Personaggi che hanno onorato le nostre valli : Carlo Bonatto Minella

La leggenda di Carlo Bonatto Minella

La figura di artista di Carlo Bonatto Minella fu così eccezionale, per il luogo e la famiglia di provenienza e per le vicissitudini della sua breve esistenza, che già pochi decenni dopo la sua morte - ma forse quando ancora era vivo- su di lui fiorirono racconti di vicende alcune delle quali quasi certamente reali e altre quasi certamente false o comunque esagerate.
Ma tant'è: i personaggi veri, quelli che in qualche modo creano "scandalo", nel senso di essere diversi e del tutto nuovi nell'ambiente in cui un misterioso gioco del caso e dei cromosomi li fa nascere e vive re, hanno questo destino difficile da gestire: di destare la fantasia e sovente l'incomprensione di tanti.
La "diversità" di cui sono portatori finisce con l'inserire in una realtà sociale già di per sé anomala per l'isolamento, quel qualcosa in più, che diviene leggenda, talvolta come di favola talaltra come di tragedia, dalla quale non è certo facile districare ciò che appartiene a una vita, individuale e collettiva, veramente vissuta da quanto è stato aggiunto, a ingigantire fatti più semplici ma realmente accaduti o spesso a inventare con la fantasia eventi che ci appaiono talora come probabili ma spesso come impossibili.
È facile immaginare che, nelle lunghe veglie serali e in quelle riunioni invernali che, ancora mezzo secolo fa, si tenevano nelle stalle
- a Frassinetto come altrove - nelle quali i vecchi impreziosivano di ricordi il loro passato e i giovani fiorivano di sogui il loro futuro e dove ogni fatto, anche minore, della comunità, veniva sviscerato, ingigantito, girato e rigirato, fatto oggetto di comprensione o di repulsione, di sorriso o di critica, la presenza di questo giovane così diverso dagli altri suoi coetanei fosse spesso oggetto di pettegolezzo: egli non aveva né il fisico né la volontà di compiere, come gli altri, i duri lavori del contadino della montagna, e neppure quello dell'artigiano del rame o del venditore ambulante che gira per il mondo a gridare il suo mestiere o a decantare la sua povera merce, e quindi diveniva il centro di molte chiacchiere non sempre benevole.
In realtà Carlo era un diverso, fin da bambino, fin da quando il suo primo maestro si accorse delle doti eccezionali di quel piccolo alunno, il quale disegnava volti e animali, case e alberi non come disegna no i bambini, ma con un istintivo senso della prospettiva, con una misteriosa e innata tecnica coloristica che non gli era stata insegnata da nessuno, ma che aveva in sé, come un talento giunto chissà da quali intrecci cromosomici.
Lo prese a benvolere, lo curò con particolare attenzione, e così fece nascere nei suoi compagni invidie e cattiverie. Cose normali, che possono avvenire anche oggi, in una scuola come in una famiglia, perché è difficile per gli adulti, immaginiamo poi per i bambini, capire la verità del detto: "Nulla è più ingiusto che fare parte parti eguali tra disegnali". E il piccolo Carlo era così "diseguale" dagli altri, e silenziosamente invocava aiuto con maggior forza degli altri. Tanto che il maestro ne parlò ai genitori, e quelli gli confermarono che sì, il loro bambino era un poltrone che non amava i lavori, e anche solo mandarlo al pascolo era un problema, perché si incantava ad ammirare il cielo o il volo di un uccel lo, riusciva a distrarsi per una nuvola e gli animali affidatigli sconfina- vano nel pascolo del vicino, mentre lui incideva tranquillamente un bastone ricavandovi immagini strane, e su qualsiasi superficie di muro o su qualsiasi brandello di carta disegnava, disegnava non importa se con un residuo preso ancora caldo dalla carbonera (l'episodio è ricordato dal signor Romano Perono Garoffo, che lo senti raccontare da Agnese, la sorella del pittore) o con una matita acquistata nell'unico negozio del paese che vendeva anche liquirizie e dolcetti, che a lui non interessavano mentre erano la gioia rana e preziosa dei suoi coetanei. Papà e mamma non capi vano che cosa avrebbero potuto fare di quel figliolo che era anche fisicamente debole e si perdeva dietro tante inutilità, e speravano che il maestro e il parroco potessero fare qualcosa, lo ragionassero, lo aiutassero a trovare la sua strada e la volontà di lavorare, come doveva fare, povero rampollo di una famiglia povera, seppur non misera.
Ma né il parroco don Faga né il maestro (che era un altro sacerdote, don Francesco Tarabiono) conoscevano le parole adatte, o comunque non trovavano giusto applicarle al piccolo Carlo: perché capivano che quel bambino anche gracile e dal fisico infelice aveva un talento particolare, e il talento è un dono di Dio. Certo appariva anche a loro, sacerdoti, una cosa stupefacente, quasi un miracolo della potenza, della fantasia del Creatore che da due genitori provenienti da famiglie di alpigiani comuni, in un paese in cui da sempre la realtà quotidiana non conce deva spazio alla poesia e all'arte-(anche se il paesaggio che si presenta al gitante domenicale è ricco di suggestioni poetiche e di colori e di trasparenze meravigliosi) - ma solo al lavoro pesante e poco remunerativo su una terra povera e difficile, fosse nato un bambino che aveva misteriose doti di artista. Ancor più stupefacente per quella comunità alpina sarà stato il momento in cui, con chissà quali sforzi quotidiani e superando chissà quante difficoltà di carattere psicologico, (come poi vedremo, anche indebitandosi pesantemente), forse con qualche piccolo aiuto del maestro e del parroco, i genitori fecero propri il sogno e la speranza del giovane Carlo, che poté scendere a Torino, per frequentare i Corsi dell'Accademia Allbertina, che godeva fama di alta selettività e di grande severità. 11 ragazzo aveva quattordici anni, l'età di ammissione all'Accademia: aveva raggiunto il diplomino delle elementari (a Frassinetto vi era sino alla quanta classe).
L'età non deve stupire; in quei tempi molti maestri di montagna (e non solo) "bocciavano" gli alunni, per ragioni... umanitarie. In tal modo garantivano loro, con la scusa della scuola, un po' di riposo dai pesanti lavori cui erano adibiti in famiglia: e di ciò chi scrive ebbe testimonianza da una anziana maestra che gli raccontò del suo primo impiego in una sede alpestre del comune di Pont C., intorno al 1930: vi sostituiva un vecchio maestro-prete che andava in pensione, che le fece le "consegne", presentò la situazione del luogo, delle famiglie e degli scolari e, tra le altre raccomandazioni, insistette sulla necessità di fermare il più a lungo possibile gli alunni, non solo per motivi culturali, ma anche per dare loro qualche ora di riposo dalle fatiche della campagna.
Anche qui la realtà si innesta con la leggenda: tutto ci fa pensare che il ragazzo di Frassinetto sia stato regolarmente iscritto (Luigi Mallé in I dipinti della Galleria d'Arte Moderna di Torino, specifica: nel 1869): la stessa data, stranamente nel mese di Aprile, abbiamo trovato nei regi stri dell'Accademia; tutti concordano indicando che il giovane aveva 14 anni e che frequentò per otto anni le lezioni come tutti gli altri: forse inizialmente (racconta don Cinotti (1879-1957), che in questo libro citeremo ancora: «Carlo vestiva rozzi panni di montanaro e indossava quelle camicie filate, tessute in casa, che, mi diceva chi lo conobbe, stavano ritte da sé senza bisogno di amido») destò, con l'incosciente crudeltà dei giovani, l'ilarità dei suoi compagni, per quel suo aspetto miserello e un po' goffo, per i vestiti di stoffa grossolana e di taglio approssimativo, per il cappello a cencio, per le scarpe chiodate che avevano la forma degli zoccoli; ma ben presto sappiamo che l'iniziale presa in giro si trasformò in ammirato rispetto per quel qualcosa in più che andava dimostrando: così come avviene tra i giovani, che sanno passare rapidamente da un sentimento all'altro e sono capaci di giudicare e di apprezzare tanto il valore di un insegnante quanto la superiorità di un loro compagno, soprattutto se questi è timido e gentile. Una leggenda poetica invece infiora il primo impatto di Carlo con i suoi compagni di scuola in modo del tutto diverso e racconta di quel montanaro adolescente che è sceso da Frassinetto ma non ha i soldi per iscriversi all'Accademia, e allora si intrufola di soppiatto nei locali del grande ed elegante edificio per vedere qual cosa, per rubare qualche parola, per impadronirsi di qualche nozione; un giorno ardisce di più e, dal vano di una finestra, curiosa nell'interno dell'aula dove tanti giovani più fortunati stanno eseguendo il compito assegnato: riprodurre sulla carta un modello che posa per loro.
Il montanaro si accoccola per terna, sistema il foglio su una cartella appoggiata alle ginocchia, prova anche lui ... così lo sorprende il severo professore Andrea Gastaldi che lo rimbrotta: «Che stai facendo qui? Che cosa curiosi? Non lo sai che è proibito?», e quasi gli strappa il foglio dalle mani, e guarda, e rimane stupefatto, incredulo. Nessuno dei suoi allievi è stato altrettanto bravo, nessuno... E un ragazzo spaurito quello che risponde alle domande del già famoso professore (che con Enrico Gamba ne diverrà prezioso e venerato maestro) che ora non è più burbero, e si commuove alle risposte semplici, alla storia di questo giovane sceso dalla montagna canavesana («rozzo e quasi deforme nel fisico» scrive, credo esagerando un po', il Mallé) ma che ha negli occhi il fuoco dell'arte e nelle mani un dono di Dio. Prende per un braccio quel ragazzo sconosciuto e lo accompagna nell'aula, lo presenta agli studenti: «D'ora in poi questo sarà un vostro compagno, e siederà con voi». Lo impone all'amministrazione, al direttore, alla scuola. Perché ha scoperto finalmente quello che cercava da sempre: un artista genuino e vero, disposto a sacrificare tutto, sull'altare dell'arte.
Molto concorda nell'includere questo racconto nel mondo del l'invenzione e della leggenda: e come tale la presentiamo al lettore.
Ma ciò non toglie che sia bello e commovente pensare che sia andata proprio così, che i pochi soldi che gli erano stati dati o che ricavava dalla vendita di caciuole e verdure che portava da casa non fossero sufficienti sia per avere un letto e per fornirsi di latte e pane (suo unico cibo per gli otto anni torinesi) sia per iscriversi alla scuola e per comprare i fogli su cui disegnare, e i colori e tutto il resto, e che allora siano intervenute l'intuizione e la sensibilità di un educatore e la generosità di una burocrazia scolastica finalmente aperta e disponibile, ad aiutare quel giovane talento.
Certamente il suo fisico, già debole, ancona più a Torino si indebolì; l'aria cittadina, i sacrifici, il freddo fecero il resto e forse un'anemia (anche se tutti parlano sempre e solo di tubercolosi, il grande e un po' romantico male del secolo) si aggiunse alla tisi per minarne irrimediabilmente la salute.
O anche la vita dell'adolescente Carlo Bonatto Minella obbedisce a un diverso percorso obbligato, e il suo rapido declino fisico era già scritto in qualche suo gene, quasi che alla miracolosa, rapida maturità artistica si fosse accompagnato un contemporaneo e altrettanto rapido invecchiamento fisiologico. Forse al riconosciuto suo valore, alla riscontrata debolezza fisica, alla totale perdita di ogni risorsa economica familiare si deve l'assegnazione, non provata ma che pane certa, da parte dell'Accademia, di una stanza, una soffitta all'ultimo piano, naturalmente non riscaldata, nell'interno del palazzo, ove egli potesse avere un luogo in cui studiare e dipingere e un rifugio per la notte.
Ma il mito ha bisogno di scrivere pagine più avventurose per i personaggi che esso sceglie. E allora inventa, o colora o accresce particolari che rendono quell'essere ancora più mitico, la sua vita e le sue vicissitudini ancora più suggestive, addirittura le fa credibili proprio perché incredibili.
Giuseppe Naretto racconta (Prisma Canavesano, 1947) di suoi compaesani e coetanei forse solo ignoranti, forse solo crudeli, o chissà, forse solo invidiosi, che lo aspettano lungo la mulattiera, una sera, al suo ritorno da Torino, e lo picchiano pesantemente, e lo ingiuriano perché è un essere inutile, un mangiapane a tradimento: ove il tradimento è essere diverso, è soprattutto non sgobbare come loro, a lavorare nel gelo dell'inverno o nel sole dell'estate, a tagliare alberi, a trasportarli con le slitte lungo i canaloni gelati, a bruciarsi il viso nella vampa delle carbonaie o delle forge nelle piccole bòite del paese; oppure a ricavare lose e sabbie dalle cave, a tagliare l'erba dei pascoli, a caricarsi d'ogni cosa per portarla a spalla sul ripido sentiero che sale da Pont C. a Frassinetto, e poi su agli alpeggi, e qui ogni giorno mungere e trafficare per avere il burro e i formaggi da vendere ai mercati della pianura... tuttalpiù per i più fortunati girare e girare tra gente sconosciuta, dal Piemonte alla Lombardia, alla Liguria, alla Francia, a gridare sotto ogni finestra «Magnin, magnin!», e lavorare sulla piazza d'un paese sempre differente e comunque straniero, per riparare utensili e stagnare pentole, oppure andare per le campagne a vendere le tele tessute nelle stalle dalle loro donne (bambine, giovani, vecchie), o trascinare il baracchino e fare l'arrotino ambulante ... e poi a elemosinare un angolo di una stalla o di un portico per riposare la notte. Lui, Carlo, no, niente di questo: vive a sbafo, poltrone e inutile, tranquillo davanti a un cavalletto, a gingillarsi con pennelli e colori, e quando la Chiesa del suo paese vuole un suo quadro, ha ancora il coraggio di chiedere che qualcuno, il parroco o il sindaco, gli dia qualche lira. Vera o falsa che sia (e io sono propenso a credere che sia falsa) la vicenda delle botte date al pittore può però corrispondere in qualche modo alla mentalità più retrograda, ma anche giustificabile in un mondo come quello contadino e alpino di oltre un secolo fa, di qualcuno che, forse senza malizia, ha espresso il suo pensiero, in un crocchio domenicale sulla piazza o in una discussione serale nella stalla: «Carlo fa un lavoro inutile e comodo; noi invece sgobbiamo tutta la settimana. Se fosse mio figlio, con qualche ceffone o anche qualcosa di più lo drizzerei e gli farei venire la voglia di lavorare, altro che indebitarmi per man tenerlo a poltrire a Torino».
E così l'ipotesi da un'opinione teorica divenne leggenda che non si fermò qui, alle botte lungo la mulattiera; ancor oggi vi è a Frassinetto chi è pronto a esporre i suoi dubbi sui motivi della morte del giovane:non di tisi si sarebbe trattato, ma di un omicidio.
Qui certamente siamo nella più tetra e totale fantasia, che accomuna la morte di questo giovane a quella di altri (un prete medicone di Feletto, un parroco di Cuorgnè...) uccisi in un modo classico e che si dice non lasci tracce evidenti: decisi colpi nella schiena servendosi di sacchetti di sabbia, sino a provocare lesioni interne che nel volgere di qualche giorno portano alla morte che tutto fa credere originata da cause naturali, senza lasciare alcuna traccia esterna.
Leggende "metropolitane" che non hanno alcun legame con la realtà: ma, ripeto ancora una volta, dimostrano lo "spessore" di questo giovane divenuto subito un personaggio.


Queste informazioni  sono tratte dal libro "Carlo Bonatto Minella" scritto dal Professor Angelo Paviolo, reperibile presso le principali librerie del Canavese oppure presso la pro loco di Frassinetto.