Ogni alba. – La generosa madama Pica. – Il gilet Alpino di Censo. – Luglio melodie e profumi d’estate – Leggero come un linot… – Il silenzio del mattino. – La lattuga. – Tiresia! – Bigotto e non begardo!…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Ogni alba…
Ogni alba porta un nuovo giorno, pulendo con la luce della speranza i sedimenti di polvere del giorno precedente. Tutti i giorni non sono uguali, possono essere belli e brutti, il tutto dipende da come operiamo. Il giorno che iniziamo può essere pieno di astio e sarà una giornata di inutile vento, oppure giorno di pioggia e di dolore, ma se lo vogliamo sarà un giorno pieno di amore che ci darà il coraggio di andare avanti per tutti gli altri giorni a seguire. E se poi durante il giorno l’animo è triste smettiamola di lamentarci perché dopo ogni notte spunta il sole, dietro le nuvole il sole sta ancora splendendo, serbiamo nell’animo sempre un pizzico di speranza, certo non ci nutre ma dà sapore alla nostra vita. E oggi lasciatemi essere felice perché respiro e perché anche voi che mi leggete respirate e godete del soffio della vita. Sono felice perché cammino da solo, sono felice perché questa mattina con grande esultanza ho ancora un grande tesoro, la salute!
Favria, 14.07.2020 Giorgio Cortese

Ogni giorno già dal mattino cerchiamo di vedere le cose nel presente, anche se esse si trovano nel futuro!

La generosa madama Pica.
C’era una volta sopra il grande cedro dove aveva fatto il suo nido una gazza di nome madama Pica che con il passare degli anni era diventata la beniamina delle famiglie della Comunità e dei bambini che nel pomeriggio lì sotto giocavano. I bambini si divertivano a giocare con lei sapendo quanto era attratta dagli oggetti luccicanti, lasciando alla base della quercia piccoli oggetti rilucenti, ma anche dei piccoli pezzi di pane che avevano portato da casa. Una volta la gazza ladra l’aveva fatta grossa ed aveva rubato la collana della moglie del ricchissimo signor Quicomandoio, cosi un povero contadino aveva dovuto arrampicarsi sull’albero molto alto e riprenderla. Quella volta madama Pica aveva proprio rischiato di essere cacciata via è con lei tutti i suoi piccoli, il signor Quicomandio era furente, pare che avesse addirittura interrotto una festa chiedendo che si cacciasse madama Pica ed i suoi piccoli dal paese, poi gli animi si erano calmati e le attenzioni di tutti si erano rivolte verso dei diritti di pascolo messi a repentaglio dagli abitanti di un paese vicino. Una calda notte di mezza estate c’era la luna piena e madama Pica dopo aver addormentato i suoi piccoli rivolse lo sguardo verso la volta stellata, tutta lucente con milioni di stelle e vista la Luna luminosa e sorniona penso che la Luna era troppo belle e luccicante, chissà quanto era preziosa, e lei doveva rubarla a tutti i costi. Nei giorni successivi madama Pica nel suo girovagare nei campi e bosco lì vicino sentiva strani discorsi degli esseri umani, che si lamentavano che non pioveva, che le coltivazioni non maturavano e se continuava la siccità non ci sarebbe stato nessun raccolto e avrebbero dovuto vendere tutto per comprare un poco di grano per non fare la fame. Anche madama Pica era preoccupata perché voleva bene agli abitanti di quella Comunità e quella notte guardando la Luna pensò che una piccola parte della Luna e sarebbe bastata agli abitanti della Comunità per non morire di fame e per non scappare via, e il raccolto dei campi sarebbe passato in secondo piano. Così decise che doveva rubare la Luna e le notti seguenti chiese consiglio al saggio Gufo, dottor Otus, che gli rispose che era una follia. Madama Pica non demorse e volò in alto sempre più in alto, sopra le nuvole e arrivò al cospetto della Luna. Arrivata al suo cospetto la trovò enorme e si chiese come poteva portarla giù. La Luna l’aveva vista arrivare e con voce potente gli chiese cosa voleva. Madama Pica gli spiego cosa voleva fare e la Luna rise divertita, la luce lei la riceveva da una stella grandissima, messer Sole. Madama Pica volò, volò e alla fine arrivò vicino a messer Sole. Quando arrivò infine al cospetto di messer Sole faceva un gran caldo e quella luce era così intensa, non sarebbe mai riuscita a portarla sulla terra ma doveva provarci. Anche a messer Sole madama Pica spiego il suo piano. Messer Sole gli disse che la mancanza di pioggia e carenza dei raccolti era colpa dei suoi amici umani, non quelli che lei conosceva ma di altre persone egoiste che inquinano la terra. Poi messer Sole per premiare madama Pica che era stata molto coraggiosa ad arrivare fino a lui avrebbe aiutato gli esseri umani ancora una volta. Con voce acuta messer Sole gli disse di tornare sulla terra e che tutto si sarebbe sistemato. Quando tornò dal lungo viaggio la campagna era tutta verdeggiante e le coltivazioni erano quasi tutte mature. Il Sole con i suoi raggi aveva finalmente scaldato il terreno, il clima era cambiato, e gli esseri umani, avevano deciso di comportarsi bene e di rispettare tutta la natura e la terra. Madama Pica sfinita torno nel suo nido e si riaddormentò. Il giorno dopo si risveglio pensando di aver sognato tutto quanto ma in un angolo del suo nido trovò un piccolo gioiello tondo a forma di Sole che luccicava, solo allora madama Pica, si rese conto che non aveva sognato ed il Sole gli aveva fatto un regalo speciale.
Favria, 15.07.2020 Giorgio Cortese

Ogni giorno sapersi accontentare delle piccole cose, senza volere la luna, è il segreto per avere la gioia nel cuore.

Il gilet Alpino di Censo.
Oggi ho ricevuto il gilet Alpino, con logo sezionale, appartenuto ad un Alpino che recentemente ha posato lo zaino ed è andato avanti. La sorella ha pensato bene di donarmelo visto le uguali generose dimensioni. Quando in sezione ho provato questo gilet, ho pensato alla sua storia e di chissà quante volte ha accompagnato il suo precedente proprietario in sfilate, adunate e pranzi conviviali. Il gilet fece la sua prima comparsa ufficiale alla corte reale inglese nel corso del XVII secolo, e si presentava con una forma allungata che arrivava fino al ginocchio. La cosa curiosa che la parola gilet è nata in Francia ma deriva dallo spagnolo jileco, jaleco, che a sua volta è dal turco yelek, vestito senza maniche. Quando ho portato a casa il gilet pensavo che nei suoi tessuti aleggia forte le spirito Alpino del suo primo proprietario, l’Alpinità tipica che appartiene agli Alpini, esseri umani nostrani, fieri e testardi nel collaborare sempre con il prossimo. Dritti e sinceri, nel prodigarsi con onestà, insomma sono veramente come assomigliano, polso fermo, parlano poco, ma sanno cosa dicono, e nel gilet c’è ancora una parte eterea di Censo, inafferrabile, leggiadra e che pulsa di Alpinità.
Favria, 16.07.2020 Giorgio Cortese

La vita quotidiana mi insegna a saper cogliere l’attimo per ogni cosa che mi sfiora durante la giornata.

Luglio melodie e profumi d’estate
In estate mi piace svegliarmi presto, quando la luce radente disegna uno spicchio tra gli alberi del parco Martinotti davanti a casa. Il parco brilla per l’umidità della notte che sale dal terreno, mai come quest’anno turgido di pioggia. Non so se a commuovermi è la consapevolezza che l’immagine che dura un attimo, poi il sole di luglio cristallizza il quadro in un eterno presente dove tutto è illuminato. Certe mattine penso a quando ero bambino e partivo in questo mese per il mare, la sveglia nella notte per prendere il fatidico treno delle 6,00 da Torino, destinazione Liguria, San Bartolomeo, con tutta la famiglia ed altre persone di Cuorgnè. Ho nostalgia di quei ricordi, del sole che scaldava i vagoni e di mia mamma che mi concedeva di bere una gazzosa per calmare la sete, e poi dopo ore l’arrivo in Liguria accolto già nelle prime stazioni della Riviera dal canto tribale delle cicale. Il loro richiamo melodioso e croccante, questo per me era il canto di benvenuto al mare. Quando ero arrivato, uscendo dalla pensione passavo tra serre e pini martittimi che con il loro effluvio costituito dalla flagranza resinosa davano al mio animo la felicità e, dopo l’ultimo orticello, proprio dietro alla vecchia torre saracena ecco la piccola spiaggia sul lungo mare, luogo di gioco e svago. Soggiorno marittimo intervallato nel primo pomeriggio dai compiti delle vacanze e da passeggiate con mia mamma lungo le pinete dell’entroterra con la colonna sonora delle cicale e le fragranze dei pini marittimi, che hanno riempito l’animo di ricordi. Ritornando al mattino, ritengo che adesso non sia soltanto questa idea di veloce transitorietà a colpirmi, perché fugace è anche il tramonto, momento della giornata a cui, anche per fatto anagrafico, dovrei incominciare a sentirmi più vicino. Invece io amo le prime luci del giorno per la promessa che portano con sé. E per la voglia, inesauribile, di ricominciare sempre. Cominciare dal seme del mattino, ricominciare ogni giorno sempre, ma anche ricordare piacevoli episodi del passato.
Favria, 16.07.2020 Giorgio Cortese

Nella vita di ogni giorno non c’è nulla da temere, ma solo da capire.

Leggero come un linot…
Ogni giorno leggero come la lignota parto per la mia strada, unico mio bagaglio il mio personale coraggio. Vado avanti nel mondo senza una guida o una mappa, ma solo pago di conoscere ogni destino umano e un giorno nel parco ho sentito un fruscio d’ali più deciso! Ed ecco il giajèt che volava via per la strada della vita! Parlo della Linota, lemma piemontese, in italiano lignota, dal francese linotte, anticamente linot, deriva da lin, lino, nome dell’uccello fanello, perché l’uccello è ghiotto dei semi di lino. In piemontese il fanello viene detto anche fanét o giajét, un piccolo passeraceo della famiglia fringillidi, Acanthis cannabina, comune in Italia ed in Piemonte, si trova spesso al margine dei boschi. Il maschio adulto, in primavera, presenta un piumaggio di colori sobri, con un largo spazio sulla fronte e uno sul petto, a forma di ferro di cavallo, di color cremisino. Il fanello ha un canto dolce, piacevole, ed è capace di imitare il verso di altri uccelli e per questo che una volta veniva ibridato, come per i cardellini con i canarini per generare dei soggetti dai bellissimi gorgheggi. Il nome fanello deriva forse da faginello, derivato dal latino fagus, faggio, alberi presso cui dimora.
Favria, 17.07.2020 Giorgio Cortese

Il silenzio del mattino.
Il silenzio del mattino è infranto dal cinguettio di uccelli e sul balcone il merlo mio quotidiano visitatore canta e mi sollecita una briciola di pane. Schiudo la porta e respiro la fresca aria del mattino. Penso alla notte appena passata e odo ancora la voce dei sogni, il ridere, il narrare, il raccontare della notte.
Favria, 18.07.2020 Giorgio Cortese

Ogni giorno, ogni attimo più tardi sarà troppo tardi, la vita è adesso!

La lattuga.
La lattuga, nonostante richieda interventi di irrigazione che ne rendono costosa la coltivazione, è un ortaggio molto diffuso, uno dei più venduti in tutto il mondo. Le specie del genere “Lactuca” sono tante, esiste la Lactuca sativa, lattuga coltivata che normalmente mangiamo e di cui esistono numerose varietà, e la Lactuca virosa, lattuga velenosa un tempo chiamata selvaggia o agreste. Quest’ultima è una vera pianta medicinale contenente principi attivi in abbondanza, ma è senza dubbio eccessivo l’appellativo di velenosa, datole esclusivamente per il suo sapore decisamente amaro. La parola lattuga deriva dal latino lactuca, che a sua volta deriva da lac, latte, che fa riferimento al fatto che questa pianta quando viene tagliata secerne dal gambo un liquido lattiginoso. La lattuga è una delle verdure di più antica coltivazione nell’area del Mediterraneo, anche se gli antichi Sumeri della Mesopotamia meridionale furono i primi a coltivarla, in aiuole irrigate, nel 4000 a.C. ca. La Lactuca sativa, derivante dalla Lactuca scariola selvatica, era coltivata dagli Egiziani nei giardini attigui alle case, e ritenuta una pianta afrodisiaca sacra al dio Min, equivalente del Priapo greco. Attribuendogli la qualità di rendere focosi gli uomini e feconde le donne, gli egiziani ne facevano largo uso, probabilmente mangiandola cruda condita con olio e sale. Di tutt’altra opinione erano i Greci e i Romani d’età repubblicana che giudicavano la lattuga un cibo addormenta passioni. Nella mitologia questa pianta è protagonista di due diverse storie. Nella mitologia greca Giunone, la moglie di Giove, generò la figlia Ebe, dea della giovinezza, seduta su un cespo di lattuga. In un’altra storia Adone sarebbe stato ucciso mentre era in un campo di lattuga, poi Venere avrebbe deposto il corpo dell’amato su un letto di lattuga. I miti celavano l’effetto anafrodisiaco, che attenuava lo stimolo sessuale della pianta e la sua connotazione di cibo dei morti. In epoca imperiale avvenne però che Augusto, di salute cagionevole e gravemente ammalato, senza la possibilità di terapie curative, venne salvato da un medico che lo curò con la lattuga. Da allora in poi questo cibo non mancò mai sulla mensa dell’imperatore, diventando di moda tra i Romani. All’inizio l’usanza era di servirlo in chiusura di pasto, come conciliatore del sonno, poi divenne antipasto, perché gli fu riconosciuta la proprietà di aprire lo stomaco e stimolare l’appetito. Nel suo ricettario il romano Marco Gavio Apicio suggerisce vari modi di condire la lattuga con aceto, miele o garum, ma essendo un alimento stagionale di facile deperibilità, era conservato sotto ossimele, miscela di aceto e miele. Da Augusto in poi la lattuga non raccolse che elogi. Dal Mediterraneo la pianta si diffuse in tutta l’area d’influenza latina, anche se fuori d’Italia veniva consumata soprattutto cotta. Solo nel ‘700 la lattuga cominciò ad essere mangiata cruda anche in Francia e in Inghilterra. Qui voglio menzionare un gentiluomo francese, il cavalier di Albignac, che ebbe grande successo nelle varie case dei nobili, guadagnandosi lautamente il pane, andando in giro con un suo “necessaire” di mogano, contenete gli ingredienti, olio e aceti aromatizzatti, tartufi, acciughe, per condire a domicilio la lattuga. La lattuga essendo costituita da circa il 95% di acqua ha una grande capacità di reidratare il corpo umano. Dalla base della lattuga appena raccolta si libera un lattice biancastro, detto lattucario da cui deriva il nome della lattuga, che ha, come l’oppio, modeste proprietà sedative. La lattuga selvatica è stata studiata nel 1911 dal Consiglio della società farmaceutica della Gran Bretagna che ha rinvenuto, oltre a Lattucopicrina e la Lattucina, altre molecole con blando potere sedativo contenute tutte nel lattucario. È quindi un alimento particolarmente adatto ad essere consumato nei pasti serali da tutte quelle persone, bambini soprattutto, nervose, agitate o magari con difficoltà ad addormentarsi. A tal fine, oltre a consumarla cruda, è possibile prepararsi un decotto. Quello che mi lascia perplesso come mai gli Antichi Egizi la usavano come viagra naturale, mah!
Favria, 19.07.2020 Giorgio Cortese

La speranza è la passione sono i nostri compagni nella vita di ogni giorno. Senza di loro non andremmo da nessuna parte.

Tiresia!
Per scoprire chi fu Tiresia, si deve fare un salto nel passato al tempo della mitologia greca. Tiresia infatti fu un celebre indovino di origine tebana. Molte e diverse le leggende che accompagnano il mito di Tiresia che fu raccontato sia da Dante che dal celebre narratore Ovidio nelle sue Metamorfosi, questo autore latino ci racconta di Tiresia figlio di Evere, discendente degli Spartani, e della ninfa Cariclo, mentre passeggiava tra le colline vide due serpenti accoppiati. Tiresia colpì il serpente femmina ed immediatamente venne tramutato esso stesso in donna. Si narra ancora che, trascorsi sette anni con sembianza di donna, rivedendo ancora due serpenti accoppiati, colpì il serpente maschio e ridivenne uomo. Questa trasformazione doppia fece scalpore tra gli dei dell’Olimpo, i quali decisero di chiedere a Tiresia se nell’atto amoroso provasse più piacere la donna oppure l’uomo. Tiresia, senza un benchè minimo ripensamento, disse che il maggior piacere veniva provato dall’uomo. Era, adirata, accecò Tiresia. Il buon padre Zeus, dio dell’Olimpo e signore degli dei, orgoglioso della risposta e mosso a compassione per il gesto compito dalla moglie Era, decise di far dono a Tiresia della profezia e della veggenza. Una seconda versione vuole che Tiresia trovandosi a passeggiare lungo le sponde del fiume in cui sua madre e la dea Atena si stavano bagnando alla sorgente, questi vide la dea Atena nuda che lo accecò coprendogli gli occhi con le mani. A seguito la stessa dea per consolare la madre di Tiresia, fece dono al figlio di predire il futuro e di poter guidare i propri passi con un bastone di corniolo. Anche la figlia del veggente Tiresia, Manto, ricevette il dono della veggenza
Favria, 20.07.2020 Giorgio Cortese

Ogni giorno annoto ogni piccola emozione e come punteggiatura non i punti, ma le virgole del cuore.

Bigotto e non begardo!
Si dice bigotto chi mostra una religiosità esteriore, acritica e intransigente. La parola deriva dal francese bigot, nata dall’esclamazione normanna bi Got, per Dio. Si dice a volte bigotto, bacchettone, baciapile e beghinop, baciapile, pinzochero, collotorto, paolotto, picchiapetto, leccasanti, spigolistro. Al solito, il lessico dell’ingiuria è decisamente prolisso. Ma tra tanti epiteti, nessuno che associ una religiosità più ostentata che intimamente vissuta al fatto di portare i baffi. Pertanto, imbattendomi nella parola spagnola bigote, che significa appunto “baffi”, viene dato per scontato che l’assonanza con il nostro bigotto, per pura casualità. Ma siamo sicuri? Facciamo un passo indietro, tra il IX e il X secolo d.C., il capo vichingo Hrolfr, meglio conosciuto come Rollone, saccheggiò in lungo e in largo il nord della Francia, giungendo ad assediare anche Parigi. Incapace di sconfiggerlo, il re franco Carlo il Semplice gli concesse il Ducato di Normandia, a patto che facesse atto di sottomissione e si convertisse al cristianesimo. La cerimonia d’investitura prevedeva che Rollone baciasse il piede di Carlo, ma l’orgoglioso vichingo rifiutò di abbassarsi a tanto, affidando l’ingrato compito ad un suo uomo. Questi, però, invece di inchinarsi sollevò verso di sé il piede del sovrano, facendogli perdere l’equilibrio e provocandone una ben poco regale caduta all’indietro, fra le risa di scherno dei vichinghi presenti. Narrano le cronache medievali che Rollone manifestasse il suo rifiuto di sottomettersi esclamando: “ne se, bi got!”. In lingua norrena, “giammai, per Dio!. Secondo Gilles Ménage, autore dei primi dizionari etimologici sia del francese è da allora che i normanni furono soprannominati “bigots”. Comunque, anche a voler dubitare che il termine discenda dritto dal goliardico avvenimento sopra citato di Rollone, è certo che i normanni erano soprannominati bigots dai franchi, presumibilmente perché usi a pronunciare l’intercalare bi Got, e che alcuni secoli dopo, in francese, la parola passò a designare gli eccessivamente devoti, coloro che avevano sempre sulle labbra il nome di Dio. Ancora oggi, quasi tutti i dizionari fanno risalire l’etimo del francese bigot, che ha originato l’italiano bigotto, l’inglese bigot e il tedesco bi gott, dal modo di dire tipico dei normanni, bi Got. Ma allora la parola spagnola bigote è solo una casualità? Pare che in Spagna, diversamente che a nord dei Pirenei, nel XV secolo non fosse consuetudine portare i baffi. Durante la reconquista di Granada nel 1482-1492 d.C., ultima roccaforte dei Mori in terra iberica, le forze cristiane potevano contare su numerosi volontari e mercenari svizzeri e tedeschi, spesso foltamente baffuti. Giacché costoro, a quanto pare, proferivano volentieri il famoso bo Got o bei Gott, e gli spagnoli presero a chiamarli bigotes, o forse, semplicemente, erano a conoscenza del soprannome che da secoli contrassegnava gli “uomini del nord”. In ogni caso, la parola passò ben presto a designare chi porta i baffi. Ma in spagnolo una volta dire: “tener bigotes” equivaleva a dire di avere gli attributi, insomma di essere un duro. E duri lo erano senz’altro, quei guerrieri nordici, giunti fino in Spagna per combattere i mori. Non erano sicuramente campioni di animo mansueto ma soldati. Invece la parola femminile beghina, al maschile usato sia beghino che bergardo ha una origine alquanto controversa. Pare che l’origine di beghino o beghina deriva da un sacerdote di Liegi, Lambert Le Bégue che, nel dodicesimo secolo, predicò una dottrina basata sull’idea di un’associazione di donne che si dedicassero ad una vita religiosa senza prendere i voti monastici. I detrattori dell’idea di Bègue chiamarono queste donne beghine. Secondo altri la parola deriva da una vecchia parola sassone beggen che voleva dire mendicare o pregare. Secondo altri la parola beghina, beghino deriva dal movimento eretico degli albigesi, diffuso in Europa tra il XII e il XIV secolo. Nel linguaggio contemporaneo, il termine beghino, è utilizzato, in senso lato, come sinonimo di bacchettone e di bigotto.
Favria, 21.07.2020 Giorgio Cortese

Ogni giorno bisogna continuamente ricominciare dalla fine.
giorgioCorteseAlpini