L’epico assalto! -Donazioni Fidas zona 2 Canavese mese di settembre. -Il nuovo emirato e il boté degli Usa ed alleati! -1795/1797 Tricolore italiano ed inno polacco. -Darsi all’ippica -Il sarto della città felice, fiaba araba. – Geranos, danza della gru…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

L’epico assalto!
Il 24 agosto del 1942, a Isbuscenskij una piccola località in un’ansa del Don, il

colonnello Bettoni Cazzago, comandante del reggimento “Savoia” cavalleria ordinò ai suoi 600 cavalieri di sguainare le spade e attaccare tre agguerriti battaglioni siberiani composti da circa 2.500 uomini. L’episodio viene spesso ricordato come l’ultima carica di cavalleria condotta da unità del Regio Esercito, in realtà l’ultima carica in assoluto, avvenne pochi mesi dopo e precisamente il 17 ottobre 1942 a Poloj, in Croazia, dove il Reggimento “Cavalleggeri di Alessandria” caricò un gruppo di partigiani iugoslavi. Quel giorno cadeva il 250° compleanno del Reggimento, la cui gloriosa storia era iniziata nel lontano 1692, quando Vittorio Amedeo II, duca di Savoia, aveva creato due reggimenti, diventati poi cinque, di soldati a cavallo. In passato il reparto si era distinto nel corso della Prima guerra mondiale, prima a Gorizia nel 1916 e successivamente nell’agosto del 1917, dopo la sconfitta di Caporetto. L’antefatto dello scontro avvenne a  metà agosto del 1942 quando le forze dell’Asse lanciarono una massiccia offensiva sul fronte orientale avanzando fino a Stalingrado e verso il  Caucaso. I reparti italiani inquadrato nell’ARMIR, Armata Italiana in Russia, venne affidato il compito di difendere l’ala sinistra dello schieramento dell’Asse, attestandosi a presidio dell’area del Don. Tra queste unità si trovava anche il Savoia cavalleria schierato come riserva dell’armata.  Una massiccia controffensiva sovietica scattò improvvisamente il 20 agosto: i russi passarono il Don e sfondarono il tratto di fronte. Il raggruppamento truppe a cavallo ricevette quindi l’ordine di contenere l’avanzata nemica, per prendere sul fianco le truppe sovietiche.  Alle prime  prime luci dell’alba del 24 agosto 1942  il Reggimento “Savoia Cavalleria”, con un organico di 700 cavalieri, che aveva bivaccato in mezzo alla steppa,  in quadrato, protetto dagli obici delle  “Voloire”, si preparava a riprendere la marcia verso un anonimo punto trigonometrico sulle sponde del Don, la quota 213,5 m. Durante la notte tre battaglioni dell’812º Reggimento di fanteria siberiano, composto da circa 2.500 soldati, si erano portati a circa un chilometro dall’accampamento e si erano trincerati in buche fra i girasoli, formando un ampio semi-cerchio da nord-ovest a nord-est, e attendevano l’alba per attaccare le truppe italiane. Una pattuglia del Savoia cavalleria inviata in avanscoperta, un componente della pattuglia quasi per caso notò un soldato appostato tra i girasoli, pensando fossero alleati tedeschi, lo chiamò e questi, girandosi verso di loro, mostrò la stella rossa sovietica sull’elmetto, svelando l’identità nemica. Al primo colpo della pattuglia italiana contro di loro – sparato dal cavaliere siciliano Petroso, che centrò il russo sotto il filo dell’elmetto – i sovietici risposero con un rabbioso fuoco di mortai e mitragliatrici che investì il quadrato italiano. Gli obici delle batterie a cavallo, risposero subito al fuoco, e la pronta reazione spinse i sovietici ad arretrare il loro schieramento, troppo vicino alle linee italiane. Accortosi della manovra sovietica, il comandante del “Savoia” colonnello Bettoni Cazzago ordinò: “Caricat!”. “Savoia!”, risposero, urlando, gli uomini dello squadrone già lanciati verso la folle carica sulle postazioni russe. Il secondo Squadrone, dopo aver effettuato un’ampia conversione, caricò a ranghi serrati e sciabole sguainate il nemico, lanciando anche raffiche di mitragliatrice e bombe a mano. I sovietici, completamente colti di sorpresa, vennero scompaginati e ripiegarono in disordine. Rimasto isolato dietro la linea nemica, il secondo Squadrone compiva quindi una seconda carica per rientrare nelle sue linee, aumentando così la confusione nello schieramento sovietico. I russi, in buona parte, si sbandarono, ma comunque ancora tennero il terreno e provocarono sensibili perdite fra le file dei cavalieri italiani. In quel momento il comandante del Reggimento fece appiedare il quarto Squadrone, e lo inviò a impegnare frontalmente il nemico, per alleggerire la pressione sul secondo Squadrone montato. La manovra ebbe momentaneo successo e nonostante i russi fossero, in buona parte, quasi allo sbando, alcuni nuclei reggevano ancora a quel punto. Il colonnello Bettoni ordinò la carica anche al terzo Squadrone. L’attacco fu violentissimo, lo squadrone irruppe sul campo di battaglia nel mezzo del fronte sovietico, che intensificava la reazione.  Molti sovietici alzavano le mani, altri fuggivano, altri ancora tentavano una difesa disperata. Era fatta. Uomini a cavallo avevano sconfitto altri, armati con armi ben più moderne. Il panico provocato dal terreno che vibra di fronte alla carica di uno squadrone di cavalleria e l’ardimento dei cavalieri del “Savoia” avevano portato a una vittoria insperata, incredibile. Verso le 9:30 il combattimento ebbe definitivamente termine, l’epica battaglia d’altri tempi poteva dirsi conclusa. Tra i fumi e le polveri della battaglia, tra i girasoli, sui campi ricoperti dei cadaveri di uomini e cavalli restavano i corpi senza vita di circa 250 soldati russi. Altri seicento si arresero: la metà di loro era stata ferita dalle sciabole. In tutto, il “Savoia” doveva lamentare 39 caduti, 53 feriti e più  di cento cavalli falciati dalle raffiche. Inoltre i nostri ottennero come prede di guerra 4 cannoncini, 10 mortai e una cinquantina tra mitragliatrici ed armi automatiche. Finita la dura battaglia il colonnello Bettoni, telegrafò al Re:“Il Savoia ha caricato, il Savoia ha vinto” . A Isbuschenskij venne realizzato quello che non era riuscito nel 1939 ai lancieri polacchi e agli sfortunati “Cavalleggeri di Alessandria” e si scrive la pagina migliore della storia pluricentenaria del “Savoia Cavalleria”. L’azione, coraggiosa quanto audace, portò, soprattutto, all’allentamento della pressione dell’offensiva russa sul fronte del Don e consentì il riordino delle posizioni italiane, salvando migliaia di soldati dall’accerchiamento. La carica di Isbuscenskij ebbe subito una vasta eco, in Italia suscitò vero e proprio entusiasmo, con articoli sulla stampa ed ampie cronache nei cinegiornali Luce; l’azione venne ampiamente sfruttata e ingigantita dalla propaganda del regime, anche se dal punto di vista militare fu un episodio di ridotta importanza.  a merita di essere commentato il giudizio finale dell’articolo: “Gli ufficiali tedeschi si congratularono con il colonnello Alessandro Bettoni, comandante del Savoia Cavalleria, dicendo: ‘Noi queste cose non le sappiamo più fare’. Un riconoscimento del valore dei soldati, ma anche dell’arretratezza delle tecniche militari italiane, quando ormai si era alla vigilia della guerra atomica”. La retorica dell’antiretorica, con la favoletta degli italiani arretrati perché usavano la cavalleria. Questo capita a chi crede che la Seconda Guerra Mondiale sia stata come nei film di guerra, fatta solo di carri armati e meccanizzazione. E così non era, sul fronte orientale la cavalleria fu ampiamente impiegata da rumeni, ungheresi, sovietici  che nel 1940 disponevano di 21milioni di cavalli. Infine a lanciare le atomiche furono gli USA, che disponevano nel 1940 di 14 milioni di cavalli, la cui ultima carica di cavalleria contro i giapponesi fu quella del 26th Cavalry Regiment a Luzon nel giugno 1942, due mesi soltanto prima di Isbushenskij, mentre l’ultima grande azione di cavalleria fu l’avanzata delle divisioni di cavalleria del generale Issa Piliev, una sovietica e quattro mongole, in Manciuria nell’agosto 1945, dopo le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki.
Favria, 24.08.2021  Giorgio Cortese

Buona giornata. Al nostro respiro a volte diamo importanza solo quando sentiamo che ci manca. Felice martedì!

Donazioni Fidas zona 2  Canavese mese di settembre.

Il sangue è destinato a circolare condividiamolo specialmente in questo mese. In estate occorre la stessa quantità di sacche del resto dell’anno  perché non calano i malati che necessitano di trasfusioni, non calano gli interventi chirurgici, non calano i casi di emergenza. Cala invece in modo preoccupante la disponibilità di sangue che abbiamo sempre potuto garantire grazie alle donazioni.

Locana,  giovedì 2 settembre

Feletto, domenica 5 settembre

Rivarolo C.se,  lunedì 6 settembre

Pont C.se,  sabato 11settembre

Valperga, domenica 12 settembre

Pont C.se, lunedì 13 settembre

Varisella, venerdì 15 settembre

Rivarolo C.se,  giovedì 16 settembre

Bosconero, domenica 19 settembre

Ozegna, lunedì 20 settembre

Rivarolo C.se. venerdì 24 settembre

Aglie’  331-3539783

Barbania / Front  347-9033496

Bosconero 011-9889011 e 338-7666088

Cirie’   340-7037457

Corio   348-7987945

Favria   333-1714827

Feletto  339-1417632

Forno Canavese _ 338-8946068

Levone  340-0675250

Locana  349-6623516

Lombardore / Rivarossa   333-3310893

Montanaro  377-7080944

Ozegna  334 7717626

Pont  333-8937412

Rivara  339-6339884

Rivarolo Canavese  348-9308675 e 347-4127317

San Giusto Canavese   377-1213021

Valperga / Salassa / Pertusio  347-5821598

Varisella / Vallo  333-9584743 

Favria, 25.08.2021  Giorgio Cortese

Buona giornata. La vita è sempre un  continuo sorprenderci, per gioire di una piccola o di una grande cosa, questa è la vita. Felice mercoledì

Il nuovo emirato e il boté degli Usa ed alleati!

Inizio con la precisazione che in italiano la parola emiro, dal vocabolario Treccani deriva dalla arabo amir, principe, comandante, governatore e presso gli Arabi, principe o capo, specialmente militare,  titolo tuttora portato dai sovrani di piccoli stati arabi, dalla stessa voce deriva anche il lemma ammiraglio e, da non confondere con la parola italiana miramolino, adattamento dell’arabo amir al-mu minin, emiro capo dei credenti, parola nata nel medioevo, presso i cronisti italiani, titolo dei califfi, e quindi dei sultani turchi. In Afghanistan con un’avanzata durata dieci giorni sono state ribaltate vent’anni di occupazione e di sostegno in termini umani e di tantissimi soldi per una transizione alla democrazia. Una Caporetto, se usiamo un termine italiano un deblacle Usa se pensiamo allo sacchiere internazionale dove lo stato che si crede campione della democrazia prima ha abbandonato i fedeli alleti Curdi in Siria e adesso i colaboratori afghani e non vorrei che questo accadesse anche a noi. Adesso noi scriviamo e leggiamo tantissime parole di circostanza sul destino di quelle persone, meglio donne nate nella parte sbagliata del globo. L’amara verità dopo le false parole di circostanza è che nessun  governo e nessun popolo vuol condurre una guerra senza fine o continuare a vedere i propri soldati cadere e spendere miliardi di euro in operazioni di stabilizzazione senza sapere fino a quando, dove invece della democrazia  è scresciuta una corruzione che alla fine mangia se stessa con il risultato finale che è sotto gli occhi di tutti. Il fallimento tra la recente ripresa dell’Afghanistan da parte dei taleban e gli sforzi dei Paesi occidentali impegnati nella coalizione che rovesciò il primo emirato dice molto sul paese e sugli errori commessi in due decenni da tutti. Insomma con i partiti in Europa e negli Usa a favore o contro  della presenza militare nel mondo a secondo se sono al governo o all’opposizione senza un disegno per il futuro ma navigando a naso anzi l’agire dei governanti Usa e dell’Occidenti mi pare simile ad un boté, parola sempre araba che deriva dal persiano botè,  per significare l’ennesima figuraccia e spreco di vite e soldi. Il botè in italiano, sempre dal vocabolario Treccani, significa propriamente ammasso di foglie, poi successivamente il motivo ornamentale  del tappeto orientale che troviamo in persia, caucaso, con il motivo ornamentale dove alcuni  vi riconoscono un fico, altri un fiore di palma, altri più semplicemente una decorazione astratta, questa appunto come nei pensieri di quelli che per venti anni hanno orchestrato questo fallimento, senza idee sul futuro rimanendo con un pugno di foglie.

Favria, 26.08.2021Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita certi giorni tutto sembra in bianco e nero, ma se giro le pagine della vita tutto tornerà a colorarsi. Felice giovedì

1795/1797 Tricolore italiano ed inno polacco.

Pensate che l’inno nazionale polacco fu composto a Reggio Emilia da Jozef Wybicki la  mattina del 30 giugno 1797,  cinque mesi dopo la proclamazione del Tricolore quale bandiera della neonata Repubblica Cispadana,  circa 800 soldati di fanteria entrano a Reggio Emilia da porta San Pietro, seguiti, due giorni dopo, da altri settecento soldati.  Sono tutti polacchi al seguito delle truppe napoleoniche, e sulle loro bandiere dai colori francesi campeggia il motto “tutti gli uomini liberi sono fratelli”. La loro presenza a Reggio si era resa necessaria per sedare alcune sommosse fomentate dagli aristocratici contro il nuovo potere repubblicano. I reparti polacchi sono guidati dal generale Jan Henryk Dabrowski, che, pochi mesi prima, da Parigi, dove si trovava in esilio, aveva lanciato un appello ai suoi connazionali dispersi per l’Europa affinchè si arruolassero nell’armata napoleonica e combattessero per i comuni ideali di libertà. Fra gli ufficiali dello Stato Maggiore del generale Dabrowski presenti a Reggio, alloggiati presso il palazzo vescovile, anche il tenente di cavalleria Jozef Wybicki il quale, ispirato dal clima eroico del momento, compone una mazurka che esalta i valori della patria lontana: “Jeszcze Polska nie zginela”, canto delle legioni polacche. La composizione, dedicata a Dabrowski, fu eseguita per la prima volta, in forma di serenata, nella notte tra il 10 e l’11 luglio 1797. La musica è trascinante, esaltante, al punto che, pur rimanendo per i polacchi un canto patriottico fondamentale, nel 1834 il poeta slovacco Samo Tomasik vi inserì un nuovo testo, Hej slovani, Ehi, slavi,  che si diffuse in tutte le nazioni slave con varie traduzioni, divenendo di fatto un inno panslavo, e anche l’inno nazionale jugoslavo dal 1943 al 2006. Il canto è stato ufficialmente adottato dalla Polonia come inno nazionale nel 1926. Si tratta di un inno dal testo semplice e fortemente patriottico, una chiamata alle armi come già nella Marsigliese e  più tardi, ad esempio, nell’ inno di Mameli, rispetto all’inno francese esso però risulta meno cupo, forse più incentrato su un sentimento di speranza e sulle aspettative di libertà, piuttosto che su immagini crude e visioni evocatrici di violenze.  L’inno inizia con le parole: “La Polonia non è ancora scomparsa” e si riferisce alla spartizione della nazione nel 795, tra  le tre potenze circostanti, mentre nel ritornello i militari incitano il loro generale a guidarli al più presto verso la Patria “In marcia, Dąbrowski, dalla terra italiana alla Polonia”. Questa citazione dell’Italia è interessante, perché nella quinta strofa dell’inno italiano si cita la Polonia: “già il sangue d’Italia e il sangue polacco beve  col cosacco ma il cor le bruciò”. Il caso, la doppia citazione Italia-Polonia nei rispettivi inni è unico al mondo.

Favria, 27.08.2021  Giorgio Cortese

Buona giornata. C’è sempre luce dietro le nuvole. Felice venerdì.

Darsi all’ippica

È del poeta il fin la meraviglia, parlo dell’eccellente e non del goffo, chi non sa far stupir, vada alla striglia! Così Giambattista Marino in una critica. Tuttavia, più che dalla striglia del poeta barocco, gli studiosi ritengono che il modo di dire darsi all’ippica, nel senso dicambiare mestiere, e che indirizziamo a chi non sa fare qualcosa, derivi da una fanfaronata del segretario del partito fascista  Starace. Questa persone, durante la dittatura era in ritardo a un convegno di medicina a causa della imprescindibile cavalcata mattutina, e rispose ai ai musi lunghi dei dottori intervenuti: “Fate ginnastica e non medicina. Abbandonate i libri e datevi all’ippica”.

Favria, 28.8.2021 Giorgio Cortese

Buona giornata. Il bello della vita è provare stupore per tutto quello che mi capita, anche nelle piccole cose, piacevoli e non, queste ultime di forniscono sempre delle immense opportunità.  Felice sabato

Il sarto della città felice, fiaba araba.

Condivido con Voi questa bella fiaba inviatami da un caro amico.

“In un piccolo paese viveva una volta un sarto che non aveva nè moglie, nè figli. Lavorava dal mattino alla sera, cuciva camicie, pantaloni, caffettani. Era anche il muezzin del paese. All’alba, quando tutti dormivano, saliva in cima al minareto della moschea e svegliava la gente chiamandola alla preghiera e così faceva a mezzogiorno, nel pomeriggio e al tramonto. Tutti volevano bene e stimavano quest’uomo laborioso e pio. Ogni volta che saliva sul minareto il sarto rivolgeva il suo pensiero a Dio e gli manifestava il desiderio di avere un giorno una moglie e una casa dove vivere felice e sereno. Si dice che un giorno, dopo aver fatto risuonare i sette melodiosi versi del richiamo alla preghiera, venne catturato da un grosso uccello rapace che, tenendolo ben stretto tra gli artigli, dopo aver attraversato il mare, lo depose nelle vicinanze di una città sconosciuta. Il sarto vi entrò e si meravigliò della pace e della tranquillità che vi regnavano. Non si sentiva litigare, nè mercanteggiare, la gente sorrideva, i loro abiti erano bellissimi e puliti, i tessuti con cui erano confezionati erano preziosi. Ancor più aumentò la sua meraviglia quando avvicinandosi ad un negozio vide che la gente acquistava senza pagare, pronunciando soltanto questa parola: ” Preghiere alla bellezza “. Questa formula veniva ripetuta una o più volte secondo il valore della merce. Finalmente arrivò davanti alla bottega di un sarto e dopo averlo osservato a lungo lavorare ed essersi reso conto che anche questi aveva il viso radioso, si fece coraggio, entrò, lo salutò e gli disse: ” Anch’io sono un sarto come te e mi piacerebbe fermarmi a vivere in questa città “. Il collega sorridendo rispose:” Certo che ti puoi fermare, ne saremo felici, lavoreremo insieme e ogni settimana riceverai cinquanta preghiere alla bellezza. Il sarto iniziò subito a lavorare e in poco tempo venne a conoscere tutte le usanze di questo strano paese, dove a nessuno mancava mai nulla e dove ogni lavoro e ogni commercio venivano ricompensati con le parole: ” Preghiere alla bellezza “. Vi era un altro uso curioso. Se un giovane voleva sposarsi, doveva andare il giovedì sulla spiaggia. Lì passeggiavano tutte le ragazze da marito portando sulla testa una brocca di acqua fresca. Se una ragazza piaceva, la si fermava, le si chiedeva un sorso d’acqua e la si ringraziava dicendo: ” Preghiere alla bellezza! ” e se anche a lei fosse piaciuto il giovane, si sarebbero sicuramente sposati. Naturalmente il sarto non vedeva l’ora di andare il giovedì sulla spiaggia e così fece. Vide una ragazza che gli piaceva molto, chiese un sorso d’acqua, la ringraziò con le parole: ” Preghiere alla bellezza ” e si sposarono. Ogni giorno, dopo il lavoro, il sarto andava al mercato a far la spesa, comprava il necessario per vivere e il tempo scorreva nella tranquillità e nella serenità senza che i due sposi avessero bisogno di nulla. Un giorno, durante il suo abituale giro al mercato, il sarto vide un grosso pesce dalla carne bianca e appetitosa e decise di comprarlo in cambio di ” Preghiere alla bellezza ” pensando che la moglie sarebbe stata contenta. Quando tornò a casa e la moglie vide il grosso pesce, si spaventò e gli disse: ” Che cosa hai fatto? siamo solo in due e tu hai comprato un pesce che potrebbe nutrire dieci persone, adesso non potrai più vivere in questa città “. Il sarto rattristato, uscì di casa ed ecco sopraggiungere l’uccello rapace che lo afferrò e lo riportò nella sua città natale lasciandolo in cima al minareto proprio dove lo aveva afferrato la prima volta. Il sarto richiamò i credenti alla preghiera, lui stesso scese e si unì agli altri per pregare, ritornò nel suo negozio e riprese a lavorare. Ripensava sempre con molta tristezza alla città felice”

Buona giornata, i sogni non diventano realtà con una magia; ci vuole sudore, determinazione e duro lavoro. Felice domenica

Geranos, danza della Gru!

 “Giunto a Delo di ritorno da Creta … Teseo danzò con i giovani Ateniesi una danza tutt’ora eseguita dagli abitanti del luogo, consistente in movimenti tortuosi ed attorcigliati che rievocano il labirinto. Dicearco afferma che questa danza è chiamata “Gru” (Plutarco, Teseo, 21). La danza della Gru, Geranos, venne eseguita per la prima volta a Delo dai giovani ateniesi, sette maschi e sette femmine, che Teseo, grazie al filo di Arianna, aveva sottratto al Minotauro e condotto fuori dal Labirinto. Nonostante gli scrittori dell’antichità abbiano descritto la Geranos in termini molto vaghi, gli storici della danza si sono impegnati a fondo nel tentativo di comprenderne lo svolgimento e il significato. Nelle antiche descrizioni della danza ricorrono tre elementi: il filo di Arianna, il labirinto, la gru ,  che per quanto non sia chiara la reciproca implicazione, di fatto potrebbero essere letti come tre distinte modalità per esprimere il medesimo concetto. Il filo è lo strumento che Arianna offrì a Teseo per segnare la via verso il centro del labirinto.   Qualche secolo più tardi sarà Virgilio (Eneide, VI) ad accennare al labirinto inciso all’entrata dell’antro della Sibilla Cumana, che è considerato dagli antichi una via di accesso al mondo infero. Per la cultura greco-romana il regno dei morti era infatti un vero e proprio luogo fisico, al quale si poteva accedere attraverso vie impervie e segrete, irraggiungibili dai mortali se non nel dì fatale. Per ogni essere umano il viaggio nell’Aldilà è senza ritorno. Nel mito greco solo a eroi come Odisseo, Orfeo, Teseo, Ercole, Enea,  è concesso il ritorno dall’Inferno. Nella danza di Delo il filo di Arianna è simbolicamente rappresentato dalla linea dei danzatori che percorre nelle due direzioni le curve del labirinto. Quando i danzatori, guidati dal capo coro, si muovono verso il centro, la meta del loro viaggio è l’Aldilà. Quando poi, di certo ad un preciso segnale musicale, il senso di marcia viene invertito, colui che in precedenza chiudeva la fila diventa a sua volta capo coro e si mette a guidare i danzatori verso l’uscita, sulla via del ritorno al mondo dei vivi. Così la coda si trasforma in testa e la fine si identifica con l’inizio. E la gru che dà il nome alla danza? Quale relazione ha la gru con tutto questo? La questione è stata analizzata dagli studiosi  e secondo loto la Geranos è l’imitazione di una danza di corteggiamento delle gru. Ma ciò non spiega ancora la connessione tra  il filo,  il labirinto e la danza. A fornire la corretta chiave di lettura è stato Marcel Detienne “La grue et le labyrinthe, 1983” il quale sostiene che la gru, come la cicogna, è da millenni associata alla nascita, ma anche al ritorno alla vita dopo la morte. Nei racconti antichi  trampoliere era una navigatore così ardito che la sua migrazione lo conduce dalle piane della Scizia, una tra le più fredde parti del mondo, fino alle terre calde di Egitto, Libia ed Etiopia. Secondo Aristotele la gru vola da un’estremità del mondo all’altra, collegando i due estremi angoli della terra. Ecco il punto. Se la gru, come altri uccelli acquatici e migratori, percorre ogni anno la via che conduce ai confini del mondo, essa conosce, per averla percorsa, la via verso l’Aldilà.  Nel rituale della Grecia antica la danza della gru assume dunque una precisa identità. La gru conosce la via che conduce nell’Aldilà e, come il filo di Arianna nel labirinto, determina il collegamento tra l’inizio e la fine, tra il visibile e l’invisibile, tra l’umano e il divino. In ogni tempo e in ogni luogo l’uomo è in grado di scoprire nella ritmata misura dei passi la sintesi più perfetta dei valori fondamentali della sua cultura. I bestiari greci privilegiano le qualità intellettuali della gru. Infatti questo uccello, l’Ardea grus che è per noi sinonimo di sciocchezza e stupidaggine, è rinomato per la sua prudenza e per il suo spirito accorto. Esso offre l’esempio di un animale dotato di ragione e provvisto di quella forma d’intelligenza detta phrònesis. Da ricordare che la  celebre danza di cui Omero parla quando descrive lo scudo di Achille, non è direttamente connessa alla danza che rievoca l’uscita dal labirinto, bensì all’area di danza del Palazzo di Cnosso costruita da Dedalo per Arianna, dove si danzava una coreografia la cui ideazione è attribuibile allo stesso Dedalo. Quella descritta da Omero sullo scudo di Achille non è dunque la Geranos. L’abbigliamento delle fanciulle e le splendenti armi dei giovani, sono più conformi allo svolgimento di una festa piuttosto che alla rievocazione del salvataggio di un gruppo di prigionieri salvati dal Minotauro. Lo svolgimento stesso della danza non descrive le spire del labirinto, ma si svolge in tre distinti movimenti: prima una danza in tondo, “come la ruota ben fatta tra mano prova il vasaio, sedendo, per vedere se corre” ; poiil cerchio si rompe e giovani  e giovinette  corrono in file, gli uni verso gli altri; infine “due acrobati intanto, dando inizio alla festa, roteano in mezzo” (Iliade, libro XVIII).

Favria,  30.08.2021 Giorgio Cortese

Buona giornata. La vita è di breve durata, ma è anche abbastanza lunga per viverla bene ed onestamente. Felice lunedì