Le epidemie nella storia umana. – La S. Messa corre sul social. – Continuare colloqui mai finiti. – Da budriere a bautièire – Sedia, poltrona o sofà, l’arte di stare seduti. – Per vedere la luce! – Il mito di Roma la festa dei Parilla…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Le epidemie nella storia umana.
La storia e l’evoluzione del genere umano sono strettamente connesse con la storia delle malattie infettive. Lo sviluppo e la propagazione di alcune infezioni ha uno addirittura causato il crollo di imperi secolari. Le prime notizie sulle malattie contagiose si trovano nella Bibbia, che testimonia il terrore e la morte che esse provocarono tra gli Egizi nel 1320 a.C. In molti grandi romanzi si trovano riferimenti alle epidemie: dal celebre “dagli all’untore” nei Promessi sposi di Alessandro Manzoni, venivano chiamati untori coloro che si pensava diffondessero volontariamente la malattia spargendo particolari unguenti malefici, ai versi di Petrarca che narrano il dolore per la scomparsa, nell’epidemia del 14° secolo, dell’amata Laura, la figura femminile ispiratrice dei suoi canti. Per arrivare al significato di male assoluto che l’epidemia assume in La peste di Albert Camus, pubblicato nel 1948. “La malattia era inspiegabile e ci furono vari modi in cui essa si abbatté sui singoli individui, con troppa violenza perché la natura umana potesse sopportarla…” Non è il resoconto della pandemia da Coronavirus, ma della prima cronaca di un virus devastante. Era il 430 avanti Cristo, ad Atene, e Tucidide descrisse così il flagello che si abbatté sulla città. Lo storico greco Tucidide nel 5° secolo a.C. che raccontò con toni tragici il tramonto economico e sociale di Atene che fino al 430 a.C., anno della pestilenza, era stata la più potente città del bacino mediterraneo. La peste è una malattia infettiva acuta provocata dal batterio pasteurella pestis, e trasmessa accidentalmente all’uomo mediante la puntura di pulci che infestano i ratti ammalati. Una volta colpito, l’uomo rappresenta una fonte di contagio per l’intera comunità. Fortunatamente, dopo la scoperta degli antibiotici, la peste è ormai una malattia quasi totalmente scomparsa. Sicuramente fu peste anche quella che colpì l’imperatore Giustiniano nel 542 a.C., descritta dallo storico bizantino Procopio come pestis inguinaria. Ma la più diffusa e terrificante epidemia di peste in Europa si verificò in diverse ondate successive nel 14° secolo. La pestilenza peggiore si ebbe in Italia nel 1348. Si stima che morì tra il 30 e il 50% dell’intera popolazione europea. Un’altra grave pestilenza si verificò in Europa tra il 1629 e il 1630. Ecco poi l’influenza, un’altra malattia infettiva che ha pesato in modo drammatico sui destini della popolazione mondiale, con le sue ricorrenti epidemie di diversa gravità. Il termine indica l’effetto, l’influenza, appunto, delle condizioni atmosferiche sull’uomo. Una volta si pensava che le malattie contagiose avessero origine dalle condizioni climatiche o ambientali secondo la teoria miasmatica sviluppatasi nel Medioevo, l’insorgenza delle malattie era dovuta ad alterazioni della qualità dell’aria. I primi indizi dell’esistenza dell’influenza risalgono al 15° e al 16° secolo, nel periodo in cui i colonizzatori portoghesi e spagnoli conquistarono l’America Meridionale. Le popolazioni indigene non erano mai venute a contatto con il virus e la diffusione del morbo diede un fondamentale aiuto ai conquistatori. Lo stesso avvenne nella seconda metà dell’Ottocento con la conquista inglese e francese dell’America Settentrionale. Una drammatica epidemia di influenza fu la terribile spagnola, che nel 1918-19 uccise oltre 21 milioni di persone solo in Europa, un continente già stremato dalla Prima guerra mondiale. Questa epidemia deve il suo nome alla Spagna, che riconobbe per prima l’emergenza sanitaria. Le epidemie di influenza più importanti, in seguito, si verificarono dopo la Seconda guerra mondiale: nel 1957 la asiatica e nel 1968 la Hongkong, ma si trattò di forme decisamente meno gravi, anche perché in questi casi molte complicazioni della malattia hanno potuto essere evitate con la somministrazione di antibiotici. Oggi i la medicina possiede due armi che hanno profondamente modificato l’impatto delle malattie infettive sulla popolazione mondiale e diminuito il rischio di epidemie, la prevenzione e gli antibiotici. Il pericolo delle epidemie è presente ancora oggi come si vede con la Covid 19 o Coronavirus che stiamo combattendo adesso con la quarantena in attesa in un vaccino!
Favria, 15.04.2020 Giorgio Cortese

Ogni giorno la speranza non sarà mai sopraffatta dalla disperazione, finché la tengo legata nel mio animo al desiderio e alla fiducia.

La S. Messa corre sul social.
In tempo di quarantena da Coronavirus la S. Messa corre sui social, ha fatto nascere in me un motivo di riflessione, uno stimolo ad approfondire il senso dell’andare a Messa, o a scoprire forme di preghiera diverse. Durante la Santa Messa ho pensato a tutti i morti causati da questa epidemia e solo l’amore di Cristo può illuminare e scaldare il cuore di tanti italiani e delle tante famiglie che in questi giorni vivono il dramma della malattia, della perdita dei propri cari, o anche solo la paura del contagio e la fatica di una gestione totalmente diversa della propria quotidianità. Che bello ascoltare la S. Messa purtroppo non nella bella chiesa parrocchiale tanto cara, ma presente lo stesso, vicino e stretto nella preghiera ma distante nella mia casa, secondo le disposizioni emanate per fronteggiare il coronavirus, eppure in comunione. Penso ai social network, che sono strumento di solitudine e che adesso mi fanno scoprire il senso della Comunità, che si unisce nell’ascoltare un Rosario, che permettono la consolazione dell’adorazione eucaristica. Ma sono consapevole che le frontiere tra reale e virtuale non sono nette, per cui mantengo una certa prudenza e sono guardingo. Oggi il digitale cerca di portare ad una progressiva dematerializzazione. Alla fine ciò che è materiale a volte mi appare lento e pesante. Ma come cristiano la salvezza riguarda tanto le anime quanto i corpi. È Dio che ha creato la materia, e poi l’ha assunta, con tutta la sua bellezza e tutta la sua opacità, quando si è fatto uomo. E non potremo incontrarlo se proviamo a disincarnarci dalla nostra umana quotidianità per potere reggere alla prova della vita, facendo percepire a tutti la bellezza del credere e portando a riconoscere e praticare il giusto senso dell’esistenza, nell’ascolto vitale della Parola di Dio capace di attestare la verità che rende liberi. Grazie don Gianni e a tutti quelli che hanno collaborato
Favria, 16.04.2020 Giorgio Cortese

Spero che prima o poi il sereno arrivi per tutti e a ognuno di voi anche se non vi conosco vi auguro di cuore che la vostra vita sia sempre come un cielo azzurro limpido e sereno coraggio e buona vita.

Continuare colloqui mai finiti…
Sono a casa al sabato pomeriggio, in clausura come tutti gli italiani che non sono fuori per necessità o al fronte a combattere negli ospedali il Coronavirus! Mi viene in mente i sabati pomeriggio di qualche tempo addietro quando passavo dagli Alpini del locale gruppo dove trascorrevo dei bei momenti di allegria e di condivisione. Che bello godere dell’allegria di un contesto ormai desueto, in questa società malata di egoismo. Ritrovarsi con gli Alpini vuole dire ritrovarsi con esseri umani che hanno nel loro DNA lo spirito di servizio verso la società. Amici uniti per un ideale comune: aiutare in libertà chi ne ha bisogno! Quando entri nella piccola sede del Gruppo l’accoglienza e famigliare e ti mettono subito a tuo agio. La sede del gruppo è un libro vivente della memoria orale con i racconti di Nino e l’allegria e disponibilità di tutti che trasmettono sempre un’allegria coinvolgente. La sincera amicizia non è mai sollecitata da convenienze e opportunismo, ma da autentici sentimenti di vicinanza, condivisione e affinità. Gli amici Alpini non hanno risposte per i miei dubbi o timori, però mi ascoltano e le dividono con me. Non possono cambiare la mia vita ma mi offrono la loro mano per sostenermi se cado condividendo la mia allegria e le mie preoccupazioni. Nella vita nessuna altra cosa mi conforta tanto, quando il ritrovarmi con persone che condividono i Tuoi ideali con Alpini che donano la gioia nella loro confidenza con assoluta tranquillità. Ecco cosa mi manca al sabato pomeriggio la loro voce con presenza fisica per continuare colloqui mai finiti.
Favria, 17.04.2020 Giorgio Cortese

Non fermo mai il battito del mio cuore e continuo ad emozionarmi, e se ho paura o timore, stringo forte i miei sogni per proteggerli, poi mi rialzo e riprendo il quotidiano cammino. Tengo sempre accesa nell’animo la luce della speranza.

Da budriere a bautièire
La parola italiana budrière e o bodrière deriva dal francese baudrier di origine tedesca ed era una striscia di cuoio che nelle milizie dei secoli passati si portava ad armacollo e serviva ad appendervi la spada o la sciabola, e in qualche caso, se disposta davanti, la bandiera o il tamburo. Nella prima uniforme dei Carabinieri si designava con questo nome dal francese baudrier, il cinturone in buffala bianca, cuoio, con placca in ottone recante lo stemma del sovrano, usato per sostenere sul fianco la sciabola del carabiniere a piedi, che lo portava dalla spalla destra al fianco sinistro, incrociato con la bandoliera e la giberna, che scendeva dalla spalla sinistra al fianco destro. Venne abolito il 20 settembre 1870. Da questo lemma potrebbe anche derivare la parola piemontese bautièire, vacillante, che ricorda il ciondolare della spada da li la parola bautié con il significato di dondolare sull’altalena e nella culla o anche di vacillare o barcollare o anche il rimandare una cosa da fare, bautiss. Tornando alla parola iniziale budrère deriva dall’antico tedesco balderich, simile al sassone belt e che provengono forse dal latino balteus, tracolla, ma forse ho già troppo, bavardè, chiacchierato. Interessante infine questa ultima parola piemontese che è di origine francese dal lemma bavarder, espresso in forma negativa di chi come me parla troppo e di cose inutili come adesso sto facendo io.
Favria, 18.04.2020 Giorgio Cortese

Ogni giorno al risveglio mi aggrappo sempre alla speranza. Durante la giornata anche tra i rovi, nascono fiori bellissimi.

Sedia, poltrona o sofà, l’arte di stare seduti.
In questi giorni di emergenza coronavirus, ero seduto che leggevo è ho riflettuto di quante volte al giorno mi siedo per riposare, studiare, leggere o mangiare? Quando penso alla sedia, ragiono sul mobile su cui mi siedo o mi metto a sedere. Ma così forse mi precludo ogni altro tipo di supposizione. Oggi siamo troppo abituati a riferire l’azione o lo stato di sedere quando una persona si abbassa piegando le ginocchia per mettersi a sedere o che se ne sta seduto su una sedia, uno sgabello, una poltrona o un sedile qualunque per poter sospettare che dietro quest’azione e questo stato ci sia il significato precedente di mettersi in contatto, contattare, stare in contatto, toccare, stare attaccato, stare connesso non necessariamente riferito ad un uomo, ma a qualsiasi corpo che entra in contatto con un altro. In effetti, uno dei significati della parola latina sedere è proprio quello di aderire, restare attaccato, che a mio avviso è quello originario. Allora è immaginabile che il significato originario del lemma latino sede, sedia, sede, fosse quello di una struttura, strumento, apparecchio, un oggetto, insomma, composto da una serie di elementi attaccati o incastrati solidamente insieme. In inglese troviamo la parola set che significa serie, raccolta, apparecchio radio o televisivo, che forse deriva dalla parola latina precedentemente detta. Tra l’altro la parola assume anche il significato di pesante struttura lignea usata per sostenere le pareti nei lavori di scavo, nelle gallerie, che si avvicina molto all’idea che sta dietro quella di sedia. Penso a quanta attenzione dedico alla sedia che adesso mi sostiene su cui affido il mio corpo durante la giornata per molto tempo. Ripenso alla sedia come emblema del potere. E rammento la la parola trono, sedia dal greco antico thrònos, con la variante thranps, sedia sgabello e trenos, sgabello, predella, banco dei rematori, e può essere in rapporto con l’italiano tranello che deriva dall’italiano antico tranare, variante di trainare. Secondo il Devoto il tranello sarebbe un azione subdola per trascinare in un’insidia! Oggi il significato della parola è quasi soltanto quello figurato di inganno, trappola, mentre un dizionario etimologico d’inizio ‘900 ne dà anche il significato di rete, laccio. Ma allora dietro a questa parola può esserci un significato generico di legame, legaccio simile alle parole inglesi treenail, trenail, trunnel che hanno il significato marinaresco di caviglia di legno, usata per fissare tavole nella costruzione delle navi. La sua funzione è quindi quella di fissare, inchiodare, tenere stretto, legare. Apparentemente l’etimo di tree-nail è semplicissimo, si tratterebbe di chiodo, nail, di legno, tree. Però tree significa solo albero, e già questa piccola difficoltà dovrebbe indurmi a riflettere di più, oggi che sono seduto sulla sedia vicino ad un tavolo e consulto molti libri e ripenso alla sedia, origine di questo mio piccolo sproloquio. La sedia o trono è divenuta nei secoli uno status nella gerarchia sociale, definisce il ruolo di chi è autorizzato ad usarla, il trono del monarca, la sedia gestatoria del Papa, la cattedra del vescovo, la superba poltrona del ricco, lo scranno del giudice, lo sgabello dello studente o dello scrittore, il sedile rustico del povero. Ma solo noi in Occidente abbiamo questo status symbol della sedia, i giapponesi ed i popoli asiatici e africani in genere siedono a terra a gambe incrociate, accovacciati o inginocchiati, noi no, non possiamo vivere senza le sedie! Già la sedia quella del capotavola, al centro o in fondo! La scelta del posto non è mai casuale rivela molto di noi e dei rapporti che abbiamo o che vorremmo avere con gli altri. Mi ripeto, sedermi a tavola è un gesto quotidiano così comune che il più delle volte è automatico ma in realtà la scelta del posto rivela molto di me e dei miei rapporti interpersonali. Senza che me ne rendo conto tendo a ribadire un determinato ruolo all’interno del gruppo, a marcare simpatie e antipatie con il linguaggio del corpo e a interagire usando bicchieri e bottiglie. La posizione frontale mette in gioco un confronto diretto e predispone maggiormente al contatto visivo. Leggendo un libro, seduto, ho trovato l’asserzione che se sono in competizione con qualcuno cercherò di piazzarmi davanti per poterlo meglio controllare, mentre se non mi interessa minimamente cercherò di sedermi distante senza alcun contatto fisico o visivo. Se l’intelocutore che ho davanti si protende verso di me puntellandosi con i gomiti, sedendosi sul bordo della sedia, come per accorciare le distanze ci sono buone speranze, se al contrario si sbilancia all’indietro con le gambe accavallate un po’ meno. Se mi trovo in posizione speculare, con chi dialogo questo è un forte segno di intesa. Se poi mi metto a tavola seduto fianco a fianco, questo indica un maggior grado di conoscenza e vicinanza con chi mi trovo, mettendomi sullo stesso piano che presuppone una certa vicinanza per poter comunicare facilmente nel corso della serata e quindi a fiancheggiarmi a vicenda nel vero senso della parola. Ed infine se mi mettono alla destra del padrone di casa, questo vuole dire stima e sodalizio intellettuale, pare che da ricerche fatte che se le informazioni mi arrivano da qualcuno che si trova alla mia destra tendo a assimilarle tre volte di più rispetto a un interlocutore posto alla mia sinistra. E questo sempre stando seduto su di una sedia che è molto di più di un mobile. Seduto vicino alla finestra guardo il parco e mi godo lo spettacolo del modo dalla mia sedia, nel silenzio, solo con l’uso dei sensi e con l’animo colmo di fiducia e di speranza che passerà e andrà bene e osservo placidamente con stupore lo spettacolo della natura.
Favria, 19.04.2020 Giorgio Cortese

Ogni giorno nel mio animo si alzano le ali della speranza e riparto sempre fiducioso cercando di superare gli ostacoli, ogni problema è un’ opportunità.

Per vedere la luce!
In questi giorni di marzo e di aprile dove parliamo alla fine sempre di coronavirus ho pensato alla massima degli antichi Greci: “Conosci te stesso” una massima religiosa scritta nel tempio di Apollo a Delfi. Ecco appunto come dicevano gli antichi se non riesco a trovare dentro di me quello che cerco, beh allora non riuscirò a trovarlo fuori. Come bipedi pensanti cresciamo tra i nostri simili per processi imitativi, trovando fuori di noi, da piccoli nella famiglia e poi nella scuola e nel mondo dei necessari punti di riferimento. Siamo figli del tempo che viviamo, dove la tecnologia negli ultimi anni ha fatto passi da gigante, ci ha infuso tanta fiducia e possiamo parlare in videochiamata, cose che da ragazzo avevo solo visto nei primi anni settanta del Novecento sui telefilm di star trek in televisione. Ma forse fino ad oggi la nostra attività frenetica diventava sempre di più apparenza del tutto e subito. In questi giorni di marzo ho riletto, per caso, Alice nel Pese delle Meraviglie di Lewis Carroll e sono rimasto colpito da queste frasi del libro: “ Un giorno Alice arrivò ad un bivio sulla strada e vide lo Stregatto sull’albero. Che strada devo prendere?.” Come Alice, un giorno di marzo, mi sono trovato a riflettere che come essere umani siamo ad un bivio senza più sapere dove andare. Di fronte al bivio è richiesta una scelta. Una scelta coraggiosa, oltre la paura dell’ignoto. La scelta, non è fuori, a destra o a sinistra, bensì dentro, dentro la nostra grande oscurità, la nostra caverna, il nostro buco nero con la pura del virus? Ma cosa è un virus? Una unità infettiva di ridottissime dimensioni non considerata un vero e proprio organismo vivente. I virus, come è noto, non sono capaci di riprodursi autonomamente, per moltiplicarsi hanno bisogno di una cellula vivente, ospite che siamo noi. Si comportano dunque come parassiti obbligati, costringono la cellula ospite a replicare tante altre entità virali a spese dunque della cellula stessa. Il regno animale e quello vegetale convivono con i virus da milioni di anni. Non è il primo né sarà l’ultimo. Sono partito da questo per dire che il nostro amato pianeta Terra è entrato ormai in via ufficiosa nell’era dell’Antropocene. Lascio agli storici dire se la data esatta d’ingresso l’inizio della rivoluzione industriale? O il boom economico del dopoguerra. Ma non mi interessa la data di inizio ma il fatto che tutti noi abbiamo alterato con le nostre azioni il pianeta, la composizione dell’atmosfera, la temperatura degli oceani, il clima, le correnti oceaniche, con conseguenze disastrose per la biodiversità dell’intero pianeta. In questo contesto arriva il coronavirus o covid 19, una epidemia storica di portata globale. Sarà ricordato sui libri di testo del futuro come evento spartiacque. Viviamo ahimè la storia, avrei preferito leggerla, dove un virus sta cogliendo tutti noi esseri umani i cosiddetti homo sapiens impreparati, impegnati come eravamo a ha distruggerci a vicenda e a distruggere il bel pianeta blu. Il dramma è che ad oggi non esiste un vaccino, ne abbiamo sviluppato immunità. Siamo nell’era della medicalizzazione totale, mai arrivata a questo grado di potenzialità, eppure questa volta un virus è riuscito a fermare tutto e a riportarci ai tempi antichi. Dentro questo tunnel innescato dalla paura nascono nel mio animo delle semplici riflessioni. Dopo la sospensione del tempo fin qui noto, del tempo del lavoro dell’intrattenimento e dei cicli produttivi proprio della nostra società, come ci comporteremo dopo? L’inattività di questi giorni ci farà riflettere sulla nostra condizione umana, ci farà riflettere per indurci ad essere più umili e sobri? O meglio, sarà il virus e la tempesta economica che seguirà a costringerci a modificare di netto gli stili di vita e soprattutto l’organizzazione del nostro vivere? È una tra le tante domande che si ricorrono nel mio animo. Penso a due scenari, nella prima strada dopo il virus si farà una grande festa liberatoria e poi tornare a agire come prima muovendoci, nutrirsi, relazionarci nella forma insostenibile e propria dell’era Antropocene. Ci toglieremo al massimo qualche sassolino ogni tanto, concedendoci una scelta più o meno consapevole, ma senza che il nostro egoismo che tutto divora e distrugge venga minimamente scalfito. Ed il silenzio, l’aria pulita delle nostre Comunità di questi giorni cederà nuovamente il passo alla civiltà motorizzata e molti, assuefatti dallo strano morbo della modernità rumorosa, saranno perfino contenti. Lo si legge tra le righe in queste ore. Tutto tornerà come prima, andrà tutto bene. Ma esiste una seconda possibilità. Quella per cui val la pena staccarsi per un momentino dal circuito chiuso dei social, guardarsi intorno e scrivere due righe. La seconda strada prevede fin da subito un cambio drastico e senza ritorno dei nostri attuali stili di vita. Basterebbe partire dall’evidente. Se un virus come il coronavirus getta il pianeta in uno stato di paralisi senza precedenti. Un virus ignoto, ma pur sempre un virus ci ha messi in ginocchio dobbiamo pensare alla nostra umana vulnerabilità. Siamo limitati e viviamo dentro un ecosistema complesso, fitto di relazioni. Siamo parte del pianeta e non padroni assoluti. Siamo parte di un pianeta che abbiamo avuto in eredità dai nostri antenati e abbiamo contribuito ad alteralo mettendo a repentaglio la nostra stessa specie. E allora dovremmo ripensare ad un modo di vivere sempre più ecologico per conservare alle prossime generazioni del pianeta Terra. Ed infine la Sanità pubblica. Preserviamola e sosteniamola con ogni sforzo. Riapriamo gli ospedali chiusi, ampliamo quelli esistenti, costruiamone di quelli nuovi, sono di vitale importanza per l’imminente futuro della vita di noi umani. Niente scuse, niente promesse, le logiche neoliberiste hanno prodotto sciagurati esiti che nessuno può negare. Tagli senza criterio e ruberia ora fanno paura. Fanno più male quei tagli che il virus stesso. Se non lo facciamo adesso non lo faremo mai più. Non prendiamoci in giro già da adesso che siamo ancora chiusi in casa, ancora per tanti giorni, perfino i parchi sono stati chiusi. Non sprechiamo questo tempo senza tempo. Facciamola sì la nostra parte. E non solo per contenere il coronavirus ma per avere un presente appena un po’ più sicuro di quello che può aspettarci se non ci mettiamo subito in cammino. Si è aperto un varco: abbiamo tutte le ragioni e le forze per attraversarlo coraggio la fine del tunnel è vicina.
Favria, 20.04.2020 Giorgio Cortese

Il mito di Roma la festa dei Parilla.
Il mito della fondazione di Roma che viene indicato nel 21 aprile è complesso con una stratificazione di storie. Alla fine del II millenio a.C. i colli di Roma erano abitati da trenta popoli latini, insediati in villaggi e facenti capo ad Alba Longa. Il sito originario di Roma era un piccolo guadi del Tevere poco più a nord dell’isola Tiberina ai piedi dell’Aventino. Di qui passava la via del sale, via Salaria, elemento essenziale dell’alimentazione e della conservazione dei cibi, conteso fra i popoli italici. In quella area esisteva un piccolo centro latino Septimontiun, cioè “cime divise”, articolato clan si tipo tribale che si riunivano in assemblea pur in assenza di un centro urbano unitario. Sul Palatino, secondo la leggenda si trovavano i re discendenti da Marte, Pico, il picchio, Fauno, il lupo e Latino, associato ad una scrofa madre di trenta maialini, ciò i trenta popoli del Lazio. La mitica dinastia dei Silvi. Silvani, si conclude con i fratelli Amulio e Numitore. La figlia di Numitore, Rea Silvia, è posta come vestale, vergine, a costudire il fuoco sacro. Ma viene messa incinta da Marte e cosi nascono i due gemelli Romo o Remo, il maggiore e il secondo Romolo. Entrambi i nomi derivano da Rumon, nome etrusco del Tevere. In molti miti indoeuropei una colpa provoca l’espulsione dalla Comunità di origine e la migrazione sotto l’egida di un nume tutelare. Rea Silvia, viene sepolta viva ed i gemelli gettati nel Tevere in piena, ma quando le acque si ritirano la cesta con i gemelli approda ai piedi del Palatino sotto un albero di fico. Allattati da una lupa nella grotta del Lupercale sono raccolti dal porcaro Faustolo e da sua moglie Acca Larenzia, che li allevano nella loro umile capanna. Come si vede sono dei miti prodotti dal mondo dei contadini e pastori sono successivamente offuscati dal mito epico di Virgilio di stampo omerico con gli eroi Troiani Enea ed Ascanio o Iulio mitico progenitore della famiglia Giulia, elementi introdotti nel VI secolo a.C. per nobilitare il passato di Roma che allora iniziava ad essere una potenza visto che il mito agreste non era troppo nobile. Tornando ai gemelli Romolo e Remo, appresa la verità sulle loro origini, ottengono il permesso di fondare una città al guado del Tevere, nel luogo dove erano stati allevati da una lupa. Prima di fondare la città sondano il volere di Giove osservando il volo degli uccelli, ma nasce una contesa nella quale Remo rimane ucciso. Romolo rimasto unico re, dichiara guerra al Septimontium e scaglia una lancia di corniolo verso il versante sud del Palatino. La lancia prodigiosamente si conficca proprio davanti alla capanna di Acca Larenzia e Faustolo trasformandosi in albero verdeggiante, segno del favore divino. Curiosa è la data di fondazione di Roma, il 21 aprile che era per questi popoli di pastori e contadini Latini del Lazio il capodanno pastorale, poi assunto a Roma antica come festa detta dei Parilia, da parere, partorire, dove si svolgeva la purificazione degli uomini e degli ovini e caprini, saltando su due fuochi, per propiziare i parti della capre e pecore. Sul Palatino si svolgono altre osservazioni di uccelli che consacrano il colle quadrangolare come prima “Roma quadrata”. La seconda impresa di Romolo, sempre secondo il mito è la creazione di un tempio a Vesta, appena fuori le mura del Palatino, sulle pendici che poi diverranno il Foro. Romolo non solo fonda la città di Roma, ma amche lo Stato nella dimensione politica e religiosa. Il re non è un monarca assoluto, ma un capo eletto dai capitribù come intermediario con gli dei. Romolo conquista gli altri colli e concede il diritto di asilo ai fuggiaschi, pare secondo un mito erigendo un tempio al dio Asilo, che accoglie poveri, criminali, debitori e schiavi fuggitivi che le integra nel tessuto cittadino assistito da Tito Tazio, re dei Sabini che non era riuscito ad assoggettare. Insomma con un metodo innovativo per i tempi Romolo è riuscito ad assoggettare i bellicosi uomini lupo in una Comunità nuova retta da norme sociali, politiche e religiose che superano antichi individualismi per aspirare a qualcosa di più grande, antesignano del motto che l’unione fa la forza!
Favria, 21.04.2020 Giorgio Cortese

Nella vita quotidiana la speranza del conforto dà coraggio nella sofferenza
giorgio