene lanciò un secondo e l’orso borbottò. Babiot gliene lanciò un terzo e l’orso, drizzandosi terribilmente sulle zampe posteriori, gli si avventò contro. Il piccolo, furbo, si buttò dentro il fienile e si mise lungo disteso per terra, sulla soglia. L’orso con un balzo lo oltrepassò e in un baleno Babiot saltò fuori e richiuse l’uscio: l’orso era prigioniero! Babiot andò dal Marchese e annunciò che l’orso era prigioniero nel fienile! Il Marchese gli chiese come aveva fatto, ma Babiot disse che era un suo segreto, ma se proprio voleva saperlo, gli disse che non l’aveva ferito né ammazzato, ma solo preso per le orecchie e cacciato dentro al fienile. Visto che Babiot aveva vinto l’orso della Favriasca, il signorotto avrebbe dovuto dargli in moglie la figliuola. Ma non mantenne la promessa e gli disse che prima doveva debellare una banda di dodici briganti che vagavano nel bosco! Babiot si riempi nuovamente le tasche di sassolini, e andò nel bosco vicino ad una radura e salì sulla cima di un albero. Aspettò nascosto fino a mezzanotte quando arrivarono i briganti che si misero sotto le piante a bere e a mangiare. Quando ebbero finito, il capobanda ordinò al suo aiutante maggiore di cercargli i pidocchi nei capelli! Allora Babiot gli buttò sulla testa un sassolino ed il capo brigante si lamentò con chi gli toglieva i pidocchi e afferrato l’aiutante per il colletto della giubba, lo picchiò di santa ragione. Ne nacque una grande zuffa tra i briganti e alla fine caddero a terra esausti per le botte che si erano dati. Babiot scese dall’albero e li legò tutti come salami. Babiot aveva debellato i briganti, ed il Marchese avrebbe dovuto dargli in moglie la figliuola, ma non mantenne la promessa e gli disse che prima doveva mettere in fuga i soldati che hanno invaso il feudo! Babiot acconsentì: chiese soltanto un vestito bianco e un cavallo bianco. Il signorotto glieli accordò e il minuscolo ometto si slanciò da solo contro l’armata straniera. Quando i nemici lo videro arrivare al galoppo, nella sua tunichetta candida sul bianco cavallo, lo credettero uno spiritello magico della foresta e, atterriti, scapparono a gambe levate. E, allora finalmente Babiot sposò la figlia del signorotto, che era bellissima e, visse con lei nella casa al margine del bosco che tanto amava.
Favria, 14.12.2020 Giorgio Cortese

La felicità è sapere che anche per questo Natale il sincero affetto delle persone sarà il regalo migliore! Vi auguro un sereno e felice Natale!

Non solo amici per la pelle…
La pelle è il tessuto di rivestimento che ricopre il corpo degli uomini e degli animali, il più esteso dei nostri organi, il più psichico, il più curato. In senso lato indica anche il rivestimento esterno di molti organismi vegetali, e anche lo strato esterno e superficiale di cose e oggetti inanimati. In senso figurato la parola è divenuta simbolo della vita organica di per sé, e quindi della sopravvivenza di un essere animato; in tal senso, e recuperando i significati estensivi, è a volte sostituita da termini più popolari quali “buccia”, “ossa”, “penne”, “scorza” e altri. La pelle ha trovato un posto di rilievo nella medicina e nella psicologia, nell’arte e nel mito, nella cosmesi e nella letteratura. Per non parlare degli infiniti modi dire sorti attorno alla parola. La pelle ci mette in comunicazione col mondo cercando di proteggerci dall’eccesso di stimoli e non sorprende sia stata usata per descrivere importanti strutture e disturbi della personalità come il narcisismo, l’autolesionismo. Ma poi la pelle custodisce tesori che sono piccoli mondi, come i peli, le ghiandole sebacee e sudoripare, le unghie. Nei polpastrelli, le impronte digitali nascondono e rivelano la nostra unicità. La pelle è il nostro colore, dall’albino all’ebano, ed è inconcepibile come la bellezza miracolosa e mista dei suoi pigmenti possa essere alla base del razzismo e fino a quando il colore della pelle sarà più importante del colore degli occhi ci sarà sempre la guerra. Della pelle ci occupiamo molto e questo fa la fortuna della cosmesi fin dagli antichi egizi: non c’è popolo che non l’abbia massaggiata, lavata, unta, profumata o addirittura decorata con cicatrici, scarificazioni, tatuaggi e ogni genere di body art. La pelle poi è sempre nelle nostre parole. Permettetemi ma non voglio vestire la pelle del leone, modo di dire per le persone che si atteggiano forti per nascondere la propria paura e debolezza, e alla fine rimetterci più del solito. Modo di dire che si riallaccia alle favole di Esopo poi riprese da Lafontaine sull’asino che aveva indossato la pelle di un leone morto. Ne pretendo di avere la pelle dura nel pensare di avere molta esperienza e abilità per parlare di pelle ma, non per questo ho la pelle di pesca, rosea e delicata come la buccia di una pesca o di seta, molto morbida e liscia. Parlando di pelle non voglio vendere la pelle dell’orso prima di averlo ucciso, che deriva sempre da una favola di Esopo poi ripresa sempre da Lafontaine, ne voglio essere nella pelle di qualcuno, non volendo a trovarmi ad affrontare i suoi problemi. Ho una pelle e mi basta per un’intera vita, ma il modo di vivere di certe persone mi fa accapponare la pelle dal disgusto, per fortuna che quando la Filarmonica Favriese suona con passione i brani bandistici mentre applaudo ho la pelle d’oca per l’emozione piacevole che provo. Quando la Filarmonica Favriese si esibisce, personalmente non sto nella pelle e sarei capace di levare la pelle se qualcuno mi da noia parlando durante l’esecuzione musicale. Penso che quello che c’è di più profondo in noi esseri umani è la pelle. Sulla pelle i modi di dire sono ancora numerosi, si dice a fior di pelle per le persone irritabili che creano sensazioni spiacevoli nel nostro animo al primo contatto, ma per loro è un andare a far pelle da tamburo, per la poca stima che nutro. Certo questo mio parlare non è andarne della pelle, una questione di vita o di morte ne una questione di pelle, per giustificare simpatie, o antipatie razionalmente immotivate. Anche la pelle è superficie, eppure è la cosa meno superficiale che esista e non per questo nella devo rimetterci la pelle, per intraprendere un’azione pericolosa. Insomma non merita rischiare la pelle ma ogni giorno l’importante è salvare la pelle nelle traversie della vita riportando a casa la pelle. Certi giorni il pensiero non basta, quando anche la pelle ha bisogno di dire la sua e a volte certe affermazioni le lasciamo scivolare sulla pelle. E si è una sensazione di pelle. Oggi sono pieno di “vorrei” sotto la pelle e “non posso” dentro alla mente e si sotto pelle nascono sensazione che poi traboccano nell’animo. Poi per non parlare dell’inglese che si dice skin, e si presta a decine di composti affascinanti, skin game una truffa, e chi ha fama d’essere spilorcio è uno skinflint, tralascio poi quelli volgari che sono molte, insomma ogni giorno c’è un cambio di pelle, ogni giorno si nasce e si muore. La pelle è un libro aperto e i tatuaggi parleranno della vita di chi li ha fatti, esattamente come le mie rughe parleranno dei miei anni.
Favria, 15.12.2020 Giorgio Cortese

Natale è una parola che trasmette felicità solo a pronunciarla. Il più grande augurio che possa fare a tutti è che sia Natale ogni giorno!

La vita….
La vita è fatta di attese. Attese che si fermano addosso e a volte non sappiamo se aspettare ancora oppure andare via. Attese che forse non arriveranno mai, ma noi non abbiamo il coraggio di lasciare andare. Attese che ci lasciano da soli al freddo di quella nostalgia, portandosi via la nostra allegria, lasciandoci dentro un rimpianto amaro di come sarebbe stato bello se veramente fossero arrivate. Le nostre attese ci stanno aspettando, oggi sono loro ad aspettare noi, domani saremo noi quella solitudine. Non lasciamoci distrarre da cose futili, accendiamo all’amore i nostri cuori ed andiamo a prendere chi con tanta pazienza oggi ci aspetta ancora. Buon Natale ai nostri cari anziani, svuotiamo gli ospizi, gli ospedali, le case di cure e portiamo a casa chi con tanta amore ha fatto della sua vita l’unica nostra compagnia. A Natale ci sono lussi che non costano niente.
Favria. 16.12.2020 Giorgio Cortese

Il Natale è anche uno stato d’animo… che la gioia e l’entusiasmo di questo giorno ti accompagni tutti i giorni dell’anno.

Beethoven.
Si tratta probabilmente del più grande compositore di ogni tempo e luogo, un titano del pensiero musicale, i cui traguardi artistici si sono rivelati di portata incalcolabile. E forse, in alcuni momenti della sua opera, anche il termine “musica” appare riduttivo, là dove lo sforzo di trasfigurazione compiuto dal genio appare trascendere l’umano sentire. Nato a Bonn, Germania, il 17 dicembre 1770 Beethoven crebbe in un ambiente culturale e familiare tutt’altro che propizio. Il padre è tacciato dagli storici di esser stato un maldestro cantante ubriacone, capace solo di sperperare i pochi guadagni in grado di racimolare, e di spremere fino all’ossessione le capacità musicali di Ludwig, nella speranza di ricavarne un altro Mozart: espedienti di basso sfruttamento commerciale fortunatamente poco riusciti. La madre, donna umile ma giudiziosa e onesta, appare segnata da una salute men che cagionevole. Ebbe sette figli, quattro dei quali morti prematuramente e così Ludwig si trovò dunque ben presto gettato nell’arena della sopravvivenza, forte solo del suo precoce talento. A nove anni inizia studi più regolari con Christian Neefe, organista di Corte, a quattordici è già organista della Cappella del principe elettore (l’anno prima perde la madre, evento che lo traumatizza) e poco dopo, polistrumentista come il fratello in musica Amadeus, suona nell’orchestra del teatro. Nel 1792 lascia Bonn per recarsi nella più vivace Vienna, la città che più lo avrebbe apprezzato e in cui poi si sarebbe fermato per il resto della vita. La sua capacità di improvvisare al pianoforte , sciocca l’uditorio. Le sue opere, dapprima influenzate dai classici di sempre Haydin, Mozart, ma già marchiate da soverchia personalità, poi sempre più audaci e innovative, scuotono il pigro andazzo della vita artistica, seminano il panico estetico, gettano chi ha orecchie e cuore per intendere, nei terribili abissi della coscienza. Mentre viene idolatrato, in primis dai nobili del tempo che fanno a gara per assicurargli vitalizi e vedersi omaggiati nei frontespizi delle opere, anche se scrive musica secondo le sue esigenze espressive e non secondo commissioni (primo artista della Storia), con lui una crepa, uno scollamento tra traguardo artistico e pubblico diverrà sempre più incolmabile. Il tarlo della sordità inizia a colpirlo già in giovane età, causando crisi al limitare del suicidio e intensificando il suo orgoglioso distacco dal mondo, frutto non di banale disprezzo ma dell’umiliazione di non poter godere in modo semplice della compagnia altrui. Solo le passeggiate in campagna gli danno un po’ di pace ma col tempo, per comunicare con lui, gli amici dovranno rivolgergli le domande per iscritto, edificando per i posteri i celebri “quaderni di conversazione”. Anche l’amore, cercato fra le blasonate di sangue blu, frequentatrici il suo ambiente abituale, non gli fu propizio, forse per insipienza da parte delle amate, immobili come gazzelle ipnotizzate davanti a quel leone indomabile, o forse per insuperabili pregiudizi sociali, la nobile non potevano in quel tempo sposarsi con un genio delle sette note, che era un borghese. Ansioso di calore familiare, non trovò di meglio che estorcerlo forzosamente al nipote Karl, orfano di padre, poi indotto addirittura al fortunatamente mancato suicidio dalle soffocanti attenzioni dello zio, in una inopportuna competizione con la madre naturale. Il 7 maggio 1824, a Vienna, Beethoven appare in pubblico per l’ultima volta, per l’audizione della sua celebre “Nona Sinfonia”. Il pubblico prorompe in applausi fragorosi. Seduto accanto al direttore d’orchestra, le spalle rivolte al pubblico, il compositore sfoglia la partitura, materialmente inibito a sentire ciò che lui stesso ha partorito. Devono costringerlo a voltarsi perché possa constatare l’immenso successo riportato dalla sua opera. Il 26 marzo 1827 cede ai mali che lo tormentano da tempo, gotta, reumatismi, cirrosi epatica, alza il pugno al cielo, come vuole una famosa immagine romantica, e muore di idropisia. Il suo funerale è fra i più colossali mai organizzati, l’intera città è attonita. In un angolo, fra le orazioni funebri di eminenti esponenti della politica e della cultura, una figura anonima che aveva eletto il genio di Bonn come suo nume tutelare, osserva la scena, è Franz Schubert che raggiungerà il nume l’anno dopo, a soli 31 anni, pretendendo di esservi sepolto accanto.
Favria, 17.12.2020 Giorgio Cortese

Penso che Natale può esserlo ogni giorno se si è in serenità con sè stessi prima che con gli altri, il resto è solo da ornamento!

18- 20 dicembre, per non dimenticare mai!
Il 18 dicembre del 1922 avvenne a Torino una strage compiuta in città da squadre fasciste che nel nell’arco di tre giorni, uccisero undici antifascisti furono uccisi e ne ferirono una trentina feriti, nel corso di quella che all’epoca fu accreditata come una rappresaglia per l’uccisione di due fascisti, ma probabilmente fu una vera e propria azione punitiva preordinata contro gli oppositori politici e la stessa città di Torino, poco incline al neo-costituito regime. Le violenze iniziarono per motivi personali e non politici il giorno prima, il 17 dicembre, nei confronti di un giovane tramviere, tale Francesco Prato, nella zona di corso Spezia, ma durante l’agguato i due fascisti che stavano perpetrando l’aggressione restarono uccisi. A due mesi dalla marcia su Roma, i fascisti di Torino non potevano in alcun modo far passare sotto silenzio l’uccisione di due dei loro seguaci. Ecco che si scatenò una tremenda vendetta del Regime nei confronti degli oppositori, con una rappresaglia guidata da Piero Brandimarte, bersagliere decorato nella Prima Guerra Mondiale, che si sarebbe in seguito vantato di aver fatto molte vittime tra gli oppositori. Le violenze fasciste iniziarono sin dalla mattina del 18 settembre 1922 con gruppi di squadristi, una cinquantina, iniziarono un vero e proprio rastrellamento di oppositori, che sarebbero poi stati brutalmente uccisi quel giorno stesso. Carlo Berruti, ferroviere e consigliere comunale del Partito Comunista; Matteo Chiolero, tramviere socialista; Erminio Andreoni, Pietro Ferrero, segretario della Federazione degli operai metallurgici di Torino; Andrea Chiomo, Matteo Tarizzo di Favria, Leone Mazzola e Giovanni Massaro, tutte persone colpevoli di simpatizzare per partiti e ideologie differenti da quella fascista. Matteo Tarizzo, 34 anni, venne sorpreso nel sonno dall’irruzione dei fascisti, prelevato e ucciso a bastonate poco lontano da casa. Il 19 dicembre morirono anche Angelo Quintaglié, usciere dell’ufficio ferroviario dove lavorava il Berruti e la stessa sorte toccò a Cesare Pochettino, anch’egli crivellato di colpi. L’ultima vittima, morì il giorno 20 dicembre, Evasio Vecchio, un operaio comunista. Dopo la guerra Brandimarte, pur condannato a più di venticinque anni di carcere, sarà assolto per insufficienza di prove in Appello. Nel 1946 il Comune di Torino rinominò l’omonima piazza dove sorge la stazione di Porta Susa e fece installare una lapide con i nomi delle vittime accertate, a Favria esiste una via dedicata a Matteo Tarizzo. Non dimentichiamo mai e sempre ricordarci di questa mattanza di matrice fascista.
Favria, 18.12.2020 Giorgio Cortese

Ti auguro tutto il meglio che la vita possa dare. Buon Natale!

Il cavaliere dei faunet
C’era una volta la figlia di un taglialegna, che si chiamava Maria. Maria aveva un carattere molto avventuroso, ed un giorno decise di uscire per andare ad esplorare la cupa foresta della Favriasca che si trovava vicino a casa sua. Girovagò a lungo, finché in una radura vide delle splendide rose selvatiche e pensò di coglierle per fare un regalo a sua madre e alle sue sorelle che non amavano andare in giro come lei. Aveva appena colto una rosa, quando venne fuori dalla terra un giovane cavaliere, che le disse come osava cogliere quelle rose? Maria gli disse che voleva fare un regalo a sua mamma e alle sorelle. Allora il cavaliere rispose che gli avrebbe regalato tutte le rose della foresta, anche se doveva vegliarla per conto dei faunet, gli elfi. Maria gli chiese chi era, ma aveva paura pensando che facesse parte del popolo dei faunet. Silvano questo era il suo nome gli raccontò la sua storia, dicendo che era umano e tanti anni prima era con suo zio a fare legna, quando venne rapito dai Faunot. Da allora di giorno devo fare la guardia a questa foresta, e di notte doveva tornare nel regno dei faunet, dove era prigioniero della Regina. Silvano chiese a Maria di liberarlo da quest’incantesimo! Maria gli disse di sì e allora Silvano gli diede appuntamento alla prima notte di luna piena, quando il popolo dei Faunet cavalcava nella foresta. Alla notte di luna piena le come gli aveva detto Silvano si trovò al crocevia delle tre querce per aspettarlo in quanto passavano sempre di lì. Quando sarebbe passato Maria doveva aggrapparsi a lui e qualsiasi cosa fosse successa non doveva lasciarlo mai. Come concordato con Silvano, Maria, nascosta al crocevia delle tre querce aspettò la cavalcata dei Faunet e quando vide Silvano, gli si buttò addosso e lo strinse a sé. Di colpo Silvano diventò una piccolissima lucertola, poi un serpente spaventoso, poi una barra di ferro arroventato, ma niente, Maria non lo lasciava andare. Allora la Regina degli Elfi capì che aveva perso e lasciò libero Silvano. Silvano si sposò con Maria e vissero per sempre felici e contenti, vicini a quella foresta che li aveva fatti incontrare.
Favria, 19.12.2020 Giorgio Cortese

Vi auguro un Natale meraviglioso che sappia portare nella Vostre case pace e serenità.

Da minuetto a minujada.
Il minuetto è una danza francese simbolo del Settecento e della musica barocca. La parola deriva dal francese menuet, minuto, piccolo e breve, forse riferito ai piccoli passi della danza, oppure dal branle à mener, o amener, un ballo popolare in Francia nel primo Seicento poi negli anni sessanta Seicento divenne un ballo di corte che ne determinò probabilmente le movenze eleganti ed aggraziate divenute tipiche, poiché ogni impressione di fatica era ritenuta sconveniente ai ranghi nobiliari. Il primo consistente corpus di minuetti, 92 composizioni tra opere e balletti, è opera dell’italiano Jean-Baptiste Lully, ottimo ballerino e compositeur del Re Sole, nato come Giovanni Battista Lulli a Firenze. Come tutti i balli di corte, il minuetto si conformava a un rituale preciso. La danza era eseguita da una sola coppia alla volta, mentre il resto della compagnia di ballerini, osservava e giudicava. I ballerini dovevano prima inchinarsi alla Présence, che poteva essere rappresentata dal re, o da altri, e poi l’uno nei confronti dell’altro. Si rispettavano schemi preordinati; per esempio, in Francia prima del 1700, i passi spesso disegnavano un’immaginaria lettera S sul pavimento in omaggio a Re Sole. Il minuetto più famoso sulle scene teatrali è probabilmente quello del Don Giovanni di Mozart, 1787. Nel finale del primo atto lo ballano gli aristocratici Don Ottavio e Donna Anna, mentre Leporello e Masetto eseguono una danza plebea, e al contempo Don Giovanni e Zerlina una borghese contraddanza, mostrando una convivenza di culture e posizioni sociali differenti. Una curiosità, è di Johann Sebastian Bach, un magnifico minuetto nel Concerto Brandeburghese n. 1. La fortuna del minuetto culminò con l’affermarsi dello stile galante e si esaurì con l’avvento del romanticismo, anche se questa danza conobbe una certa effimera rinascita come ballo di sala tra il 1883 ed il 1890. Dalla fine dell’Ottocento e fino in epoca moderna alcuni compositori continuarono a scrivere minuetti, anche all’interno di opere liriche. La parola oggi fuori dal contesto extra-musicale può sottintendere un aspetto lezioso o antiquato, un indugiare fine a se stesso. In Piemontese il minuetto viene detto minuè, minuetto, e si usa la parola minujada, per indicare la lentezza, lungaggine. Io penso a questa parola adesso in Autunno con una suggestione poetica dei mInuetti di colori della natura con le foglie multicolori dagli alberi che lentamente con delicate e garbati volteggi cadono verso terra, evocando nel mio animo un delicato minuetto di sensazioni, piccoli passi dell’animo che mi fanno stare bene.
Favria, 20.12.2020 Giorgio Cortese

Vi auguro che tutti gli auguri di Natale che riceverete possano trasformarsi in piccole emozioni da conservare nel cuore tutto l’anno. Buone feste!
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