VILLAGGI PERDUTI LOMBRA
DEL PASSATO
Quante volte ho percorso i sentieri sempre
più incerti che conducono ai tanti villaggi perduti nel silenzio dei boschi tra
lOrco e la Soana, che dal fondovalle di Pont Canavese salgono verso le montagne del
Gran Paradiso, ed ogni volta, avvicinandomi a quelle umili case di pietra e di legno,
uniche materie prime disponibili in loco, ho provato emozioni difficili da descrivere: su
tutte, la consapevolezza di inoltrarmi tra le residue vestigia di una civiltà alpina
irrimediabilmente perduta.
Ho visto i rovi e ledera aggrapparsi ai balconi delle case e le porte aperte su
stanze semivuote, i tetti sfondati dalla neve ed i muri sbrecciati dalla pioggia, gli
alberi crescere senza più freni tra le macerie ed i boschi riguadagnare sempre più
velocemente i campi dissodati e coltivati con immani fatiche da intere generazioni di
montanari, i muretti di pietra a secco franati a valle ed i ponticelli di legno gettati a
superare i torrenti ormai sghembi e pericolanti.
Ho visto finestre senza più vetri guardarmi vuote come orbite senza più occhi, ed ho
sentito il vento dautunno correre senza più freni tra le stradine dei villaggi
portando foglie secche nelle stanze rimaste senza più porte a difendere unintimità
perduta.
Avvicinarsi ad un villaggio alpino abbandonato è come entrare in una sorta di
macchina del tempo capace di catapultarti come per incanto in un passato
allapparenza remoto, ma che in realtà ci siamo lasciati soltanto ieri dietro
langolo: qui non ci sono strade, televisioni, luce elettrica, telefoni, e sembrano
miracolosamente zittiti i rumori e gli strepiti che accompagnano la nostra abituale vita
quotidiana.
Ma, a mano a mano che ti avvicini alle case, ti accorgi che mancano anche le voci degli
uomini, le grida felici dei bimbi, labbaiare dei cani: è un mondo come
cristallizzato nel dolore di un abbandono che è diventato totale e definitivo, come se
lombra scura della notte avesse portato via con sé tutti i suoni della vita,
lasciando allalba un mondo desolato e silenzioso.
Poi alzi gli occhi e guardi meglio le case, accorgendoti quasi con stupore che qualcosa o
qualcuno le ha ferite a morte, riducendole spesso a ruderi informi che alzano muri
sbrecciati come dita rugose rivolte verso il cielo: le porte socchiuse sembrano pronte ad
inghiottirti tra le brume di un passato che si è nascosto quassù, ad aspettare
tenacemente il sempre più improbabile ritorno di un mondo ormai perduto.
Ed improvvisamente ti senti sopraffatto da unimmensa tristezza nel vedere questo
lento sfacelo, oppresso da questa strana sensazione di morte che aleggia pesantemente
nellaria e che tutto avvolge nella sua ragnatela di silenzio, a malapena interrotto
dal vociare sommesso degli uccelli che, nascosti nellincombente bosco, sembrano
osservarti con occhi malevoli, quasi fossi un intruso in un mondo che ormai non appartiene
più alluomo.
E la fantasia galoppa fervida verso gli sbiaditi ricordi di antiche leggende, verso
storie raccontate dai nostri avi nelle stalle durante le lunghe veglie
invernali, mentre fuori infuriava la bufera ed il vento gelido portava con sé la voce
lamentosa degli alberi morsi dal ghiaccio.
E ti viene da pensare che nel fitto del bosco, dove neppure il sole arriva mai a lambire
il suolo muschioso ed umido, e, più su, nei pascoli disegnati ai piedi delle rupi e
sullorlo dei precipizi, le masche forse danzano ancora nei loro sabba infernali, e
di notte scendono a spadroneggiare tra le case dei villaggi non più presidiati
dalluomo, riconquistati, palmo a palmo, dalla Natura selvaggia e dai suoi spiriti
primordiali.
E se laggiù in pianura, persi tra le luci abbaglianti dei centri commerciali ed i rumori
assordanti delle superstrade, queste possono tuttalpiù sembrare favole per bambini,
oltretutto fuori moda per linfanzia smaliziata dellera televisiva, quassù,
tra queste case fantasma silenziose e gelide, le leggende assumono un altro spessore ed
incutono, se non timore, perlomeno rispetto.
Ma, laggiù in fondovalle, le masche non scenderanno mai, perché le
diavolerie create a getto continuo dalla nostra civiltà tecnologica superano
ormai di gran lunga quelle che i nostri avi avevano ingenuamente attribuito alle
fantomatiche fattucchiere che abitavano un tempo le leggende delle montagne.
E forse tutti questi prodigi tecnologici, nuovi feticci creati dalla fervida
immaginazione delluomo, hanno il segreto scopo di spaventare e tener lontane proprio
le masche dalle nostre opulente città, esorcizzando un passato di miseria e di indicibili
fatiche che ancora incombe minaccioso su di noi, sui nostri agi sempre più superflui,
sulla nostra civiltà del benessere e dei consumi che, come il
Titanic, tutti giurano sia inaffondabile, mentre nel buio gli
iceberg sono invece sempre in agguato, pronti a colpire.
Una civiltà, la nostra, estremamente complessa e sofisticata, ma pure così fragile che
basterebbe poco per costringerci a ritornare lassù, in quei villaggi abbandonati nel
ventre delle nostre montagne, a riaprire le porte cigolanti ed a riaccendere i focolai.
Basterebbe un niente, un imprevisto sfuggito di mano ai numerosi apprendisti
stregoni della rampante tecnologia moderna od un sempre possibile atto sconsiderato
di follia nucleare, e saremmo tutti sospinti indietro di centanni, o forse di mille,
nuovamente intenti a dissodare con disperazione antica le pendici cedute forse troppo
frettolosamente al rovo ed allortica, a tagliare con accette rozze e spuntate, la
legna per affrontare il lungo inverno alpino, a doverci spostare col solo ausilio delle
nostre gambe lungo i sentieri impervi che oggi giacciono dimenticati sotto le foglie
stratificate di infiniti autunni.
Si, forse cè veramente daver paura delle masche, perché in una notte di
bufera, magari sotto mentite spoglie, potrebbero nuovamente bussare alla nostra porta e
riaccendere paure antiche, ancestrali, che per sbaglio credevamo daver
definitivamente sepolto negli archivi del tempo e della memoria, e trovarci incapaci ad
affrontare con un minimo di dignità e coraggio la lunga ombra scura del nostro passato.
Quellombra che, anno dopo anno sempre più sbiadita ed incerta, proiettano ancora
quei villaggi perduti sulle montagne tra lOrco e la Soana, di cui
vogliamo parlare prima che su di loro scenda per sempre loblio.
Marino Pasqualone