Domani è un altro giorno….- Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare…-Radici. – Chierico! – Ius osculi! – I vandali da sempre denigrati! -Oltre la nebbia. -La favella …LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Domani è un altro giorno… Alla sera prima di andare a dormire faccio sempre il

bilancio della giornata. Non è il bilancio di una azienda con dare e avere e relativo fatturato, ma il bilancio di cosa ho fatto oggi, quanto ho donato agli altri, quanto ho ricevuto e quante buone azioni ho fatto fruttificare la mia giornata, per renderla degna di essere vissuta.
Potrei pensarla come la canzone che Ornella Vanoni cantava: “Oggi è uno di quei giorni in cui rivedo tutta la mia vita, bilancio che non ho quadrato mai, Posso dire d’ogni cosa Che ho fatto a modo mio, Ma con che risultati non saprei…” Una canzone che parla della vita e della difficoltà che ognuno di noi ha nell’interpretarla. Una vita piena di dubbi dove non si sa se quello che si sta facendo è la cosa giusta e se fatta a modo nostro va bene, e questo già vuol dire tanto.In una società attuale che cerca di plasmarci in un certo modo prestabilito riuscire a fare ciò che si vuole non sempre è facile. Se ci pensiamo bene è più comodo ogni giorno evitare di prendere posizione, di nascondere il nostro modo di essere per conformarlo al pensiero della massa, poi se il pensiero del momento, al pensiero di tendenza, ecco che alla sera i risultati a volte mi appaiono poco chiari.

La frase del titolo mi porta anche a pensare alle ultime battute del romanzo “Via col vento”, dove la protagonista Rossella O’Hara, rivolta a Rhett, che la sta lasciando, gli risponde con una frase che nel tempo ha assunto valore quasi filosofico: “Dopotutto, domani è un altro giorno!”.

Ecco la giornata e passata, il sole ha compiuto il suo passaggio nella volta celeste, ed è subentrata la notte che porta pensiero e nel riflettere alle azioni che ho fatto e alle mancanze che ho avuto, sono portato a pensare in prima battuta come alla protagonista del celebre romanzo.

La vita e certe situazioni vanno prese così come vengono, non devo piangermi addosso, gli errori saranno futura esperienza.

Ogni giorno porta con sé le sue delicate gioie e anche le sue piccole grettezze, ma bisogna guardare al domani sempre con occhi nuovi.

La vita quotidiana mi presenta sempre delle difficoltà ed ostacoli, ma da inguaribile ottimista guardo al domani con fiducia e rinnovamento, senza abbattermi mai.

Sicuramente dire che domani è un altro giorno, per qualcuno vuole dire che è un giorno diverso da oggi, staccato dal vissuto avuto fino a questo momento e partire da zero. Purtroppo questo concetto, rispecchia un po’ la filosofia di oggi che, ci vede protagonisti sempre e comunque della nostra vita, tanto da non accettare sconfitte e ci proietta in un futuro che ci vuole diversi da ieri, attivi più che mai, vogliosi di novità, quasi a scalzare gli effetti negativi fino ad allora vissuti.

Personalmente nel mio caso, ogni giorno, pur essendo nuovo e diverso, ha una sua continuità che non può essere vista come soluzione ma come una continuazione di ciò che era prima nel bene e nel male.

Molte volte sono portato a trattare gli ostacoli della vita con l’orgoglio. Ma l’orgoglio invece di aiutarmi, mi fa precipitare in un baratro profondo, appesantisce il mio animo, facendomi ritenere di essere duro alle avversità, autoconvincendomi che nessuno e niente può ferirmi.

Attenzione l’orgoglio è tra i sentimenti quello più nefasto, è un paravento debole e inutile che fa alzare barriere vertiginose e rende duri più che mai dai miei simili e non porta nessun giovamento nel superare i quotidiani ostacoli.

A questo sentimento sventurato preferisco la coerenza e la continuità dei giorni visti l’uno di seguito all’altro, con le sue esperienze che mai drasticamente vanno cancellate, perché se mi illudo di essere capace di azzerare il passato, e non faccio esperienza dai miei errori.

La felicità quotidiana è anche riflessione, attesa, e ponderata azione, un percorso lento e a volte anche accidentato e, ogni giorno devo imparare, come un novello scout, a leggere negli eventi che incontro, perché non ho l’occasione di rifare la giornata e le azioni commesse.

Domani è un altro giorno, nel senso che si aggiunge a quelli ho vissuto e che mi hanno portato a tanto, che rappresentano il mio bagaglio personale di conoscenza e nessuno parte per un viaggio lasciando lo zaino a terra, esse fanno parte di me, del mio essere e dentro ci sono tutte le cose di cui ho bisogno per continuare il mio viaggio per la strada che chiamo vita.

Penso che le persone che viaggiano senza i bagagli delle loro esperienze passate, non ha una meta precisa e vanno allo sbaraglio e si perdono.

Domani è un altro giorno, nel senso di dare vita al nuovo giorno tenendo conto di quello prima, di cosa mi ha dato e dove mi ha portato.

Che tristezza sarebbe vivere la vita ogni giorno con azioni scollegate dal contesto del giorno precedente, sarebbe deludente se ogni giorno parto da zero.

Consapevole che non posso cambiare i miei ieri, ma fiducioso di cambiare il mio domani, cerco di vivere come se dovessi morire domani, imparando con curiosità come se come dovessi vivere per sempre.

Favria, 15.11.2022 Giorgio Cortese

Buona giornata. La vita è fatta di domani che devono ancora arrivare. È fatta di ieri da ricordare o da dimenticare. La vita è adesso, ed è adesso il momento di vivere. Felice martedì.

Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare…

L’amico Cesare mi ha inviato una lettera con questo titolo, preso da un famso proverbio: “Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”. Un detto le cui origini si perdono nella notte dei tempi, presente in varie formulazioni diverse in tutte le culture del mondo. In latino, per esempio: “Sunt facta verbis difficiliora” letteralmente: “I fatti sono più difficili delle parole”, scriveva Cicerone in una delle sue “Epistulae”. Tra gli antichi romani esisteva un celebre proverbio: “aliud est dicere, aliud est dicere”, una cosa è dire, altra cosa è fare! Oggi questo concetto viene riportato nel moderno adagio sopra menzionato, nel senso che a volte si ha la tendenza a parlare molto senza alcuna sostanza, generando solo un effimero fumo di promesse che poi immancabilmente non vengono mantenute. Di solito noi diciamo troppe cose che spesso rimangono soltanto a livello teorico perché non è nel “dire” che rendiamo manifeste le nostre possibilità, bensì nel “fare”, quando cioè diventano pratiche e concrete. In tal caso “dire e fare” vengono idealmente separati tra loro da uno spazio talmente distante e smisurato da essere paragonato al “mare”. Un concetto insito in questo proverbio che ci viene ripetuto fino dall’infanzia e che continuiamo a ripeterci anche noi adesso finendo per crederci. Ma, la distanza che intercorre tra il dire e il fare è quella che si colma con un buon piano d’azione che deve essere messo in atto non appena si è stabilito cosa si vuole ottenere e come ottenerlo. Questo fare può arrivare quando il mare delle chiacchiere viene attraversato se trovi dei buoni compagni di viaggio, degli amici che si prendono cura di Te, Ti aiutano e Ti correggono e ti lasci correggere. Ecco che allora le difficoltà che sembravano dei macigni, ops delle alte onde di burrasca, si rilevano semplici in un mare liscio come l’olio. Certo bisogna stare attenti nel misurare le parole, perché sono come proiettili. Se usate bene ti salvano la vita, ma se usate male ti uccidono, in senso metaforico si intende. Il roverbio sopra citato si potrebbe sintetizzare con la frase di: “Niente è più facile del parlare”, ma con Te caro amico di penna Cesare lo scrivere diventa scorrevole per  per affrontare il mare di imprevisti piccoli o grandi, pianificati o no. Scelte a volte facili, altre no, che si frappongono tra il dire ed il fare. La  zattera dell’amicizia di Cesare mi aiuta  per essere pronto ad affrontare il mare della scrittura.  E allora tra il dire e il fare, si può navigare….ma di mezzo c’è un mare! Con la zattera dell’amicizia che non ha età, nessuna distanza fisica potrà mai indebolire, perché la forza dell’amicizia di due persone consiste nel credere ognuna nel valore dell’altra.

Favria, 16.11.2022 Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita chi si volge ad attendere il futuro solo chi non sa vivere il presente. Felice mercoledì.

Radici.

Dobbiamo fare come gli alberi: cambiare le foglie, ma conservare le radici. Quindi, possiamo cambiare le nostre idee ma conservare i nostri principi. Ma che cosa è la radice, dove il fusto sono i pensieri, le opinioni, l’educazione; foglie e frutti sono i comportamenti, le decisioni e gli stili di vita. Fusto, foglie e frutti  esistono  grazie alla radice, perché con i mattoni si costruisce, grazie alle radici si cresce. Sempre rimanendo nell’ambito simbolico, si può dire che la radice è generosa e tenace: percorre lunghi tragitti sottoterra, scava con fatica per trovare acqua e nutrimento perché il fusto produca le foglie e i frutti. La radice è solida: difende l’organismo dalle intemperie e dalle distrazioni del vento donandogli sicurezza. La radice è umile: lavora in silenzio, si nasconde sotto terra per dare splendore alla pianta. La radice è femmina: nelle viscere cerca terreno fertile per trasformarlo in vita.
Nella cultura egizia, l’albero della vita, riprodotto negli antichi papiri,  ha una enorme radice che dalle profondità̀ fa scaturire una ramificazione copiosa. Di simbolismo in simbolismo, tale immagine è stata traslata per rappresentare l’albero genealogico delle famiglie dove la ramificazione sono i volti e le storie degli individui che ne fanno parte. Come a dire che una famiglia tiene con sé uomini accomunati da un’unica radice ma con storie diverse. E non solo. Una famiglia è essa stessa ramo di un albero più grande che comprende altre famiglie. A ritroso nel tempo, per propaggine, ogni albero è ramo di un altro albero; come ogni uomo, volto e storia è un albero che produce rami e frutti. La radice è punto di partenza, origine e principio principiante di tutto, ogni volto, ogni uomo, ogni storia è insieme frutto e principio. Esserne consapevoli vuol dire sviluppare subito sentimenti di gratitudine nei confronti di chi è stato “radice” per noi e sentimenti di responsabilità̀ nei confronti di quanti saranno il frutto di quanto ciascuno di noi fa e realizza. Monito memorabile deve essere, per questo, l’autocritica del dantesco in Paradiso, Ugo Ciapetta: “Io fui radice de la mala pianta che la terra cristiana tutta aduggia”. Non possono esistere umani senza radici, cioè senza principi, senza storia e senza origine. Chi recide la “radice” si espone a essere travolto al primo vento che spira. Mettere radici è il bisogno di ogni essere umano. Per cui  dovremmo sforzarci di donare  a chi amiamo ali per volare, radici per tornare e motivi per rimanere.

Favria, 17.11.2022  Giorgio Cortese

Nella vita quotidiana ogni singolo gesto donato non è mai sprecato. Di una carezza, un abbraccio, un sorriso, di tutto rimane traccia. Felice giovedì.

Chierico!

Oggi giorno siamo abituati a pensare al chierico come ad un membro del clero di una religione ed in effetti il termine è utilizzato prevalentemente per riferirsi ai membri del clero, ad esempio della Chiesa cattolica come i diaconi, preti, vescovi. Ma non è sempre stato così, o almeno. Non una volta, ma andiamo per ordine, la parola chierico la parola deriva dal termine latino tardo clericus, che a sua volta deriva dal greco kleros, che significava inizialmente sorte, eredità e poi in seguito parte scelta e selezionata dei fedeli. Nel Medioevo il clericus poteva essere  l’ecclesiastico ma anche la persona dotta ed intellettuale che conosceva il latino e  si contrapponeva al termine laico che a sua volta poteva indicare tanto il cittadino non ecclesiastico e annche il non letterato, colui che non conosceva il latino. Per tutto il sec. XII e il XIII, furono chiamati clerici vagantes, quei poeti, che, vivendo al margine della chiesa, vagavano per le università, le città e le corti, spesso confusi con i giullari, di cui condividevano la vita errabonda e l’indole artistica. Numerosi e privi di mezzi, irrequieti nello spirito e irregolari negli studî, risentirono quel potente risveglio intellettuale e politico della loro epoca e ne rispecchiarono le condizioni sociali e la fisionomia morale. Furono detti anche goliardi, e da essi fu chiamata la poesia che si fece interprete della loro esuberante vivacità e della loro maliziosa spregiudicatezza, sebbene la produzione latina ad esempio di Gualtiero Map sia frutto di spirito colto e di ben definite individualità. Tornando alla parola iniziale, chierico, come si vede allora tra ecclesiastico e dotto esisteva un forte legame se non addirittura una piena identificazione. Nel francese antico il termine clerc, significava allo stesso modo sia ecclesiastico che “letterato, da cui deriva poi anche clergie, sapere, istruzione. Oggigiorno in francese il lemma clerc, indica l’impiegato o collaboratore di un notaio o avvocato esattamente come in inglese clerk, proprio perché originariamente con tale termine si indicava l’idea di persona istruita. Anticamente era dunque giustificato il fatto che spesso intellettuali scegliessero di diventare “chierici” per puro senso opportunistico, solo così potevano infatti usufruire di benefici ecclesiastici che consentivano loro di studiare, leggere, scrivere senza occuparsi del lato economico e senza necessariamente dover diventare ecclesiastici. In teoria non era ammesso ma era infatti largamente tollerato che il chierico avesse una concubina e anche dei figli in alcuni casi.  Siamo ante Concilio di Trento e troviamo tra i chierici: Petrarca, Ariosto, Tommaso Campanella, Gian Battista Alberti, Pietro Metastasio, che scrivono  e riversano nelle loro opere anche  pensieri laici  di amori profani e a volte tormentati, spesso lontani da quanto ci si aspetterebbe da uomini che fanno parte del clero, altri tempi con pensieri e sensibilità diverse.

Favria,  18.11.2022  Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita quello che a parole ci è nascosto nel silenzio crepita più intimo. Felice venerdì

Ius osculi!

Durante il periodo tra la Repubblica e l’alto Impero, la donna aveva, per legge, il dovere (o meglio, l’obbligo) di baciare il marito ogni giorno sulle labbra. Quest’obbligo si estendeva, inoltre, a tutti i parenti di sesso maschile (suoi e del marito), fino ai cugini di secondo grado. Lo stabiliva lo “ius osculi”, o appunto “diritto di bacio”. Non si trattava di un gesto di affetto, bensì di un espediente attraverso il quale gli uomini potevano appurare se la donna aveva bevuto alcolici, testandone l’alito. Nell’antica Roma infatti l’alcol era proibito per le donne honestae. Coloro che contravvenivano a questa regola potevano essere ripudiate o addirittura uccise. Alla base del divieto vi era la convinzione che, bevendo, si sarebbero lasciate andare a comportamenti licenziosi. La proibizione non valeva per le categorie considerate malfamate (probrosae), tra le quali donne di spettacolo, cameriere delle taverne e prostitute. Lo scopo di questa usanza era quello di verificare se la donna avesse o meno bevuto del vino. Infatti, i Romani credevano che se una donna avesse ecceduto nel bere, sarebbe stata più facilmente soggetta a cadere in tentazioni carnali, e di conseguenza più incline a commettere adulterio.

Favria,  19.11.2022  Giorgio Cortese

Buona giornata. Ritengo inutile andare alla conquista della Luna e su Marte se poi finiamo per perdere la terra. Felice sabato

I vandali da sempre denigrati!

Facciamo presto a dire «vandalo» per indicare chi devasta con furia e ferocia irrazionale. In fin dei conti seguiamo una scia, inaugurata il 10 gennaio 1794, nel corso della rivoluzione francese, dal vescovo Henri-Baptiste Grégoire che, per dare un nome al furore delle devastazioni iconoclaste, conia il termine vandalisme, vandalismo. Ma la scelta non fu a caso. Perché la leggenda nera dei Vandali aleggiava da tempo sull’Europa, legata alla memoria profonda di quel popolo crudele all’inverosimile per fanatismo e violenza. Ma i Vandali furono davvero i più barbari tra i barbari? Proprio no, spiega Umberto Roberto nel suo Il secolo dei Vandali. Storia di una integrazione fallita (21 Editore). Furono, semplicemente, tanto barbari come gli altri. Con una storia, però, straordinaria, simile a un’epopea. Essi, infatti, espressero una civiltà che durò giusto un secolo, dal 429 al 534, tempo nel quale si affrancarono dall’autorità romana creando un centro di potere in Africa settentrionale, che si confrontava con un Occidente in piena disgregazione e con un unico, vero interlocutore politico dell’Impero di Costantinopoli. Prima del loro arrivo in Spagna nel 429 le loro coordinate ci sfuggono. Più che un gruppo unico, i Vandali erano un coacervo di tribù di origine diversa, fatto non inusuale ma comune ad altre stirpi, come ad esempio i Longobardi. Insomma, non erano solo Vandali, ma Alani, Goti, Suevi. Un popolo in movimento che raggiunse la penisola iberica dopo avere attraversato la Pannonia e la Gallia. E che si strinse compatto intorno a un rex, un re, spiega l’autore, «non più semplicemente un capo religioso secondo la tradizione germanica, o un comandante militare in grado di gestire una situazione di pericolo», ma «il punto di aggregazione di un’intera popolazione che lotta per la sopravvivenza, per riconquistare la pace e una terra dove terminare il proprio viaggio». Gente cristianizzata, però nella dottrina ariana, secondo cui la natura divina di Cristo era inferiore a quella del Padre: tratto distintivo di un’alterità religiosa che aveva un chiaro intento di separazione rispetto alle popolazioni autoctone, per preservare l’identità e l’autonomia vandala da influssi pericolosi. Una «strategia di distinzione », la definisce Roberto, per proteggerli da un’assimilazione troppo fulminea, condizionata dalle popolazioni latine conquistate, maggioritarie e cattoliche. La meta vandala, tuttavia, non fu la Spagna, troppo ostile per un popolo che contava a malapena 80 mila persone. Ma la regione nordafricana, tra le più ricche del Mediterraneo. Guidò i Vandali nella conquista un uomo di genio, gran condottiero, ottimo politico. Si chiamava Genserico. Lo scrittore goto Iordanes lo descrive così: «Di statura media, era zoppo per una caduta da cavallo; d’animo profondo, parco nel parlare, facile all’ira e avido di ricchezze. Era assai abile nel convincere le masse, preparato a diffondere l’odio». Con lui, un intero popolo attraversò lo stretto di Gibilterra. Donne, vecchi, bambini e guerrieri: quest’ultimi tra i 15 e i 20 mila. Un’eterogenea massa infoltita da liberi e schiavi provinciali di origine ispanica. La traversata fu un’operazione logistica complessa, il cui spaccato organizzativo poco si addice ai nostri stereotipi sui Vandali. Furono necessarie diverse centinaia di navi da carico, confiscate ai Romani, capaci di trasportare cavalli e carriaggi. E tante navi da pesca, di minore dimensione. Un’operazione efficace e rapida, una specie di Dunkerque del V secolo che permise in pochissimo tempo a un popolo intero di raggiungere l’Africa, dove ci si aspettava una resistenza accanita da parte romana. Invece, contro ogni aspettativa, la marcia fu pressoché indisturbata e, nell’arco di un anno, furono percorsi 2 mila chilometri, fino alla ricca provincia di Numidia. Cadde Ippona, dove morì sant’Agostino. Cadde poi Cartagine, la più importante città mediterranea dopo Costantinopoli. I Vandali, con la forza, avevano finalmente trovato un traguardo opulento, l’«anima dell’impero», l’Africa settentrionale. E si insediarono lì, a Cartagine e nelle aree circonvicine, attorniati da un mondo per molti versi distante e diverso, composto, in prevalenza, da provinciali romanizzati cattolici. Da qui Genserico scatena una politica da grande potenza. Imprevista e inattesa. Diventa l’arbitro di vicende che avevano uno scacchiere molto più ampio di quello africano. Poi, un gesto eclatante. Nel 455 sbarca a Ostia con una imponente flotta e dà l’assalto a Roma. Non fu il colpo di mano di un pirata audace, ma un’impresa dal chiaro significato politico, pianificata con cura, a stabilire la supremazia sul mondo latino dei Vandali, popolo «fondatore di un nuovo regno, forte e indipendente dall’Impero romano », dice Roberto. Il sacco durò 14 giorni, dal 2 al 16 giugno e l’enorme bottino portato via, ricchissimo e carico di un valore simbolico senza pari, rappresentò agli occhi di tanti testimoni una translatio  imperiida Roma a Cartagine, un passaggio di consegne che sanciva l’inizio di un’epoca nuova. Finché regnò un sovrano geniale come Genserico, il dominio africano dei Vandali si rafforzò, aspirando perfino all’egemonia sul Mediterraneo centro-occidentale. Dopo di lui, però, le fragilità della sua creazione apparvero lampanti. I successori si rivelarono inadeguati al loro compito. L’integrazione con i Latini si rivelò un fallimento, con la pervicace e violenta discriminazione nei confronti dei cattolici e la difesa fanatica dell’arianesimo, «misura necessaria a delimitare il perimetro dell’identità vandalica». E la simbiosi si rivelò impossibile tra un popolo come quello vandalo, tenace ma isolato e minoritario, e la massa di gente della provincia, tra cui Mauri e Punici più o meno romanizzati. Con una contraddizione di fondo: che mentre la società si lacerava, l’economia africana avanzò, formando una delle poche sacche commerciali e produttive prospere dell’area mediterranea occidentale. Quando le truppe del generale bizantino Belisario, inviate dall’imperatore d’Oriente Giustiniano, sbarcarono in Africa nel dicembre 533, bastò poco, i Vandali si trovarono soli, abbandonati dagli amici, ignorati dai provinciali. A Tricamarum, presso Cartagine, l’ultima, definitiva, coraggiosa e perduta battaglia. Nel marzo del 534 il regno era finito. E su di essi calò l’oblio, ma non la cattiva fama che continua ad accompagnarlo.

Favria,  20.11.2022  Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno non ci rendiamo conto quanto bene possiamo fare con un semplice sorriso. Felice  domenica

Oltre la nebbia.

Ricordo le sere di novembre quando vagavo durante il cammino tardo pomeridiano nella nebbia, e a stento riconoscevo gli alberi amici del parco, né gli alberi si scorgono tra loro, sembra che su questa terra ognuno sia rimasto solo. Qualche mese addietro nella calda estate pieno di amici mi appariva il mondo, quando le giornate erano lunghe ed assolate e adesso che la nebbia cala non ne vedo più alcuno. Mi sembra strano, vagare nella nebbia che tutto nasconde, sembra che nessuno più conosca l’altro! Nella nebbia odo delle voci ovattate dietro alla barriera della dama bianca, che tutto avvolge creando un mondo irreale. O dolce terra che sopporti tutti noi umani senza ribellarti, che ogni giorno cerchiamo di sfigurarti, fai in modo che quando la dama bianca ci abbandonerà il cielo sarà limpido come l’animo nostro oggi preso dalle gioie e angosce del presente senza pensare che siamo tutti una unica gente. Alla fine della lunga notte, dopo tanta nebbia a una a una si svelano le stelle. Respiro con l’animo il fresco che mi lascia il colore del cielo e con ottimismo riprendo a vivere una nuova giornata.

Favria, 21.11.2022 Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno non abbiamo bisogno mdi vedere l’intera scalinata. Iniziamo semplicemente a saliere il primo gradino. Felice lunedì

La favella

La parola deriva dal latino fabula, discorso, di cui è diminutivo,  e indica, nel linguaggio aulico, la capacità di parlare, ma anche ciò che si dice oppure la lingua in cui viene espresso. Esiste però anche un senso più inquietante: nel gergo della ‘ndrangheta e della Sacra Corona Unita, la “bella favella” è una filastrocca che ogni aspirante malavitoso deve recitare a memoria innanzi al proprio padrino durante il rituale di affiliazione,  o “battesimo”.

Favria, 22.11.2022 Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita quotidiana una distanza materiale non potrà mai separarci davvero dagli amici. Se desideriamo essere accanto a qualcuno, lo siamo già! Felice  martedì.