NEL CREPUSCOLO DEL WEST – Arcavòt (Ingria) di Marino Pasqualone
Un pomeriggio di sole d’autunno inoltrato nel Vallone del Verdassa, di cui i Comuni di Ingria e Frassinetto si dividono equamente i silenzi e la solitudine dopo i brevi fuochi estivi.
I faggi ed i castagni hanno già mollato buona parte delle foglie, coprendo così del tutto le labili tracce dei sentieri che conducono alle borgate lontane dalla nuova strada carrozzabile: e sarà proprio questo particolare, non conoscendo a fondo quel tratto di montagna che sale ripida alla borgata Arcavòt di Ingria, a creare qualche problema sia all’andata che, soprattutto, al ritorno.
Lasciamo la strada deserta e silenziosa alla frazione Bech, e ci inoltriamo lungo il piccolo canale di derivazione della centrale idroelettrica, cercando di indovinare dove parte il sentiero che sale alla sperduta frazione di Ingria, posta sull’alto di una rupe a quota 1.096 metri d’altezza.
Si notano qua e là tracce che però si perdono quasi subito sotto un mare di foglie secche, ed il fitto bosco impedisce di orientarsi e scorgere le case della borgata: decidiamo così di salire zigzagando tra muretti a secco e rovi, finché ci troviamo sotto ad una rupe che aggiriamo sulla sinistra, salendo poi verticalmente per un fitto noccioleto lungo una traccia lasciata probabilmente dai cinghiali.
Giunti sulla sommità della rupe ci accorgiamo però che la nostra meta si trova sull’altro poggio roccioso a dirimpetto di dove siamo adesso: è evidente che abbiamo sbagliato strada, ma senza troppo difficoltà riusciamo, con un traverso orizzontale nel bosco incolto, a portarci sotto alle case di Arcavòt.
Alla base della rupe c’è una fontana, ma il terreno attorno è in parte ricoperto da arbusti spinosi e rovi e per il resto devastato dai cinghiali: facendoci largo a stento saliamo lungo la scalinata che porta sulla grande roccia dove sorgono le poche case della borgata, ancora riscaldate dal sole nonostante il pomeriggio autunnale sia ormai inoltrato.
Notiamo che la borgata è raggiunta dalla linea elettrica, e che un paio di case sembrano ancora essere frequentate saltuariamente almeno nella stagione estiva, mentre le altre si stanno invece velocemente deteriorando.
Curiosamente c’è un pergolato ricoperto dal “gelsomino d’inverno” in piena fioritura con almeno due mesi di anticipo sulla sua normale stagione, frutto forse di un autunno insolitamente tiepido e della favorevole esposizione al sole del luogo.
Saliamo quindi sull’aereo poggio creato dalla rupe su cui sorge il villaggio: davanti a noi si apre l’intera valle del Verdassa, con alla sinistra l’antico capoluogo di Codebiòl , dove meno di mezzo secolo fa c’erano ancora scuola, parrocchia e cimitero, e di fronte, sull’altra sponda del torrente, la frazione frassinettese del Fraschietto.
Improvvisamente il sole che scompare dietro la cresta incombente del Monte Bettassa ci ricorda che le giornate autunnali sono brevi ed è il caso di rientrare a valle prima del buio, visto anche che la traccia da noi percorsa in salita è stata alquanto tortuosa e non è certo il vero sentiero di accesso alla borgata.
A sinistra delle case si apre un sentiero che sembra ben demarcato e, attraversato un rigagnolo, scende lentamente, ma dopo poche decine di metri si perde tra le rupi e diventa impercorribile perché i muretti in pietra a secco che lo sostenevano probabilmente sono franati a valle.
Torniamo indietro fino alla fontana e pensiamo che il canalone tra le due rupi in cui ci troviamo sia la via naturale e più breve di accesso alla borgata, per cui scendiamo quasi verticalmente nel bosco evitando larghi tratti ricoperti dai rovi, ma, ad un certo punto, siamo bloccati da un salto roccioso proprio quando la strada di fondovalle, ancorché ancora invisibile, è ormai sicuramente vicina.
Adesso è davvero tardi e nel sottobosco già calano le prime ombre, per cui di tornare indietro e ripercorrere l’incerta traccia seguita in salita non se ne parla nemmeno: ma ecco che, ripulendo con cura la sommità della roccia su cui ci troviamo dalle foglie secche accumulatesi, appare come per incanto una piccola scalinata di pietra che ci consente di scendere senza troppi problemi a valle.
Ancora qualche terrazzamento da superare e poi ecco il canale e quindi finalmente la strada che scende alla Bettassa, proprio mentre l’ultimo sole colora di bagliori rossastri le montagne che chiudono la selvaggia e spopolata valle del Verdassa
L’avventura è finita, e da lontano guardiamo le poche case di Arcavòt stagliarsi contro il cielo che si scurisce sempre più, ripiombate nella loro solitudine sempre più profonda ed irraggiungibile, la stessa di altre decine e decine di villaggi delle nostre montagne che in questi ultimi trent’anni ho visto lentamente morire, disfarsi, cadere in un vuoto siderale che ne ha corrotto i contorni e reso incerti i percorsi per raggiungerli.
E se penso ad Arcavòt sospesa tra i suoi canaloni strapiombanti, oppure alle altezze improduttive del Brenvèi od ai campi strappati alle verticalità di Parìi, non posso che ammirare il coraggio di chi seppe colonizzare queste terre e farvi fiorire per tanti secoli la civiltà alpina, ma vedo anche la disperazione di una vita, non solo metaforicamente, tutta in salita, segnata da tante fatiche che oggi paiono essere servite a nulla, visto che tutto sta andando in malora.
E credo che il crepuscolo della nostra montagna sia un po’ paragonabile al crepuscolo del West americano, al canto del cigno di una terra libera e selvaggia in cui sopravvivere non era certo facile, e di cui ho avuto la fortuna di scorgerne ancora gli ultimi bagliori, l’ultima lama di luce prima che scendesse il buio.
E penso che, ancora meno di mezzo secolo fa, avevamo il nostro “Far West” ( ma sarebbe più giusto dire italianamente “Profondo Nord” ) appena dietro l’angolo di casa: margari e contadini, carovane di muli e bestiame al pascolo sulle praterie alpine, sentieri selvaggi e vita rude e spartana in questa “frontiera” delimitata dagli altri crinali alpini.
Un vero e proprio mondo a parte mentre, laggiù nell’est delle pianure, il progresso avanzava veloce ed impetuoso tra treni sbuffanti e ciminiere fumanti, tra alveari di cemento ed autostrade.
E forse proprio per questa ferita rimasta aperta nella memoria continuo ostinatamente ad aggirarmi in questi luoghi, cammino tra quelle case abbandonate che sempre più somigliano a spettrali cumuli di pietre, prima che la dabbenaggine idiota di questi tempi bui di globalizzazione consumistica e culturale distrugga anche il ricordo stesso della nostra storia e delle nostre radici .
Ed allora di Arcavòt e della sua gente non rimarrà davvero più nulla, e solo il volo di un falco, sulla rupe persa tra i boschi tornati selvaggi, scruterà le rovine di quel mondo perduto.
Marino Pasqualone
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