Leggende della Val Soana
a cura di  Riccarda Viglino

LA VEDOVA     lu borj del taculin

Fuori il buio era quasi completo e non aveva tempo adesso per cercare lassù in alto le stelle. Si avviò con passo svelto verso casa.
Saliti i pochi scalini, spinse la porta di legno e si trovò nella cucina vuota e silenziosa: sua madre e suo figlio dormivano, di là di un tramezzo di legno. Poteva sentire il respiro pesante del donna anziana e il trapestio del sacco di foglie secche che costituiva il loro materasso, ad ogni suo muoversi nel sonno.
Il piccolo riposava nella culla di legno che il padre aveva intagliato per lui pazientemente nei lunghi mesi dell’attesa, ignaro e silenzioso. La mancanza del padre, l’assenza, le avrebbe conosciute più tardi crescendo nella sua condizione di orfano, difficile in un’epoca e in luogo dove la vita non era priva di difficoltà ed incertezze anche per chi poteva contare sulla presenza di entrambi i genitori.
E lei non sapeva ancora come avrebbe fatto per loro. La sua fatica di ogni giorno, la mucca, la stalla, il pollaio, l’orto, il campetto dietro casa non erano sufficienti anche se riempivano le sue giornate, le impedivano di pensare a quel vuoto dentro la sua vita; la sfinivano facendo sì che la sera si buttasse sul letto esausta sprofondando in un sonno duro, senza sogni.
Ora però che l’autunno indorava i pendii del monte, accorciava le giornate, i lavori all’esterno diminuivano e si allargavano gli spazi del pensiero e dei ricordi. Le notti erano fredde e troppo lunghe per lei, allora cercava nella stalla con gli altri, un po’ di compagnia e di tepore. Al fiato delle bestie si scaldavano tutti i vicini: le donne filavano, torcevano la canapa in fili duri e resistenti per cucire le suole degli scapin, le pantofole di panno che portavano ogni giorno alternati agli zoccoli di legno. Sottovoce si scambiavano chiacchiere e pettegolezzi, alle più giovani scappavano improvvise risate; ad un certo punto una vecchia intonava il rosario . Gli uomini invece fumavano, discutevano della guerra e dei prezzi, raccontavano aneddoti e storie, nuove ed antiche, ma sempre incantate e misteriose. Quella sera uno dei più anziani, uomo ricco e rispettato, accalorato dal discorso, trascinato senza volerlo dalle sue stesse parole, aveva lanciato la sfida e, nel silenzio calato all’improvviso nella stalla, la sua voce era risuonata solenne.
Si trattava dunque di andare, di notte naturalmente, in un alpeggio lontano oltre il fiume ed i boschi sul fianco del monte, abbandonato adesso tornate le mucche al paese dopo il pascolo estivo. Era quello un luogo particolare, popolato di strane presenze, quasi sinistro a dispetto della bellezza del luogo e della ricchezza dei pascoli. Si diceva custodito dallo spirito magico di un animale: un grosso toro nero, creatura stregata e potente che non permetteva a nessuno di avvicinarsi di notte alla sua stalla.
E proprio a questo sfidava il vecchio: andare adesso, subito, questa stessa notte, fin lassù; entrare nella stalla riportando indietro come prova lo sgabello per la mungitura che stava dietro la porta. Era uno sgabello particolare che il vecchio aveva costruito da sé ed avrebbe saputo riconoscere a colpo sicuro, evitando inganni.
Nel silenzio che era seguito alle sue parole, il tintinnio delle catene degli animali, il loro ruminare placido, erano stati gli unici rumori nella stalla. Gli uomini fissavano le punte degli zoccoli assorti nella fumata, le donne si guardavano tra loro di sottecchi, mute. Una vecchia infine aveva ammonito tutti su come non giovasse proprio a nessuno parlare di certe cose e si era fatta velocemente il segno della croce imitata da molti dei presenti.
La risata forte e grassa dell’uomo ricco aveva preceduto le sue nuove parole, più strabilianti della sfida stessa: " Chi dunque dimostrerà il suo coraggio, ebbene, avrà in premio la mia pelliccia !" La vedova si era riscossa a questo punto all’improvviso dai suoi pensieri, ora soltanto tutto il discorso prendeva forma per lei, delineato dall’evocazione di quell’oggetto tanto raro e prezioso. Nessuno di loro ne possedeva una uguale, doveva valere una cifra ragguardevole. Certo per lei poteva rappresentare una fortuna insperata e, per la sua povera famiglia un po’ di sicurezza in più per il domani. Era uscita in fretta dalla stalla, mormorando un saluto.
Ora in casa, cercò a tentoni il lume, un po’ d’olio per accenderlo e, gettato uno sguardo verso la culla, uscì in fretta nella notte. Sulla soglia si fermò per un pensiero improvviso e si diresse verso il fienile. In un angolo caldo, protetti dal fieno, stava la gatta con i suoi gattini nati da poco; aprì appena un occhio giallo nel buio riconoscendo la sua mano che la sfiorava.
E lei raccolse velocemente il gattino più piccolo, quello nero e benedetto per il suo colore, lo strinse a sé infilandolo nel grembiule ed assicurandone gli angoli alla cintura. Egli ora l’avrebbe protetta fuori, nella notte.
E già correva sui sassi del sentiero illuminati appena da un brandello di luna; già, abbandonato il paese alle sue spalle, risaliva il pendio del monte a lunghi passi regolari scanditi dal battito del cuore che pulsava forte alle tempie, il pensiero al premio, al bambino, al futuro.
Ed ecco finalmente il pianoro, d’argento sotto la luna, la porta della stalla dietro cui si sente un ansito, uno scalpitare selvaggio.........
Non restava che infilare la mano dietro la porta, afferrare quel maledetto sgabello e poi via correndo, con la bestia alle spalle e il gattino al seno che guaiva nella sua stretta, verso la valle, il paese, laggiù.
Lo raggiunse alle prime luci dell’alba e si accasciò sulla soglia della casa del vecchio; qualcuno la trovò, si accorse di lei, le tolse lo sgabello dalle mani e la fece sedere in casa. Chiamarono gli altri e venne tutto il paese: parlarono, dissero e chiesero. Poi ebbe il premio e, finalmente un po’ di pace.


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