Cadetto – Dal kakawa al cacao – Ab equinis – Anche per loro arriverà la nemesi! – I l’hai daje el bleu… LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Cadetto.

Nelle antiche famiglie feudali, figlio maschio non primogenito; che appartiene a un

ramo collaterale del casato; di seconda categoria. Oggi allievo di un’accademia militare o che gioca in campionati sportivi di seconda importanza. La parola deriva dal francese cadet, dal guascone capdet, capo, giovane nobile. Non a caso in Guascogna è ambientato un noto film del 1950 con Ugo Tognazzi e Walter Chiari.
Ora, questa parola è una delle pochissime del nostro vocabolario che deriva dal guascone, un dialetto della lingua occitana vicino al catalano, e parlato nella porzione sud-occidentale della Francia, fra Bordeaux e i Pirenei, la Guascogna, appunto. A qualche orecchio questa origine farà suonare un’espressione tanto celebre quanto scontata: “cadetti di Guascogna”. Il guascone capdet passa in francese come cadet e giunge a noi; il suo significato era quello di capitano, di capo militare, ma ancor prima di giovane di famiglia nobile. Infatti in questa parole si riconosce il diminutivo ricollegabile al lemma latino capitellum, che viene da caput, capo. Si può dire allora che il cadetto è un capetto, vertice secondo di una casata.

Favria, 10.11.2022  Giorgio Cortese 

Buona giornata. Certe persone pensano sempre ad accomulare oggi e cose, dimenticando che lo scopo di vivere è quello di accumulare emozioni, istanti felici, sorrisi. Felice giovedì.

Dal kakawa al cacao.

La storia del cioccolato a inizio, 4000 anni avanti Cristo, nell’America settentrionale, dove l’albero del cacao cresce spontaneamente lungo il bacino dell’Orinoco e del Fiume delle Amazoni.

I primi a scoprire le virtù nutritive di questa pianta sono i Maya, che verso il ‘600 d.C., l’hanno introdotta nella penisola dello Yucatan.

Grandi coltivatori ne sono anche gli Olmechi e i Toltechi, infatti prima dell’invasione degli Aztechi, hanno esteso ulteriormente la produzione del cacao, fino alle zone interne del Messico attuale.

Oltre ad essere un alimento, il cacao era per i Maya anche una moneta e con gli Aztechi, dei quali il sistema monetario era realmente basato sulle fave di questa pianta, entra definitivamente nella storia.

Questa pianta prende il suo nome da una parola d’origine proto amerinda pronunciata “kakawa”. I primi agricoltori che iniziarono la coltivazione della pianta furono i Maya intorno al mille a.C.  Preparavano una bevanda chiamata  Xocolatl, mescolando acqua e spezie alla polvere ricavata pestando i semi di cacao tostati.

Dalla parola  xocolatl,  la x iniziale indica un suono simile all’italiano “sc” in sciocco, che significa  letteralmente “acqua aspra” e per estensione “bevanda aspra”,  utilizzato in realtà per riferirsi a una bevanda a base di mais macinato e disciolto in acqua, il cui sapore aspro doveva essere dato da un certo grado di fermentazione.

Una leggenda narra di una principessa azteca che fu lasciata di guardia al tesoro del suo sposo, partito per la guerra. Un giorno venne assalita dai nemici che volevano costringerla a rivelare dove fosse il tesoro. La principessa preferì morire piuttosto che rivelare il segreto. La leggenda narra che dal suo sangue nacque una pianta con i semi amari come le sue sofferenze, forti come la sua virtù e rossi come il suo sangue, era nato il cacao.

L’unità di misura standard del cacao che risale ai Maya è la “carga”, che equivale a 24.000 mandorle e al carico che poteva portarsi a spalla; la carga si compone di tre xiquipil di 8.000 fave, di cui ognuno equivale a 21 zontle di 400 fave. 

Cortez nelle sue memorie riferisce che gli gli indigeni avevano una vita felice, non si preoccupavano del futuro e gioivano dei beni temporali della natura utilizzando i semi del cacao al posto della moneta.  Allora un seme di cacao valeva l’equivalente di quattro pannocchie di mais, tre semi servivano per comprare una zucca o un uovo di tacchino,  con  quattro semi di cacao si poteva comprare una zucca, con dieci un coniglio, con dodici una notte con una concubina e  con cento si poteva entrare in possesso di una canoa,  di un mantello in cotone o di uno schiavo.

Il termine scientifico “theobroma cacao”, cibo degli dei, venne indicato da Carlo Linneo nel XVIII sec. per le numerose proprietà attribuite al cacao dai popoli dell’America centrale.

Per i popoli mesoamericani i semi erano: un simbolo di prosperità nei riti religiosi; una medicina capace di guarire le malattia della mente e del corpo, eritemi, diarrea o mal di stomaco.

Sotto l’aspetto alimentare il cacao era ingredienti fondamentale per diverse bevande, classificate in base alla qualità dei semi e dei prodotti associati. Famosa era la “pasol”, cacao abbinato al mais, che confezionata in forma di palline diventava alimento corroborante di facile trasporto, da consumare dopo l’immersione in acqua calda.

Non si può stabilire con certezza il momento in cui il cacao sarebbe approdato in Europa, molti testi attribuiscono a Cortés questo merito, ma non esisterebbe una prova documentata di tale ipotesi.

Il primo scritto ufficiale dell’apparizione del cacao nel Vecchio Continente, proviene dalla relazione della visita di una delegazione di frati domenicani, ritornati in Europa nel 1544. I religiosi condussero una rappresentanza di nobili Maya in visita a Filippo di Spagna; sembra che gli ospiti, vestiti negli abiti tradizionali del proprio paese, offrirono al principe molti doni tra i quali una bevanda scura, pastosa, chiamata “xocoatl”, proveniente dai semi del cacao.

Lo storico milanese Benzoni nella sua “Historia del mondo nuovo” (1565) così presenta il cacao e la mistura da esso derivata: “il suo frutto è a modo di mandorle, e nasce in certe zucche di grossezza e larghezza quasi come un cocomero… lo mettono al sole a sciugare, e quando lo vogliono bevere, in un testo lo fanno seccare al fuoco, e poi con le pietre… lo macinano, e messolo nelle sue tazze… a poco a poco distemperatolo con acqua, e alle volte con un poco del suo pepe, lo beono, il quale più pare beveraggio da porci che da huomini”.

Indipendentemente da chi avrebbe introdotto il cacao in Europa, bisogna ricordare che durante il ‘500 la Spagna e i territori del Nuovo Mondo erano in costante contatto, e il passaggio dei semi potrebbe essere avvenuto attraverso le linee di comunicazione fra i conventi del Centro America e le rispettive case madri spagnole. In ogni caso il commercio transoceanico del cacao iniziò solo nel 1585, anno in cui il primo carico di chicchi giunsea Siviglia dalle Indie, come si chiavano allore le Americhe.

Se pensate che il cacao piacque immediatamente agli europei conquistatori, vi sbagliate.

Perché la cioccolata approdasse in Europa, fu necessario tempo e adattamento: solo dopo svariati anni.

La cioccolata iniziò dalla Spagna il suo grande viaggio per tutta l’Europa, passando per l’Italia e la corte dei Medici, per l’Inghilterra in contemporanea quasi con caffè e tè, e per la Francia, soprattutto nel periodo in cui il re Luigi XIV e Maria Teresa d’Asburgo si sposarono. Grazie a queste nozze, il cioccolato fu introdotto ufficialmente in Francia e la bevanda al cioccolato si diffuse prestissimo tra tutte le classi sociali. 

Bisognerà arrivare al 1800 e alla rivoluzione industriale per vedere il cacao trasformarsi nella ciccolata che tutti conosciamo.

Nel 1828 il chimico olandese Johannes van Houten che nel suo  laboratorio di  Amsterdam diede vita alla prima pressa idraulica in grado di separare il burro di cacao dalla pasta di cacao ottenendo una sorta di panetto di cioccolato riducibile in polvere. 

Questo diede  via ad una sorta di rivoluzione del cioccolato, nel 1847 venne creata la prima barretta di cioccolato ad opera della famiglia Fry, un’invenzione così importante che durante il periodo vittoriano l’azienda Fry fu la più grande produttrice di cioccolato al mondo. 

Nel 1867 Heinrich Nestlè, chimico svizzero scoprì il processo di evaporazione che permetteva al latte di diventare polvere per poi tornare in forma liquida se mescolato con acqua.

Daniel Peter nel 1879 si servi della scoperta di Nestlè unendo il latte in polvere alla cioccolata, creando la prima barretta di cioccolato al latte.

La Svizzera divenne famosa con il ciuoccolato grazie anche a Rundolph Lindt che inventò la macchina per il concaggio nella fase finale della produzione del cioccolato in cui la la materia prima viene sbattuta contro le pareti di una conca, più e più volte, fino a diventare una sostanza cremosa, fluida e vellutata.

La parola concaggio deriva dall’inglese conching ed il significato va ricercato i nella forma tipica, a conchiglia, delle prime macchine usate per il concaggio del cioccolato.

Da questo momento in poi la produzione del cioccolato divenne così grande e si rivelò così necessaria per l’economia dei paesi produttori che passò direttamente a livello industriale senza mai fermarsi ancora oggi.

Prima di concludere voglio ricordare che Torino ha dato i natali al primo cioccolatino della storia.

Il primo cioccolatino è nato a torino e si chiamava diablottino o  diablutìn in piemontese. Ebbene si

la storia d’amore tra Torino ed il cioccolato risale dal lontano 1560, quando Emanuele Filiberto di Savoia servì ai cittadini torinesi una tazza fumante di cioccolata calda per festeggiare il trasferimento della capitale ducale da Chambery a Torino. Fu amore a prima vista, anzi a primo sorso. Alla corte erano ghiotti di questa novità e già dal 1600 iniziò il rito delle Merenda Reale, un modo per spezzare la fame tra il pranzo che si svolgeva alle 11.00 e la cena prevista alle 16.00, ma anche durante la serata, che diventò ben presto una consuetudine.

Nel ‘700 la merenda reale, da non confondere con quella dell’800 che prevedeva come bevanda il bicerin, era composta  da una cioccolata calda fatta con acqua e cioccolato fondente in cui si intingevano dei biscotti secchi tradizionali, detti “Bagnati”, e che si gustava con altri cioccolatini, tra cui appunto i diablottini che furono i primi ad apparire a corte.

Leggenda narra anche che Giuseppe Pietri, compositore italiano specializzato in operetta e autore di “Addio Giovinezza” (ambientata proprio a Torino) abbia concepito il duetto del cioccolato “Cioccolatini cioccolatin” proprio ispirandosi ai diablottini.

Concludo che la vita può essere paragonata al cioccolato, dove l’amaro ci fa apprezzare il dolce.

Favria, 11.11.2022 Giorgio Cortese

Buona giornata. I nostri diritti non sono altro che i doveri degli altri nei nostri confronti. Felice venerdì

Ab equinis …

Ab equinis pedibus procul recede è un  detto latino che si inserisce nel genere didascalico agricolo. Letteralmente significa: “Indietreggia lontano dagli zoccoli equini”, cioè tieniti a distanza di sicurezza da essi. In senso lato può essere usato per consigliare prudenza con persone dal carattere impulsivo o facili a reazioni incontrollate, o ancora più in generale, per ogni situazione insidiosa dall’apparenza tranquilla. Corrispondenti in altre lingue e dialetti: Inglese: Trust Not a Horse’s Heel, Nor a Dog’s Tooth. Spagnolo: Del superior y del mulo, cuanto más lejos más seguro. Siciliano: Cavaddi, ciucci e muli: sette parmi luntanu a ra lu culu.  Questo detto latino  venne associato su internet come traduzione un altro proverbio italiano sui cavalli, del tutto però scollegato da esso: “Anche quel che cadde da cavallo disse che voleva scendere”.. Il grossolano equivoco, verosimilmente originato da un errore di copia-incolla, ebbe gran diffusione in rete, complice la scarsa conoscenza della lingua latina, ed è ancora osservabile.

Favria, 12.11.2022  Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno ci dobbiamo fidare delle cose chiare, non delle cose ovvie, di quelle luminose e non di quelle illuminate. Felice  sabato

Anche per loro arriverà la nemesi!

Nella mitologia greca e latina la Νemesi era la personificazione della giustizia distributiva, punitrice di quanto, eccedendo la giusta misura, turba l’ordine dell’universo. Nel significato comune, oggi la parola viene usata con il significato generico di vendetta  o di punizione. Nella cultura anglosassone moderna, il termine ha assunto il significato di nemico. Secondo alcuni era  figlia di  Zeus, Giove, ma secondo altri era la figlia di Oceano e Notte e poi posseduta dallo stesso Zeus, nel tempio di Ramnunte, demo attico della tribù Eantide. In questo tempio viene generato un uovo che viene raccolto e consegnato a Leda da cui usciranno Elena e  i Dioscuri.  Il nome nemesi in greco vuole dire distribuire, nemo, nome deriva dal greco némesis, némō, “distribuire”), dalla radice indoeuropea nem. Come già detto nella mitologia greca era il nome della dea “Distribuzione della Giustizia”,  la giustizia intesa come codice giuridico era invece attribuita alla dea  diche. Nemesi provvedeva soprattutto a metter giustizia ai delitti irrisolti o impuniti, distribuendo e irrogando gioia o dolore a seconda di quanto era giusto, perseguitando soprattutto i malvagi e gli ingrati alla sorte. Non esisteva  una dea corrispettiva nella Religione romana che invece ereditò l’ora Diche come dea della giurisdizione, l’attuale Iustitia con la benda sugli occhi e la bilancia in mano, tuttavia  gli antichi Romani dedicarono a Nemesi un’ara sul Campidoglio dove i soldati erano soliti deporre una spada prima di partire per la guerra. In senso storico “nemesi”, che assume appunto la dicitura “nemesi storica”, indica un avvenimento o una serie di avvenimenti negativi che si ritiene seguano ineluttabilmente, quale fatale compensazione, ad un periodo di particolare prosperità o fortuna. Ad esempio la sfortunata campagna di Russia, ad esempio, è considerata la “nemesi storica” di Napoleone, in quanto funse da contraltare alle sue precedenti vittorie, rivelando i suoi errori e i suoi limiti umani. Nel 2011 lo scrittore americano Philip Roth ha pubblicato un libro intitolato proprio “nemesi”. Nell’immaginario collettivo, oggi la parola nemesi viene attribuita al “cattivo per eccellenza”, o anche “cattivo per antonomasia”, che rappresenta in maniera distorta, ma perfettamente speculare, l’eroe della storia. A differenza del classico cattivo, la nemesi di un personaggio rappresenta il lato oscuro del protagonista della storia, creando un legame ambiguo con lo stesso che finisce quindi per impreziosire le storie che li vedono insieme. In passato assunse anche significati diversi: scrittori come Omero e Aristotele la utilizzarono per indicare “sdegno” e “indignazione”, e questo è quello che provo di fronte a delle persone che hanno fatto delle vigliaccate meschine ai miei danni. Penso alla nemesi come  Giustizia Divina perché amo pensare che il mondo risponde alla legge dell’armonia, per cui il bene deve essere compensato dal male in egual misura.  Una curiosità in astronomia, secondo una curiosa ipotesi, Nemesi era il nome che fu dato alla stella  Nemesis, la presunta sorella del nostro Sole.

Favria, 13.11.2022  Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno ci sarà sempre un’altra opportunità, un’altra amicizia, una nuova forza per ogni fine. Per ogni fine c’è sempre un nuovo inizio. Felice domenica.

I l’hai daje el bleu.

I l’hai daje el bleu. Si pronuncia “lai daie lblu” e letteralmente significa “gli ho dato il blu”. Dalla traduzione letterale non è facile cogliere il vero significato. E’ un modo di dire molto diffuso che si usa quando si vuole comunicare la chiusura totale del rapporto con un’altra persona, ma dev’essere una persona con la quale c’è stato un rapporto importante. Non si dà il blu al postino, al panettiere o ad un semplice conoscente. Può essersi trattato d’amore, di amicizia o di lavoro, ma comunque tra chi dà e chi riceve il blu deve esserci stato, per un considerevole tempo, qualcosa di significativo, di importante. Non si dà il blu per un battibecco, un litigio, un malinteso del quale domani non ci si ricorderà neanche. Dare il blu indica una volontà forte, qualcosa di profondo e definitivo. La volontà di cancellare per sempre il rapporto con l’altro assieme a tutti i comuni ricordi. In italiano potremmo tradurlo con “con lui/lei ho chiuso”, “l’ho lasciato/a”. Frasi brevi, altrettanto concise ma con molto meno fascino. Sarà per il colore, per il movimento, ma il detto piemontese ha tutto un altro fascino. Come per tanti altri modi di dire, anche questo ha un’origine storica. Dopo la sconfitta di Napoleone ed il ritorno dei Savoia in Piemonte, bisognava cancellare ogni traccia del periodo di dominio francese. Coprendo appunto con il blu, il colore di Casa Savoia, ogni segno dei lunghi anni di occupazione francese.

Favria, 14.11.2022  Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno quello che facciamo è solo una goccia nel mare, ma il mare senza quella goccia sarebbe più piccolo. Buona lunedì.