Le ferie dell’imperatore. – Piantare in asso o in Nasso! – Harpa, arpa. – Dannebrog! – La disumanità del dio denaro! – I valori degli antichi greci sempre attuali – J come Juventus! – Zefiro. – Passare la notte in bianco…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Le ferie dell’imperatore.
A ferragosto in Italia stiamo tutti a casa e lo sappiamo bene, mentre il resto degli Europei non capiscono

come mai ad agosto gli Italiani chiudono i battenti. Siamo l’unico paese al mondo che fa le ferie quasi esclusivamente ad agosto ed è come se durante questo torrido mese estivo, l’italica attività del patrio stivale si riducesse con  telefoni che squillano a vuoto per giorni, serrande abbassate, ristoranti chiusi… la desolazione più totale, come se gli Italiani avessero abbandonato il Bel Paese. Ed in effetti è proprio così… da circa 2000 anni! Il termine “Ferragosto” deriva dalla frase latina Feriae Augusti, ovvero le “Feste in onore di Augusto”, poiché fu proprio l’Imperatore Ottaviano Augusto ad introdurre questa vacanza che sollevava ogni cittadino romano dall’attività lavorativa durante la calura estiva. E in effetti anche il mese porta il nome dell’Imperatore. Con il termine ferragosto, oggi, indichiamo la sola data del 15, ma originariamente si indicava tutta la durata del mese, durante il quale si organizzavano feste, banchetti e in alcuni casi ci si scambiava anche piccoli doni. Si organizzavano anche mercati, fiere e sagre di ogni genere; e poi balli, gite e tanto altro. Inoltre vi erano comunque tutte le festività religiose del mese, quali: le Consualia, la festa di Diana, le Opiconsiva, le Volturnalia.   Il tutto era ovviamente volto a dimenticare per un breve periodo la fatica del lavoro nei campi, che per tutto il resto dell’anno portava sì abbondanza, ma anche sacrifici e spesso malattie e lutti. Durante la notte che precedeva il 15 agosto, si soleva accendere grandi falò, un po’ come facciamo noi oggi a dire il vero, ma ovviamente l’intento originario era ben diverso di una notte spensierata in spiaggia tra birra e chitarre. All’epoca, come oramai sappiamo bene, ogni gesto aveva un significato ben preciso e in questo caso il falò aveva la funzione apotropaica di scacciare, anzi, di rimandare l’inevitabile riduzione  del calore solare sulla Terra. Con il fuoco si voleva prolungare ancora per qualche settimana il caldo estivo e la lunghezza delle giornate, ormai destinate ad accorciarsi irrimediabilmente fino alla famosa notte del 24 dicembre. E pensando al fuoco, cosa sono poi i fuochi d’artificio se non una grandiosa manifestazione di luce e di festa! Anche l’acqua aveva un significato magico per gli antichi che si immergevano nelle acque del mare, o dei laghi e dei fiumi, come gesto lustrale in previsione dell’autunno e del lavoro che esso comportava. L’acqua purificava il corpo e lo spirito dopo un periodo di sosta, che serviva a ridare le energie necessarie a svolgere il duro compito che aspettava i contadini nei campi. Il sentimento e la valenza spirituale di queste manifestazioni antiche erano talmente forti che quando la Chiesa Cattolica prese in mano le redini religiose, non poté far altro che assorbire tali festeggiamenti, anziché demonizzarli come aveva fatto con altre celebrazioni pagane, e farli propri associando ad essi una ricorrenza cattolica. E così il 15 agosto si cominciò a celebrare anche la festa dell’Assunta in Cielo, che sin da subito mescolò rituali cristiani e tradizioni pagane. E a ben pensarci ancora oggi è così per tutte le varie feste dei santi patroni. Infine Vi ricordo il proverbio: “Per san Rocco la rondine fa fagotto”, il 16 di agosto. Questo testimonia quanto detto finora, ovvero che già dal giorno dopo di Ferragosto si può dire che l’estate ed il caldo  volge ormai al termine e la rondine che sinora aveva soggiornato sui rossi tetti italiani, si rimette in viaggio verso paesi più caldi. Buona giornata a chi è lontano, a chi non sa dove andare, a chi sorride al cielo o si tuffa nel mare. Auguro un ferragosto da ricordare!
Favria, 15.08.2021 Giorgio Cortese

L’emergenza sangue non va mai in vacanza, prima di partire Ti aspettiamo a Favria MERCOLEDI’ 25 AGOSTO  2021 cortile interno del Comune dalle ore 8 alle ore 11,20. Abbiamo bisogno anche di Te. Donate il sangue, donate la vita! Attenzione, per evitare assembramenti è necessario sempre prenotare la vostra donazione. Portate sempre dietro documento identità. a Grazie per la vostra collaborazione. Cell.  3331714827- grazie se fate passa parola e divulgate il messaggio

Auguro a tutti voi un Ferragosto pieno di colori, l’azzurro del cielo che porta serenità, il giallo del sole che scalda il cuore, il rosso dell’amore delle persone a voi vicine e il verde della speranza che teniamo viva in un angolino del nostro cuore. Che la magia di questa giornata vi porti tante ore liete di sorrisi e tanta serenità. Felice  domenica.

Piantare in asso o in Nasso!

Quando si lascia una persona senza spiegarle perché lo si sta facendo e senza darle il tempo di capire esattamente cosa sta accadendo, si usa spesso la frase “piantare in asso”.  Questo modo di dire potrebbe derivare dal dal gioco delle carte, l’asso come carta che in molti giochi ha valore “uno”, o più probabilmente, dal fare il punto più basso. Secondo altri nel gioco delle carte quando l’asso viene lasciato inaspettatamente, magari in modo brusco, in quanto costituisce il punto peggiore possibile nel gioco il  detto tedesco, im Stich lassen, lasciare in punto, la cui frase e concetto sono equivalenti. L’ipotesi potrebbe essere avvalorata anche dal fatto che non è insolita la formazione di usi figurati e modi di dire formati con la parola assoche si rifanno al mondo ludico. Si pensi a essere un asso/sei un asso! nel significato di persona che eccelle, diffuso a partire dall’ambito militare e dell’aviazione. Ma anche avere un asso nella manica, che rimanda all’azione scorretta di chi, barando durante il gioco, tiene nascosta nella manica la carta dell’asso per poterla estrarre e giocare al momento giusto. Altri ancora sono i modi di dire non più in uso come gettare i dadi in asso, imbattersi in una cattiva sorte, o asso o sei, o nulla o tutto, fare l’asso non riuscire, fallire, cadere dal sei nell’asso, passare dalla buona alla cattiva sorte, essere nell’asso, trovarsi in una situazione avversa, e giungere all’asso, ridursi in miseria’. Da considerare inoltre l’etimologia stessa della parola asso impiegata all’interno del nostro modo di dire, che ci  riconduce al latino assem, dall’etrusco che significava intero, unità, da cui asse, moneta romana. Ecco che il significato del latino, assis, unità monetaria è stato trasferito al gioco dei dadi per indicare il punto minore, e quindi al gioco delle carte. Secondo altri il modo di dire piantare in asso deriva dal racconto mitologico di Teseo e Arianna la bella figlia del re di Cnosso si innamorò dell’eroe ateniese e lo aiutò nella sua impresa contro il Minotauro. Sconfitto il mostro, i due partirono insieme da Cnosso, durante il viaggio, i due innamorati concepiscono Demofonte, futuro re di Atene. Ma, secondo una versione del mito, giunti nell’isola di Nasso, Teseo fa un sogno in cui Dioniso gli ordina di lasciargli Arianna perché la desidera per sé. Teseo al risveglio si sente obbligato ad esaudire il desiderio del dio e abbandona Arianna ancora addormentata sull’isola di Nasso. Da qui, “piantare in Nasso”, che nella tradizione orale si sarebbe trasformato fino a diventare “piantare in asso”.  Ritornando al racconto mitologico grande è la disperazione di Arianna al suo triste e solitario risveglio. Ma Dioniso, innamorato della fanciulla, si affretta a consolarla e la fa sua sposa. Dioniso offre in dono di nozze ad Arianna una corona d’oro, che gli dei in suo omaggio convertono in una corona di stelle. Un’altra versione abbastanza antica della leggenda faceva morire Arianna, o per la sua infedeltà a Dioniso, o perché già sacra a questo dio, prima di arrivare in Atene. Figli di Arianna e Dioniso, sono Enopio e Stafilo. In conclusione, lasciare in Nasso e lasciare in asso convivono da secoli nell’italiano e né l’una né l’altra forma possono oggi essere considerate errate. Arianna appare ora come un’eroina, ora come una divinità, simboleggiando forse, nella sua ultima vicenda, il ciclo delle stagioni, dallo squallore e dall’abbandono dell’inverno alla lussureggiante festosità dell’estate.  Tornando al modo di dire se sia Nasso o asso ancora gli esperti non sono in grado di stabilire con certezza quale sia la vera origine del modo di dire, sebbene oggi si predilige la variante in asso, oggi più comune, mettendo spesso fortemente in dubbio la derivazione mitologica che avrebbe dato vita a lasciare in Nasso. Una curiosità finale, oltre al già citato tedesco, è curioso vedere come anche le altre lingue esprimono lo stesso concetto. In inglese, leaving somebody in the lurch, oppure leave somebody stranded, in francese, laisser quelqu’un tomber e in spagnolo, dejar a alguien en la estacada. Mi fermo qui se no mi piantate in Nasso!

Favria,   16.08.2021 Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni mattino presto miriamo alla luna, anche se la manchiamo atterreremo tra le stelle. Felice lunedì.

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Harpa, arpa.

L’arpa, è il più antico strumento musicale a corde conosciuto. La parola “harpa” o “arpa” viene dall’antico sassone e significa “pizzicare”. Dal XIII secolo questo termine fu applicato specificamente per l’arpa triangolare in opposizione alla lira. L’antico termine gaelico per uno strumento a corde di metallo era “Cruit” e fu applicato all’arpa verso il 1200. Il termine successivo utilizzato in Scozia e in Irlanda per l’arpa “celtica” fu clarsach o cláirseach. Fonti scozzesi dei secoli XV e XVI mostrano che entrambi i termini “arpa” e “clarsach” erano in uso comunemente a quell’epoca, e sembrano indicare che ci fosse una distinzione tra le arpe in stile europeo, cordate in budello animale, e le clarsachs gaeliche, cordate in metallo. Oggi noi conosciamo le arpe gaeliche come “irlandesi”, “celtiche”, “folk”, “clarsach scozzese” o “arpe a levette”. La maggior parte delle arpe popolari sono cordate con una combinazione di nylon, metallo, budello o fibra di carbonio. L’arpa di tradizione gaelica, l’arpa irlandese,  continua ad essere cordata in ottone o in bronzo.  Bisogna dire che nessuno sa realmente dove l’arpa ebbe origine, vi sono fonti antichissime che testimoniano contemporaneamente la sua presenza in parti del mondo molto lontane tra loro, e non sapremo mai come suonavano le arpe in epoca preistorica. Una delle prime scoperte di strumenti musicali mostra uno strumento che assomiglia ad un’arpa raffigurato su pitture rupestri risalenti al 15.000 a.C. in Francia. Si pensa che le prime arpe derivino dall’arco da caccia, infatti la corda tesa tra i due estremi dell’arco produce un suono.  In Egitto, alcune delle più antiche immagini di arpe arcuate provengono da tombe di faraoni risalenti a circa 5.000 anni fa, questi geroglifici mostrano che sono esistite molte arpe in Egitto come nella tomba del faraone egiziano Ramses III, 1198-1166 a.C. nell’Antico Egitto le arpe misuravano fino a 2 metri di altezza con 19 corde ed erano suonate stando seduti o in piedi. Le arpe erano molto popolari nell’antica Assiria e in Mesopotamia e  montavano da 12 a 15 corde ed erano simili agli strumenti arcuati suonati in Egitto circa alla stessa epoca.  Erano arpe angolari che  differiscono da quella che noi oggi chiamiamo arpa in quanto mancava il segmento anteriore, la colonna. Era suonata in posizione capovolta rispetto all’attuale orientamento dello strumento: con i piroli,  o caviglie,  sul fondo e la cassa armonica in alto.  Nell’Antica Grecia si nominamo sia le arpe che la lira. Il loro sviluppo coincide con lo progresso di scale musicali matematiche. Nel VI secolo a.C., Pitagora scoprì i rapporti numerici corrispondenti agli intervalli della scala musicale. I greci sono anche considerati gli inventori dell’arpa eolica, un’arpa suonata dal vento. L’antica  Roma non sembra aver dato una grande importanza alla musica paragonata ad altre civiltà antiche. Con il declino dell’Impero Romano, la musica sembrava essersi estinta e ci sono pochissimi riferimenti storici per mezzo millennio. Nella prima società europea dopo la caduta di Roma, impressioni di arpe-lira sono state trovate sulle monete dei Galli pre-cristiani. L’arpa e la cultura musicale, in generale, sembra poi essere scomparsa nel Medioevo. Questi secoli sono avvolti nel mistero. Dopo quei secoli di oscurità nelle fonti storiche, la lira, anticipatrice dell’arpa medievale triangolare, riapparve nella civiltà europea occidentale. Nel IV secolo d.C., nel culto della Chiesa venivano utilizzati tipi di canti monastici anteriori ai canti gregoriani. L’arpa diventò lo strumento preferito per accompagnare le voci dei monaci, diventando così uno dei pochi strumenti consentiti nella Chiesa antica, dove corno, tamburo e sonagli erano considerati strumenti del diavolo. Nel corso del V secolo, la Scuola di Musica papale fu fondata in Irlanda, dove veniva insegnata l’arpa-lira. Probabilmentel’Irlanda fu la prima ad adottarla facendone poi un simbolo nazionale anche se la Scozia e il Galles ne rivendicano la priorità. Durante tutto il Medio Evo, l’arpa ebbe grande favore, era considerata uno strumento aristocratico, suonato nelle corti davanti ai re per accompagnare canti e danze e fu utilizzata da menestrelli e chansonniers, i quali, per guadagnarsi da vivere, si spostavano da una città all’altra con piccole arpe con le quali accompagnavano il loro canto che trattava di storie e raccontava notizie. Ci furono poi trovatori e trovieri in Francia, Minnesanger in Germania, cantori girovaghi in Irlanda. Le arpe erano abbastanza piccole da essere tenute in braccio dal suonatore. Avevano da 7 a 25 corde in metallo, o di budello, e avevano una stretta cassa di risonanza. Nel quattrocento comun quel’arpa fu soppiantata dal liuto e andò gradualmente in disuso fino all’inizio del XVIII secolo. Lo strumento subì molte trasformazioni nel corso dei secoli. Oltre al fatto che, come già ricordato, la forma triangolare dello strumento con colonna, entrò stabilmente in uso dal IX secolo, già dall’XI o XII secolo il lato superiore dell’arpa, modiglione, inizia ad assumere un’elegante curvatura a collo di cigno, che oggi chiamiamo curva armonica, che permetteva un migliore rapporto tra la lunghezza della corda e la sua tensione in funzione dell’altezza del suono da produrre. Dal XIV secolo le dimensioni dello strumento, arpa gotica, diventano più grandi e sono montate mediamente da 26 a 30 corde di budello. Aveva una cassa armonica piuttosto stretta generalmente scavata da una tavola di legno. Si trattava sempre di un’arpa diatonica e cioè era in grado si suonare solo sette note naturali per ogni scala, come le note dei soli tasti bianchi del pianoforte. In Italia era diffuso, dal 1580 circa, uno strumento, proveniente dall’Irlanda, chiamato arpa doppia, che aveva 58 corde disposte su due file, ordini,  di corde che permettevano così di suonare tutti i gradi della scala cromatica. Non si conoscono musiche per arpa di quel tempo. Solo nel Cinquecento in Italia e in Spagna compaiono i primi esempi di musica scritta per arpa. Il primo fu Claudio Monteverdi, che nel 1607 con l’opera Orfeo, l’utilizzò razionalmente e in funzione della tecnica particolare le dedicò un ruolo solistico per simboleggiare la lira suonata da Orfeo. Poi venne utilizzata da  Christoph Willibald Gluck nell’opera Orfeo ed Euridice.All’inizio del XVIII secolo,Jacob Hochbruker, un liutaio tedesco, ebbe l’idea di modificare la tensione di ogni corda dell’arpa mediante comandi dati a mezzo di pedali. Questi erano collegati a tiranti passanti attraverso la colonna e terminanti con una serie di piccoli ganci ai quali erano attaccate le singole corde. Agendo sui pedali si modificava ciascuna corda di una lunghezza pari a un semitono, e quindi si poteva quindi evitare la seconda fila di corde dell’arpa doppia. Lo strumento fu poi perfezionato dai francesi Georges e Jacques Cousineau. Per questo strumento W.A.. Mozart scrisse nel 1778 il Doppio Concerto per flauto e arpa K299.Verso la fine del ‘700 nacque quindi la versione moderna dell’arpa. Difatti nel 1786 Sébastien Erard sostituì il sistema dei gancetti con delle forcelle montate su piccoli dischi di metallo che potevano ruotare mettendo così la corda più o meno in tensione. Nel 1801 furono costruite le prime arpe a doppio movimentoin cui le corde potevano essere innalzate due volte da un doppio movimento dei pedali corrispondenti. Questi strumenti sono oggi conosciuti in occidente come “arpa Erard”. L’arpa Erard ha 46 -47 corde per un’estensione di sei ottave e mezza che è la più ampia di tutti gli strumenti dell’orchestra. Lo strumento tuttavia è ancora diatonico avente cioè sette corde e quindi sette note per ogni ottava  Le corde del registro acuto sono di budello o di nylon, quelle del registro medio sono di seta ricoperta di acciaio mentre quelle nel registro grave sono di acciaio. L’elevato numero di corde rende difficile l’accordatura e l’individuazione della nota attribuita a ciascuna corda w pwe questo motivo tutte le corde della nota DO, non ricoperte di filo metallico, sono rosse mentre quelle di Fa sono blue le rimanenti bianche. Pensate che l’arpa Erard da concerto è costituita da più di 1.4000 pezzi. Esiste un modello di arpa di tipo cromatico, arpa di Pleyel, che non ha bisogno di pedali avendo però montate dodici corde per ottava e questo comporta evidentemente una diversa tecnica per suonare lo strumento. Ritengo bellissimo il suono dell’arpa, dolce ma non flebile, per nulla meccanico e anzi vago, risonante, poetico e di grande delicatezza e per questo molti compositori le hanno dedicato delle partiture con una straordinaria forza espressiva. Vedere suonare l’arpa, l’arpeggio, successione più o meno veloce di una serie di note ordinatamente dalla più grave alla più acuta o viceversa posso dire che è un grandissimo esercizio di agilità con entrambe le mani. In conclusione posso consigliare tra i numerossimi concerti per arpa e suo utilizzo: J. Rodrigo: Cocierto de Aranjuez, versione per arpa, questa composizione è una pietra miliare tra le composizioni per chitarra. Poi l’usignolo, la più popolare composizione del russo Aleksandr Alyabiev, anche Alabiev o Alableff, questa canzone intitolata l’Usignolo è basata su una poesia di Anton Delvig, scritta mentre si trovava in prigione nel 1825. Il brano divenne famoso quando l’aria fu introdotta da alcuni soprani  nella scena del Il Barbiere di Siviglia di G. Rossini quando Rosina prende lezioni di canto. Interludio,Tempo, C. Debussy nella Danse sacrée e Danse profane per arpa e orchestra d’archi, e molti sarebbero da citare per la bellezza dell’animo nell’ascoltare questo bel strumento musicale e solo così potete capire perché una volta i suonatori di arpa erana tenuti in grande considerazione nelle corti reali

Favria, 17.08.2021  Giorgio Cortese

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Buona giornata. Ogni il nostro animo è simile ad una arpa e sta a noi  trarne dolce musica oppure suoni confusi. Felice martedì.

Dannebrog!

La bandiera  danese è un po’ la madre di altre bandiere adottata successivamente anche da  Svezia, Norvegia,  Finlandia e  Islanda. Questa volta una croce bianca in campo rosso, leggermente spostata verso l’asta che  richiama la storia medioevale, che la fa risalire agli stendardi dei crociati.  Secondo la tradizione antica però la bandiera sarebbe di origine divina, sarebbe infatti caduta dal cielo durante la battaglia di Lyndanisse nel 1219,  dove oggi sorge la città di Tallinn capitale dell’Estonia. Il nome della capitale estone potrebbe così derivare da talu linna,  città/castello del fattore, o da taani-linna, città/castello danese, oppure ancora da talve linna, città/castello d’inverno. Nomi storici della città sono stati Koluvan, Lindanise, Lindanisa,  Reval, Revalia e Reveln.  Prima di questa  battaglia, secondo la tradizione, il re Valdemar II, che era a capo dei crociati danesi ebbe una visione. Vide una croce bianca nel cielo, che interpretò come un segno divino. Per lui non c’erano dubbi era un presagio che stava a significare che avrebbe dovuto attaccare gli estoni. Il colore rosso della bandiera danese sta a significare il sangue versato in quella battaglia, ma al tempo stesso il cielo sul quale si stagliò la croce. Questa la leggenda, ma gli storici,  che sono molto più pratici,  la collegano più semplicemente agli stendardi dei crociati medievali.  La bandiera danese si chiama Dannebrog, panno danese. In teressante è anche l’inno danese dal titolo” C’è una splendida terra, ma se la famiglia reale è presente, viene usato un altro inno, Kong Christian stod ved højen mast. Il testo fu scritto nel 1819 da Adam Oehlenschläger, che partecipò ad un concorso per la realizzazione di un inno nazionale sul motto di Orazio “ Ille terrarum mihi praeter omnes angulus ridet”.

Favria, 18.08.2021 Giorgio Cortese

Buona giornata. Il mattino presto è l’attimo in cui il tempo si ferma, rimane sospeso ad accogliere la meraviglia di una nuova vita, di una nuova idea, di un nuovo sogno.

Felice  mercoledì.

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La disumanità del dio denaro!

Personalmente mi sono sentito un pugno allo stomaco quando ho appreso e visto le prime immagini della cabina bianca e rossa, rotta a terra e aperta come una scatoletta di latta. Mi viene subito da pensare, ma è incredibile morire così e poi rifletto sull’umana fragilità . Questo evento non lo chiamerei disgrazia ma poi seguendo le notizie emerge la disumanità immolata al dio denaro. Non è possibile che la fune trainante, acciaio più grosso d’ un braccio d’uomo, si sia spezzata dal colpo del feroce schiocco di frusta dovuto allo scivolare senza freni della ormai incontrollata funivia. Nella mia mente provo ad immaginare le emozioni di terrore e disperazione delle persone in quei lunghi secondi prima dell’impatto, il loro stringersi ed abbracciarsi vicino per cercare inutilmente di proteggersi. Ma allora che cosa è la nostra vita, un filo di corda e se lungo o corto non dipende da noi, qualcuno dice da Dio altri dal fato, quello che è certo che il traguardo, non è mai scontato! La vita è un filo che stringiamo nella mano, lo uniamo alle vite che amiamo, ma non lo vediamo. La vita è un filo resistente alle intemperie e ci sorregge nei momenti di sofferenza e a volte si spezza ed io nel mio limitato ragionamento non sono in grado di capire il perché! La vita è un filo a cui dobbiamo  badare col massimo rispetto e con premura, è un filo sottilissimo da amare con tanta tenerezza e tanta cura. Nella vita gli esseri umani sbagliano, e persino l’acciaio soffre l’usura, pare che venga chiamata fatica del metallo, ma c’era altra stanchezza in quell’insieme di fili di metallo che componevano quella fune. C’era la disumana stanchezza di immolare delle vite umane al dio denaro. Pare che i freni non erano attivati come dovevano perché  la funivia si sarebbe dovuta fermare per alme  altre settimane, con la perdita di incassi, dopo circa più di un anno che non incassavano nulla. Non voglio giustificare l’abominio dello squallido  gesto che denota mancanza di rispetto degli esseri umani,  ma la pandemia oltre a fare uscire negli animi di molte persone gli aspetti migliori in altre ha messo a nudo ragionamenti abbietti di totale non rispetto per le persone, animali e del creato che ci circonda. Per soldi e per farne sempre di più si omettono i controlli, si inquina con faldi concimi che poi si rilevano prodotti altamente tossici e si disprezzo gli animali, e  di deficienti che sparano ai cani e gatti ogni tanto si leggono nei giornali. Oggi mancano il Rispetto verso gli esseri umani e l’ambiente che ci circonda e la Riconoscenza per ha lavorato prima di noi per lasciarci questa società. Qui non è più un problema di quale idea politica uno sia simpatizzante ma  il non vedere che mancano sempre di più di Valori fondanti della nostra società. Il mondo perfetto mi direte che non esiste è che solo una bella Utopia. Ma ricordatevi che la parola Utopia serviva da due parole greche non e luogo, coniata da Tommaso Moro e simile alla parola eutopia, bene e luogo, ed in inglese hanno la stessa pronuncia e l’eutopia è un buon luogo che dobbiamo tendere tutti per non lasciarci sopraffare dal dio denaro e dalla personale cupidigia. Io ci credo sono ottimista e voi? Perché Il filo della vita non deve essere spezzato da turpi comportamenti.

Favria, 19.08.2021 Giorgio Cortese

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Buona giornata. Nella vita quotidiana ogni cosa ha un prezzo, ma non tutto ha un valore. Felice giovedì.

I valori degli antichi greci sempre attuali

Stiamo vivendo tempi strani, e non solo per le ragioni che sappiamo. Di recente ho visto una fotografia su internet  dove pensavo che fossero con quei elmi  gli di antichi opliti spartani! Ma non erano opliti  spartani, ma manifestanti di che portavano elmi in stile greco antico e scudi che imitavano quelli spartani e che protestavano a Sydney.  Nel mondo di oggi, tra i gruppi di protesta di destra va di moda esprimere le idee politiche attraverso slogan laconici del militarismo dell’antica Sparta, combattereno all’ombra e vieni a prenderle pare che queste siano le famose frasi dette dai trecento spartiati alle Termopoli di dronte all’imponente esercito persiano dell’arrogante Serse.  Il greco antico a volte risulta  lontano e misterioso, e perfino estraneo, ma poi senza rendercene conto evochiamo tante parole che sono di origine greca passata in italiano dal latino, che al contrario, appare assai più collegato alle nostre vite, come un parente ineludibile. Tanto per iniziare è scritto nel nostro stesso alfabeto; e poi, anche quando non lo capiamo, ci sembra di capirlo, perché il suo lessico è genitore del nostro, e anche se forme e significati non corrispondono più a quelli attuali, resta un’illusione di continuità e di appartenenza. Oggi la nostra società è legata da un filo che ci collega al mondo grecoromano e permea ancora oggi la nostra vita culturale, nel bene e nel male. La storia del greco fin da Omero, è caratterizzata da un vero e proprio culto della parola, di cui sono testimonianza le più varie forme letterarie. Con la parola si cercano la verità e il senso delle cose, e la verità e il senso delle cose possono coincidere con l’esercizio stesso della parola. E tale ricerca procede con la coscienza che la verità sfugga o si travesta o non si lasci afferrare, e che la lingua umana sia sempre esposta al rischio di diffondere rappresentazioni fallaci e, dunque, debba sempre vigilare sui propri meccanismi per il bene comune. Il greco antico non è solo una lingua, ma   pensiero, immaginazione e  vita. Il greco si rivela nei personaggi umani e divini, politica, miti, luoghi, valori morali, concezioni estetiche, emozioni, sentimenti. E poi si porta tutta l’ambiguità delle cose antiche, i cui messaggi si offrono e si sottraggono a un tempo pur con le difficoltà dell’espressione, la ricercatezza del dire, la straripante abbondanza lessicale, che le nostre moderne traduzioni non renderanno mai perfettamente. Quando  parliamo del greco antico parliamo con l’immagine del pensiero dei nostri inizi. L’anima del greco è comparativa, guarda all’altro,  comincia con i troiani, per arrivare a definire attraverso antitesi, simmetrie, parallelismi, comparazioni gli Achei. Ricerca e rappresenta il dibattito, la lite, la gara – giudiziaria, sportiva, militare, oratoria, ma anche sull’amicizia e lo scambio generoso. A questa tendenza al confronto contribuiscono indubbiamente le condizioni geo-politiche della nazione. I greci si considerano un solo popolo, ma si sentono e sono divisi. Quando parliamo di loro, non intendiamo uno Stato unitario, ma evochiamo un insieme di città, varie centinaia, che si governano ciascuna in modo indipendente dove troviamo monarchie, oligarchie, tirannie, democrazie, e queste tentano continuamente di venire a patti le une con le altre attraverso la diplomazia e attraverso la guerra, amministrando alleanze, tregue, influenze reciproche, anche di fronte alla costante minaccia di ingerenze straniere, come quella persiana, prima, e quella macedone, poi. I greci hanno saputo trasformare la divisione in occasioni critiche, che sono certamente il loro lascito più vitale e più positivo. Impariamo da loro: a parlare confrontando, a riconoscere le differenze e le somiglianze, lo specifico e il generale, e a riportare le sfumature nell’incolore della comunicazione mediatica e il senso di un altrove nel deserto della cosiddetta globalizzazione.  Abbiamo bisogno di ridare ai nostri linguaggi visione e consapevolezza; di ridare peso civile o, per dirla con un vocabolo d’origine greca, politico a quello che pensiamo e diciamo. I discorsi, anche i più privati, si svuotano e perdono significato quando smettono di misurarsi con un’idea di mondo. Oggi pensiamo che il fatto che nell’Antica Grecia gli ateniesi avessero ideato per primi una forma di democrazia spieghi in parte la superiorità culturale che permise loro di costruire il Partenone e molto altro. È vero che Atene era probabilmente la società antica in cui i cittadini erano maggiormente tenuti in considerazione, ma va anche detto che lo standard del coinvolgimento sociale non era molto alto ai loro tempi. Ad Atene il diritto di partecipare alla politica era strettamente limitato agli uomini. Inoltre gli ateniesi usavano gli schiavi, e al culmine del loro potere erano un popolo imperialista. Usavano le loro galee da guerra per dominare altre comunità, greche e non greche. I popoli dominati dovevano pagare un tributo annuale, una sorta di tassa di protezione. Come mostrano le loro iscrizioni, gli ateniesi si sentirono liberi di usare questo tributo per finanziare il Partenone. In questo senso, i marmi sono il frutto di un imperialismo e colonialismo antico, oltre che moderno. I valori umani degli antichi Greci possono a volte sembrarci opachi. Ma i Greci sono ancora importanti per una gran varietà di persone: nel bene e nel male, ci giova pensare con loro. La loro civiltà gode ancora nel mondo di oggi di tale prestigio che la gente la usa per convalidare opinioni e credenze; e in un mondo richiuso su sé stesso dalla tragedia del Covid, non è di poca importanza che forniscano anche puro e semplice intrattenimento.

Favria,  20.08.2021  Giorgio Cortese

L’emergenza sangue non va mai in vacanza, prima di partire Ti aspettiamo a Favria MERCOLEDI’ 25 AGOSTO  2021 cortile interno del Comune dalle ore 8 alle ore 11,20. Abbiamo bisogno anche di Te. Donate il sangue, donate la vita! Attenzione, per evitare assembramenti è necessario sempre prenotare la vostra donazione. Portate sempre dietro documento identità. a Grazie per la vostra collaborazione. Cell.  3331714827- grazie se fate passa parola e divulgate il messaggio

Buona giornata. Che strano, quando ci manca qualcuno la chiamiamo solitudine, quando non ci manca nessuno la chiamiamo libertà. Felice venerdì.

J come Juventus!

Oggi parlo della Juventus o meglio della Juve, come viene chiamata dai suoi tifosi, la  squadra che ha vinto di più in Italia e che ha più tifosi, che detiene il doppio primato di essere la amata ma anche la più odiata. La Juventus è stata fondata nel 1897 da un gruppo di studenti del liceo classico Massimo d’Azeglio di Torino. Il primo presidente fu Eugenio Cnafari che era tra i soci fondatori insieme al fratello Enrico. La leggenda mista a storia narra che la fondazione dell’allora Sport-Club Juventus  avvenne su una panchina la cui riproduzione è ancora oggi conservata allo Juventus Museum. Nel 1900, con il nome di Foot-Ball Club Juventus, la società si iscrisse al suo primo campionato italiano. Cinque anni più tardi vinse il primo scudetto, era il lontano 1905. Dal 1897, anno della fondazione del club bianconero, fino a oggi, il simbolo della Juventus ha cambiato più volte aspetto. La divisa della squadra, infatti, era inizialmente rosa con cravatta o papillon nero e pantaloncini neri, rosa e nero erano  i colori sociali del liceo Massimo D’Azeglio, poi nel 1903  passa alla  casacca a strisce dopo aver acquistato uno stock di magliette dall’Inghilterra su consiglio di John Savage, il primo calciatore straniero della storia bianconera. Savage aveva chiesto ad un amico di Nottingham di spedirgli un kit di divise del Nottingham Forest, l’amico di Savage era un fan del Notts County e inviò le divise della sua squadra del cuore, dal quel giorno ebbe inizio la storia bianconera della vecchia signora d’Italia. Il primo degli stemmi della Juventus risale al 1905, anno in cui il club cambiò anche i suoi colori originari che erano rosa e nero in quelli che conosciamo oggi, ossia bianco e nero. Questo primo simbolo juventino era ovviamente bicromo e presentava intorno gli svolazzi bianchi ispirati allo scudo della città di Torino del XIX secolo, contenente all’interno l’immagine del toro rampante. In alto, sopra a questo scudo, c’era un nastro bianco con su scritta una frase risalente al I secolo e attribuita al teologo cristiano Paolo di Tarso: “Non coronabitur nisi legitime certaverit”, che significa “Riceve la corona solo chi ha combattuto secondo le regole”. Nei primi anni della sua storia, il club bianconero utilizzò proprio questa frase come motto ufficiale e rappresentativo dello spirito della squadra. Nel 1921 lo stemma della Juventus subì una prima significativa modifica con l’aggiunta dei colori e l’eliminazione di altri elementi. Dal primo logo, infatti, fu prelevato solo lo scudo con le sette strisce bianconere: in questo ovale lo sfondo della parte con il nome del club, scritto a caratteri dorati, e quello della parte con il toro, divenne blu, ispirandosi al blu de Pinedo, tonalità che prese il nome da Francesco De Pinedo, aviatore che descrisse proprio come di un blu quasi elettrico il colore del cielo visto dal suo aereo.  Nel 1929  la Juventus cambia il logo con la comparsa della zebra rampante. Lo stemma tornò a essere bicromo e le strisce bianconere diventarono 9: nello scudo in alto troneggiava il nome del team, mentre sotto, appunto, comparve la zebra rivolta verso sinistra, ispirata a un’icona disegnata proprio per il club nel 1928 dal famoso vignettista Carlo Bergoglio. Questo animale fu scelto, ovviamente, per l’analogia cromatica con i colori del club: tuttavia, secondo il disegnatore “Carlin”, l’immagine della zebra in posizione rampante e rivolta verso ovest stava anche a significare “un’antica nobiltà”.  Ma nel 1931 la società decise  di tornare al modello di dieci anni prima, opportunatamente modificato. Tornarono i colori dorati della scritta, lo sfondo blu e anche il toro al posto della zebra, ma l’immagine dell’animale e della corona divennero più grandi e i caratteri utilizzati più squadrati rispetto a prima.  Nel 1940 viene di nuoco cambiato lo stemma che ritorna ai  colori originali e quindi allo stemma bicromo e con 7 strisce bianconere; la corona e il toro, invece, assunsero una tonalità grigia.  Nel 1971 la società  tornò allo sfondo blu e alle scritte dorate ma stavolta fu aggiunta una linea dorata a racchiudere lo scudo che, da ovale, assume una forma leggermente più tonda.  Ma la vera  rivoluzione nella storia della Juve e del suo stemma fu nel 1979 con la reintroduzione dell’immagine della zebra in posizione rampante abbandonando lo  scudo cittadino e di inserire il simbolo societario, realizzato come una silhouette nera, ispirata alla cosiddetta optical art e per questo intervallata da righe diagonali bianche e affiancata da due stelle dorate, ognuna delle quali indica 10 scudetti vinti.  Nel 1990 come simbolo la società decise di ritornare al simbolo della tradizione, ossia lo scudo cittadino con il toro con uno sfondo  color oro al posto del blu, mentre la scritta resta nera. Le due stelle dorate vennero spostate al di sopra dell’ovale.  Nel 2004 le stelle furono tolte, venne mantenuta la scelta bicroma e il color oro rimase solo nella curva sotto il nome, a simboleggiare l’onore del club. La scritta venne impressa in un’area bianca convessa che le conferì quasi un effetto tridimensionale. Per quanto riguarda lo scudo con il toro e la corona, vennero diminuite le dimensioni e il colore diventò nero.  Ed eccoci, scudetto dopo scudetto all’attuale stemma della Juventus è stato adottato nel 2017 ed è totalmente diverso da tutti i precedenti loghi bianconeri: non solo non è ricomparsa l’immagine della zebra, ma è stato eliminato anche lo scudo con il toro, la corona e l’ovale stesso. Il club ha deciso di optare per uno stile minimalista estremo che consente la replicabilità del simbolo su qualsiasi tipo e colore di sfondo: il logo adesso è composto semplicemente da una J mauiscola stilizzata, sormontata dalla scritta “Juventus”. La  J maiuscola riprende quella inserita nelle maglie da gioco degli anni ’40, mentre le tre righe verticali, e bianconere ovviamente, che la vanno a comporre riprendono la forma di un antico scudo francese.  Da  simbolo a simbolo dalla sua fondazione ad oggi sono stati  tanti i campioni che hanno fatto grande il nome della Juventus, una società di storia, tradizione e di stile. Infine i tifosi della Juventus vengono  chiamati gobbi e qui le versioni sono diverse. Per molti è un sinonimo di  perché squadra più vittoriosa e quindi fortunata oppure legata all’altro appellativo dei bianconeri “Vecchia Signora” quindi un po’ ingobbita dalla vecchiaia. Altre versioni contrastanti parlano di “gobbi” perché  chinati sempre a guardare dall’alto verso il basso gli sconfitti oppure perché durante  gli anni del Grande Torino, mito del calcio, erano ingobbiti ingobbiti dalle sonore batoste prese in campionato. Ma forse quella vera è che le prime maglie non aderenti al corpo usate dalla Juventus negli anni ’50, in corsa si gonfiavano sulla schiena come se si formasse una gobba. Scegliete voi la versione che più vi sembra calzante.

Favria, 21.08.2022 Giorgio Cortese

L’emergenza sangue non va mai in vacanza, prima di partire Ti aspettiamo a Favria MERCOLEDI’ 25 AGOSTO  2021 cortile interno del Comune dalle ore 8 alle ore 11,20. Abbiamo bisogno anche di Te. Donate il sangue, donate la vita! Attenzione, per evitare assembramenti è necessario sempre prenotare la vostra donazione. Portate sempre dietro documento identità. a Grazie per la vostra collaborazione. Cell.  3331714827- grazie se fate passa parola e divulgate il messaggio

Buona giornata. Quando riesco a scorgere un sorriso in tutto ciò che mi circonda, allora mi sembra di aver compreso il senso della vita. Felice sabato.

Zefiro.

Nei primi anni del Duecento, il matematico pisano Leonardo Fibonacci si trovò davanti al problema di tradurre per la prima volta a un pubblico occidentale la parola che indicava il numero zero. L’opera che stava scrivendo era il Liber abaci, un trattato di aritmetica e algebra che doveva rivoluzionare per sempre la storia della scienza e la ricezione di quanto era stato scoperto nei secoli precedenti, più a est, nel Medio Oriente e in India. In arabo, zero è detto infatti sifr e, cercando una parola latina adatta allo scopo, Fibonacci scelse, per assonanza, quella che indicava un vento. Decise quindi per il nome di Zefiro: un venticello leggero, impalpabile come un numero sconosciuto che indica il vuoto e di cui è difficile stabilire con certezza la provenienza, che spira nei pomeriggi che nella nostra latitudine vengono descritti dall’omonima rosa, indicano lo Zefiro come un vento di Nord Nord Ovest. Ma è stato anche identificato come il ponente: i romani lo chiamavano spesso Favonio, da cui il tedesco Föhn, ma nella tradizione classica inaugurata da Omero ed Esiodo lo Zefiro è il vento dell’Ovest, uno dei quattro venti cardinali insieme a Borea, Noto ed Euro. Nella mitologia greca Zefiro fu invece figlio di Astreo, titano del cielo notturno, e di Eos, la dea dell’alba. Raffigurato come un giovane alato, alla stregua di Eros, tra i miti che lo vedono coinvolto spicca quello che riguarda il giovinetto spartano Giacinto, ammirato anche da Apollo. Zefiro, geloso nel vederli giocare insieme, fece deviare con i suoi venti la traiettoria di un disco; uccise così il giovane, che venne trasformato da Apollo nel fiore primaverili, che assomiglia a un niente e che nasconde però un grande potere e insospettabili origini gloriose. Tracciare la biografia di un vento, così come di una divinità, nei popoli antichi era opinione che è il vento era l’attributo degli dei,  equivale a cercare di dare contorno a qualcosa che non è possibile identificare con precisione ma che nei secoli è stato cantato e descritto in molti modi diversi. L’associazione più comune di Zefiro è con la primavera: “Già riede primavera/ Col suo fiorito aspetto;/ già il grato zeffiretto/ scherza fra l’erbe e i fiori”, scrive Metastasio nel 1719. Anche se lo zefiretto scherza il suo soffio può diventare bizzoso, pieno di significati nascosti. Tradizionalmente la sua compagna fu infatti Clori, ninfa della primavera e dei fiori, rapita dal dio. Nella Primaveradi Botticelli sulla sinistra viene raffigurato il vento che cinge con le braccia la ninfa e che, attraverso il fuoco dell’amore carnale su cui soffia l’alito fecondo di Zefiro, rinasce come Flora, al centro del dipinto, trasfigurata. La stessa coppia è stata riconosciuta nell’altro celebre dipinto botticelliano, La nascita di Venere, dove il soffio creatore di Zefiro, abbracciato alla ninfa, sospinge la conchiglia su cui sta ritta la dea. Dall’unione con Clori nasce Carpo, il frutto. Da quella con l’arpia Celeno, o con sua sorella Podarge, nascono i cavalli vaticinanti di Achille, dono di nozze di Poseidone al padre Peleo, Balio e Xanto, che trascinarono attorno alle mura di Ilio il corpo martoriato di Ettore. Zefiro soffiò spesso, attraversandola, su molta letteratura e arte occidentali. Lo citano Virgilio e Lucrezio, lo usa Dante nel XII canto del Paradiso per indicare la provenienza occidentale di San Domenico: «In quella parte ove surge ad aprire/ Zefiro dolce le novelle fronde/ di che si vede Europa rivestire». Un vento associato al tramonto della Luna per Leopardi, che spira dove il Sole scompare: «Quale in notte solinga,/ sovra campagne inargentate ed acque,/ là ’ve zefiro aleggia », nel canto in cui il poeta recanatese associa l’inabissarsi dell’astro d’argento a quello della giovinezza. Anche la librettistica d’opera non si sottrasse agli scompigli di Zefiro: ne La sonnambula, uno dei capolavori di Bellini su libretto di Felice Romani, compare il duetto Son geloso del Zefiro errante, dove Elvino è spaventato dalla galanteria del conte Rodolfo. Ma Amina lo tranquillizza: “Son, mio bene, del zefiro amante,/ Perché ad esso tuo nome confido”. Zefiro diventa quindi il vento per antonomasia che porta con sé i sensi che si svegliano dopo i rigori dell’inverno, ma anche la gelosia e la passione degli amanti, spirando fino a oggi, mostrando le possibilità e le speranze di ogni primavera. Non è forse un caso che una serie di treni d’America, tra cui il California Zephyr, che taglia gli Stati Uniti longitudinalmente, porti questo nome. Scrisse Jack Kerouac, raccontando del viaggio verso Big Sur: “Sono arrivato in incognito a San Francisco dalla casa di Long Island viaggiando per tremila miglia in un gradevole scompartimento del treno California Zephyr da cui vedo l’America scorrere sullo schermo privato del mio finestrino, veramente felice per la prima volta in tre anni”.

Favria, 22.08.2021   Giorgio Cortese

Buona giornata. La presunzione gonfia certe persone come il vento prova a gonfiare dei vasi vuoti. Felice domenica.

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Passare la notte in bianco

Questo modo di dire è uno tra i più diffusi perché a molte persone capita di passare la notte in bianco, insomma di non dormire: ma perché si dice “in bianco”? L’origine deriva da un’usanza che riguardava nel medioevo gli uomini che stavano per diventare cavalieri: la notte prima dell’investitura e della consegna delle armi venivano fatti vestire di bianco e dovevano passare la notte in una chiesa, in preghiera, a riflettere su come sarebbe cambiata la loro vita: il vestito bianco e il fatto di non dormire hanno dato origine all’espressione “passare la notte in bianco”.

Favria, 23.08.2021  Giorgio Cortese

L’emergenza sangue non va mai in vacanza, prima di partire Ti aspettiamo a Favria MERCOLEDI’ 25 AGOSTO  2021 cortile interno del Comune dalle ore 8 alle ore 11,20. Abbiamo bisogno anche di Te. Donate il sangue, donate la vita! Attenzione, per evitare assembramenti è necessario sempre prenotare la vostra donazione. Portate sempre dietro documento identità. a Grazie per la vostra collaborazione. Cell.  3331714827- grazie se fate passa parola e divulgate il messaggio

Buona giornata. Ci sono due regole nella vita: 1. Non mollare mai; 2. Non dimenticare mai la regola n° 1. Felice  lunedì.