Ottobre, Fides e Honor Decimo mese dell’anno secondo il calendario Gregoriano, ottobre
prende il nome dal numero otto poiché nell’Antica Roma, prima che Giulio Cesare promulgasse il Calendario Giuliano, spostando l’inizio dell’anno al 1 gennaio, quello era l’ottavo mese. Il mese di Ottobre, nel calendario religioso dell’antica Roma, si apriva con le celebrazioni di Fides e Honor. Fides era una delle divinità principali che teneva bel saldo il legame tra i cittadini romani, così come Pietas regolava il rapporto con gli Dèi. Allora ogni uomo romano portava sulle sue spalle, oltre ai vectigalia, le nostre imposte e le cose per mangiare, quattro o cinque pali semplicemente per fare lo steccato la sera. Perché quando calava il sole i Romani ricostruivano fisicamente una fortezza. Ma questo non era tanto per pararsi da attacchi improvvisi, quanto per possedere il terreno e consacrarlo. Il piantare un palo, l’impiantamento in latino, pactio, proprio pactio, come pactus. Che era il rapporto che il Romano di allora aveva con gli altri e con gli Dèi. Quindi la fides, poi con il mondo degli Dèi. Nel campo degli uomini quello che domina è lo ius, nel campo degli Dèi ciò che domina è il fas. Sono i due piani, il piano terrestre e il piano celeste. Ora, quello che realmente, su cui conviene riflettere, è questo senso profondo di interiorizzazione dell’ambiente e allo stesso tempo di proiezione della propria interiorità sul luogo dove ci si trova. La Roma antica e la natura dell’essere romano non nasce dalla natura animale: è stato un atto di volontà. Un atto di volontà che è stato consacrato da due atti: un atto giuridico per cui gli uomini si son dati reciprocamente la fides e un atto sacrale che era la pax deorum. Pax in latino non significa la “pace” e tantomeno significa l’ipocrita anglosassone peace, la “pace” per fli antichi Romani significava un’altra cosa: lo “stare in rapporto con gli Dèi”, la pax deorum.” des veniva celebrata dai tre Flamini maggiori, i sacerdoti cioè addetti al culto di Giove, Marte e Quirino, riuniti , che si recavano al suo tempio su di un carro coperto, trainato da due cavalli. I flamini officiavano il culto con le mani coperte fino alle dita, come simbolo della custodia della fede. Era un momento di straordinaria unità del popolo romano e di esso con i suoi dèi: tutti erano assolutamente certi che ognuno stesse svolgendo la sua funzione nel miglior modo possibile. E non è un caso che pochi giorni dopo, il 7 di ottobre precisamente, si ricordasse Giove folgoratore: era proprio la folgore che avrebbe colpito i colpevoli di spergiuro. A tal proposito, Tito Livio, ci tramanda l’episodio di Mezio Fufezio, comandante di Alba Longa. Il vittorioso combattimento degli Orazi, guerrieri rappresentanti Roma, contro i Curiazi, che si battevano per Alba Longa, aveva appena stabilito che l’Urbe avrebbe avuto la supremazia tra le due città, legate comunque da antichissimi vincoli. Nella guerra che Roma aveva intrapreso subito dopo contro Vejo e i fidenati però, Mezio Fufezio anziché schierare le truppe di Alba Longa sin da subito in campo con gli alleati romani, aveva preferito starsene in disparte per capire prima chi avrebbe vinto la battaglia. Dopo che la vittoria fu ottenuta dai romani, il Re di Roma Tullo Ostilio invitò gli albani a condividere lo stesso accampamento, per i festeggiamenti. Ma quando gli albani vi entrarono disarmati, per assistere all’assemblea pubblica di ringraziamento, Tullo Ostilio li fece circondare dai propri soldati armati, e pronunciò un discorso, in cui accusò Mezio Fufezio di tradimento: “Mezio Fufezio, se tu fossi in grado di apprendere la lealtà e il rispetto dei trattati, ti lascerei in vita e potresti venire a lezione da me. Ma siccome la tua è una disposizione caratteriale immodificabile, col tuo supplizio insegna al genere umano a mantenere i sacri vincoli che hai violato. Pertanto, come poco fa la tua mente era divisa tra Fidene e Roma, ora tocca al tuo corpo essere diviso.” Il suo corpo fu legato a due cavalli, spronati a correre in direzioni opposte: Mezio Fufezio morì squartato, Alba Longa fu distrutta, e i suoi abitanti furono portati a Roma, sul colle Celio. Dagli esempi del nostro passato si devono trarre insegnamenti per il nostro vivere quotidiano. Oltre all’inevitabile condanna per chi non è in grado di mantenere fedeltà ai patti, dobbiamo ritrovare, anzi proprio ricreare quel legame univa tutti i romani, partendo dalle piccole cose: ad esempio tenere fede alla parola data, anche nelle situazioni più banali. Avere la consapevolezza che agire nel mondo incarnando queste forze, corrisponde ad accrescerle e a renderle manifeste. Fides raccoglie le tre funzioni principali e le salda in un legame che ha come riflesso la Vittoria che si manifesta su tutti i piani superiori e inferiori. L’augurio per la nostra stirpe è che possano risuonare ancora le strofe del Carmen saeculare di Orazio: “Iam Fides et Pax et Honos Pudorque – priscus et neglecta redire Virtus – audet adparetque beata pleno cornu”. Già Fede e Pace, e Onore e il Pudore prisco e la Virtù negletta osano tornare; e già beata col suo corno pieno viene l’Abbondanza. In questo mese oggi abbiamo la festa dei nonni e quella importata di Halloween, ed entriamo nel cuore dell’autunno ed il verde della vegetazione cede il posto ad altri colori delle foglie che si tingono di rosso, giallo, arancio e marrone. Legato al ciclo annuale della vite, il mese in questione è strettamente connesso ai lavori nelle campagne dove, finita la lavorazione dei terreni e raccolti gli ultimi tagli delle foraggifere, ci si prepara alla semina del grano. Molti sono i frutti e gli ortaggi che il mese di ottobre ci regala, così come curiosità molto affascinanti. Fino al 1976 la scuola iniziava per tutti, senza differenze tra le regioni italiane, il 1 ottobre e gli studenti venivano chiamati “remigini” come il Santo celebrato il 1 ottobre, San Remigio. Con la legge n° 517 del 4 agosto 1977 tutto è cambiato. In particolare, all’articolo 11 si legge che il Ministro per la pubblica istruzione, sentito il Consiglio nazionale della pubblica istruzione, ogni 3 anni, entro il 31 dicembre, determina con suo decreto il calendario scolastico per i vari ordini di scuola, fissando la data di inizio e il termine delle lezioni rispettivamente tra 10 e 20 settembre e tra 10 e 30 giugno.
Favria, 1.10.2024 Giorgio Cortese
Buona giornata. Siamo arrivati ai primi giorni di ottobre. Quel che resta è una malinconia sottile e diffusa, che sa di ritorni impossibili all’estate. Eppure, nonostante gli addii, c’è una luce nuova che mi invita all’interiorità, ai progetti, alle scelte. Felice martedì
Scarabocchio.
La parola scarabocchio significa macchia d’inchiostro fatta scrivendo, una parola mal scritta, quasi illeggibile, tanto da sembrare uno schizzo. Secondo gli studiosi di etimologia, la parola ha origine incerta; per alcuni verrebbe da scarabotto, scarafaggio, mentre per altri nasce dalla fusione di due parole francesi: escharbot, scarafaggio, e escargot, chiocciola; e per spiegarlo si richiama la macchia d’inchiostro simile all’impronta di uno scarafaggio. Anche la parola sgorbio, che indica una macchia d’inchiostro fatta per disattenzione, per imperizia o per caso, trae la propria origine da una parola greca che si riferisce a un animale, skórpios, lo scorpione, sempre per somiglianza. Se possedessimo una scienza degli errori grafici, degli sbagli di scrittura, che per comodità potremmo chiamare Errografia, quasi certamente dovrebbe occuparsi delle analogie tra sgorbi, schizzi, sfregi, baffi e profili di animali. Per alcuni studiosi lo scarabocchio è uno spostamento di tensione, simile ad un’attività sostitutiva. Scarabocchiare un foglietto durante una telefonata è, per esempio, una attività diversiva, che non occupa la mente, che sfugge alla concentrazione. Questo atto involontario sovverte i consigli virtuosi che ci invitano ad anteporre il dovere al piacere. Qui, a detta degli studiosi, si separano l’artista e il dilettante: il primo “deve fare uno sforzo” per ottenere una forma, mentre il profano, come il sottoscritto, produce in modo occasionale e in modo distratto. Siamo tutti creativi, ma l’artista lavora anche, sino al punto da essere così bravo da nascondere la fatica del suo gesto, fatica un copista copista medievale descriveva così: “Chi non sa scrivere non s’immagina neppure che lavoraccio è: due dita scrivono e tutte le altre membra soffrono!”.
Favria, 2.10.2024 Giorgio Cortese
Buona giornata. Il mese di ottobre è il mese dei ricordi, del caldo abbraccio della natura tra il verde dell’erba e il bruno degli alberi che infondono speranza. Felice mercoedì.
3 ottobre 1937
Massacro del prezzemolo.
L’Isola di Hispaniola e la seconda delle Antille dopo Cuba. Ad ovest lo stato di Haiti occupa il 36% della superficie, a est la Repubblica Dominicana il restante 64%. I dominicani sono latini, parlano spagnolo e si vantano delle loro origini occidentali; gli haitiani, invece, parlano il creolo e sono di pelle scura perché in gran parte discendenti dagli schiavi africani. Appoggiato dagli Stati Uniti, che per otto anni avevano occupato l’intera isola, nella Repubblica Dominicana, era il 1930, quando sali al potere Rafael Leonidas Trujillo, che inauguro un duro regime dittatoriale destinato a durare 31 anni. Ferocemente razzista, nonostante fosse lui stesso mulatto, Trujillo diede il via a un processo di “dominicanizzazione” nella zona di frontiera dove negli anni si erano ammassati gli haitiani, emigrati per lavorare come tagliatori nelle piantagioni di canna da zucchero. La pulizia etnica trovo la sua piena attuazione con il cosiddetto “Massacro del prezzemolo” Masacre del perejil, che inizio il 3 ottobre 1937. Lo stratagemma studiato dai militari era abbastanza semplice e al tempo stesso di inaudita ferocia. Sapendo che gli haitiani parlavano il creolo e non lo spagnolo, chiunque non fosse stato in grado di pronunciare correttamente la parola “perejil” veniva identificato come haitiano e subito ucciso. Quelli che cercavano di fuggire e rientrare nel proprio Paese, venivano ugualmente ammazzati e buttati nel fiume che divide i due stati. Il pogrom costò la vita a circa 30mila persone. Inoltre i militari, per non essere riconosciuti come autori della strage, uccidevano le persone all’arma bianca, con coltello e machete, in modo da attribuire la responsabilità degli omicidi al popolo domenicano, esasperato dalla presenza degli haitiani.
Favria 3.10.2024 Giorgio Cortese
Buona giornata. L’estate svanisce e passa, e arriva ottobre, il mese perfetto per fare progetti. C’è quella temperatura che matura ogni cosa: le vigne, i colori e i pensieri ed infonde nell’animo: speranza, serenità ed ottimismo Felice giovedì
L’Orient Express 4 ottobre
Simbolo della Belle Époque, l’Orient Express, il servizio ferroviario di extralusso che avrebbe collegato Parigi e Istanbul assecondando lo spirito cosmopolita del tempo, parti per il viaggio inaugurale dalla stazione parigina della Gare de l’Est il 4 ottobre 1883. Il treno era formato da tre carrozze, due vagoni letto, una carrozza ristorante e due vagoni
per i bagagli. Ogni vagone, realizzato in legno di tek, riscaldato a vapore, illuminato da lampade a gas, era lungo circa 17 metri. Dopo aver toccato Strasburgo, Monaco, Vienna, Budapest e Bucarest, nella città rumena di Giurgiu i passeggeri attraversarono il Danubio in traghetto fino alla vicina Ruse, in Bulgaria, e da li un altro treno li porto al porto bulgaro di Varna sul Mar Nero da dove, con un battello a vapore, raggiunsero Costantinopoli. I fortunati ospiti del primo Orient Express impiegarono in totale 81,5 ore per attraversare l’Europa. Il primo viaggio si concluse con un sontuoso ricevimento al Palazzo di Topkapi, organizzato dal sultano ottomano Abdulhamid II. L’artefice di questo sfarzoso Grand Hotel su rotaie fu l’ingegnere belga Georges Nagelmackers, affascinato dall’Oriente e convinto della possibilità di coniugare il concetto di viaggio a quello dell’esclusività. Attraversare il continente da ovest a est immersi nel lusso si rivelo una scommessa vincente che getto le basi di uno dei più celebri servizi ferroviari del mondo. Reali, aristocratici, artisti e avventurieri affollarono i suoi vagoni contribuendo a costruirne la leggenda.
Favria, 4.10.2024 Cortese Giorgio
Buona giornata. La vita è simile all’altalena, a volte scendi ma dopo Sali sempre in alto, l’importante che Dio tenga ben salde le catene della seggiola dove sono seduto. Felice venerdì.
W l’italiana più famosa: la pizza!
In tutto il mondo la pizza è una celebrità, tanto da essere riconosciuta patrimonio culturale dell’umanità dall’Unesco. Sapete quali sono le due città del mondo dove sono aperte più pizzerie? New York e San Paolo del Brasile. Questo è solo un esempio di quanto la pizza sia oramai una ricetta globale, oltre che un simbolo dell’identità culinaria italiana e, in particolare, napoletana. A consacrare la “mondializzazione” di questo piatto è arrivata nel 2017 anche l’Unesco, l’organizzazione dell’Onu che salvaguarda cultura, scienza e tradizioni, che ha inserito l’arte del “pizzaiuolo napoletano” nel novero del patrimonio culturale dell’umanità. Insomma, ne è passata di acqua sotto i ponti da quando la pizza era un semplice cibo di strada della Napoli del tempo che fu. La pizza che mangiamo abitualmente, tonda, cotta al forno a legna e guarnita con pomodoro, mozzarella, è sicuramente partenopea doc. Però il nostro “cerchio” di pasta affonda le sue radici lontano da Napoli. Già nella Mesopotamia preistorica, quando nacquero i primi forni, si usavano cuocere degli impasti di acqua, sale e farina. Questi impasti erano schiacciati e sottili per velocizzarne la cottura e somigliavano più a focacce che alle pizze odierne. I Romani presero l’abitudine di dare a questi impasti una forma tondeggiante, facendole cuocere in contenitori rotondi di rame. Poi le usavano come “piatti”, su cui appoggiare le varie pietanze. Così alla fine, chi voleva, si mangiava anche il piatto! Vi sono molte ipotesi sull’origine del nome “pizza”. Quella più accreditata parla di una derivazione da un antico termine longobardo, bizzen, che significava “morso”. I Longobardi controllarono l’area napoletana per molti secoli a cavallo dell’anno Mille e bizzen si volgarizzò in “bizzo” oppure “pizzo”. Sempre attorno al Mille risalgono le prime attestazioni scritte della parola “pizza”, un alimento che in molti documenti medievali fa parte dei canoni che i contadini dovevano corrispondere ai signori ogni anno. In molti documenti della curia romana risalenti al Medioevo si parla invece di “pissas”, anche se più che una pizza era una schiacciata di farina impastata e condita con aglio, strutto e sale grosso. Del 1535 è una attestazione fondamentale. Il poeta Benedetto di Falco nella sua Descrizione dei luoghi antichi di Napoli affermò senza tema di smentita che la “focaccia, in napoletano, è detta pizza”. Nel capoluogo campano, sempre nel Cinquecento, avvennero alcune innovazioni fondamentali. Lo strutto venne progressivamente sostituito dall’olio d’oliva e vennero previste come guarnizioni formaggio ed erbe aromatiche, prima fra tutte l’origano. Agli inizi del Seicento debutta la prima pizza verace partenopea conosciuta, la pizza alla Mastunicola, cioè del “maestro Nicola”, che usava ancora lo strutto ed era guarnita di formaggio, tipo caciocavallo. Secondo alcuni però Mastunicola deriverebbe da Vasinicola, termine che in napoletano indica un ingrediente fondamentale della pizza: il basilico. Mancavano ancora all’appello pomodoro e mozzarella. Il primo cominciò a essere coltivato largamente nel Napoletano a fine Settecento e, sotto forma di passata, venne ben presto usato per condire la pasta e anche la pizza. Negli stessi anni, sempre nel Regno di Napoli, venne incentivato l’allevamento delle bufale, con cui produrre formaggi e mozzarelle. Così nel 1858 Francesco De Bourcard nel suo Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti poté presentare, tra le vere pizze partenopee, anche quella con mozzarella. Il dado era oramai quasi tratto e la tradizione fa risalire a una visita a Napoli del re d’Italia Umberto I e della consorte Margherita la prima celebrazione nazionale della pizza. Era il 1889 e la coppia reale venne accolta dal rinomatissimo pizzaiolo Raffaele Esposito, che preparò al re e la regina la pizza alla Mastunicola, quella alla Marinara, pomodoro, aglio, olio e origano, e la pizza pomodoro, mozzarella, origano. Una pizza tricolore per celebrare l’Italia nata da poco: fu tanto apprezzata dalla regina che alla fine venne chiamata come lei: Margherita. Paradossalmente la pizza napoletana divenne famosa negli Stati Uniti prima che nel resto del Patrio stivale. A fine ’800 seguì, infatti, gli emigranti napoletani che si recavano in America. Nell’Italia Settentrionale è diventata comune soltanto nel Dopoguerra, sempre in seguito alla forte immigrazione. Al di fuori di Napoli però esistono molte varianti locali. La pizza romana è tonda, senza cornicione, con pasta sottile e molto croccante. L’impasto, più coriaceo di quello napoletano, va steso col mattarello invece che con le mani. La pizza genovese, derivata dalla focaccia, viene cotta in teglia ed è piuttosto alta e morbida. La pizza pisana è tonda, di medio spessore, condita con grana o mozzarella, acciughe e capperi. A Torino si è imposta invece la pizza al tegamino in cui si usa un impasto a doppia lievitatura che viene cotto in forno in un piccolo tegame. Personalmente l’odore della pizza in cottura a me fa sempre venire l’acquolina in bocca, mi apre lo stomaco ed è irresistibile. Lo sento e non posso dire di no, perché lo accolgo come un anticipo formidabile della goduria che verrà. Buona pizza a tutti.
Favria, 5.10.2024 Giorgio Cortese
Buona giornata. Ottobre è lo stupore della freccia silenziosa che colpisce un acino d’uva
e lo trasforma in vino. Felice sabato
La via Appia
La Via Appia Antica e il 60mo sito Unesco Italiano. A deliberarlo Comitato del Patrimonio Mondiale. Nota ai Romani come Regina viarum, regina delle vie, l’Appia Antica si estende attraverso quattro regioni italiane, Lazio, Campania, Basilicata e Puglia, dalle propaggini sud-orientali della Capitale sino a Brindisi, attraverso le province di Roma, Latina, Caserta, Benevento, Potenza, Matera, Taranto e Brindisi. Il tratto meglio conservato e quello alle porte della Capitale, incorniciato nel Parco regionale dell’Appia Antica. La tratta più antica risale al 312 a.C. e fu creata per collegare Roma a Capua, Santa Maria di Capua Vetere. Successivamente, l’Appia antica fu prolungata a più riprese, man mano che la Repubblica riusciva ad annettersi territori dell’Italia meridionale: prima fino a Benevento, dopo il 268 a.C., poi attraverso gli Appennini, fino a Venosa, e ancora fino a Taranto. Infine, nel II secolo a.C., raggiunse Brindisi. Il progetto rivela una concezione sorprendentemente moderna: la strada aggira tutte le citta intermedie e punta dritta alla meta, facendo ampio uso di ponti, viadotti e gallerie che assicuravano un percorso rettilineo attraverso distese d’acqua, paludi e montagne. La Via Appia testimonia anche la rivoluzione apportata dai Romani nella costruzione delle strade. Fino ad allora le strade erano poco più che piste sterrate che ad ogni pioggia diventavano impraticabili per i veicoli a ruote. I Romani concepirono specifici fondi stradali, che assicurano drenaggio e stabilita. Venivano pavimentati con lastre di basalto lavorato, ravvicinate, garantendo cosi la percorribilità in ogni condizione atmosferica. Tecnica che ha consentito loro di costruire una vasta rete rimasta in uso per secoli e che ancora oggi costituisce la spina dorsale della viabilità di tutti i Paesi dell’area mediterranea.
Favria, 6.10.2024 Giorgio Cortese
Buona giornata. La speranza è la quotidiana forza che ci permette di non rinunciare ai nostri sogni. Felice domenica.
L’Unitre di Cuorgnè riparte con i corsi anno 2024 – 2025
L’Unitre Cuorgnè è una realtà socioculturale universitaria di volontariato costituente un centro di aggregazione e di formazione permanente per persone di tutte le età, senza distinzione di condizione sociale, di cultura, di nazionalità, di convinzioni politiche e religiose. L’Unitre è l’università per tutte le età per un vero incontro generazionale, sono infatti presenti insieme giovani e meno giovani per un incontro di scambio tra generazioni che favorisca la crescita di cultura e di spirito critico in tutte le età, secondo la proposta dei ricchi percorsi proposti per l’anno accademico 2024 – 2025 con ben 32 corsi presso la ex Chiesa della Santissima Trinità, iscrizioni tutti i mercoledì delle conferenze ore 14,30/15,30, oltre
Corso di ginnastica dolce – Docente: Simone Galvani
Corso di Inglese e Francese – Docente: Daniela Bertino
Corso di canto corale: Docente: Giovanni Usai
Corso di disegno – Docente: Giuseppe Pietro Obertino
Supporto per uso di Smartphone e pc – Docente:Angelo Tomasi Cont
Amici della lettura – Docente: Manuela Muzzolini
Fotografare: i consigli di un amico – Docente: Osvaldo Marchetti
“Progetto di facilitazione digitale: da definire) Docente Mariachiara Santoro
Poi si terranno gite e passeggiate o nuove iniziative che saranno comunicate durante le conferenze del mercoledì e attraverso whatsapp. Cosa aspettate da qualche parte, qualcosa di incredibile attende di essere conosciuto e la strada che porta alla conoscenza è una strada che passa per dei buoni incontri con L’Unitre di Cuorgnè. Conferenza inaugurale mercoledì 9 ottobre ore15,30 ex Chiesa SS Trinità- via Milite Ignoto a Cuorgnè dal titolo “CROCEROSSA ITALIANA CORPO DELLE INFERMIERE VOLONTARIE” Tra tradizione ed innovazione 116 anni di Storia a fianco degli italiani”. Docente Sara Bertone
Per informazioni contattare la Direttrice dei corsi Maria Calvi di Coenzo cell. 3473617703
Cuorgnè,7.10.2024 Giorgio Cortese
Buona giornata. Ogni giorno la speranza dell’animo mi suggerisce che c’è del bello nel mondo… basta crederci. Felice lunedì
L’UNITRE RIVAROLO; FAVRIA, FELETTO
nel 2025 festeggerà il ventesimo anniversario di fondazione.
Per l’anno accademico 2024/25 il direttivo ha messo a punto un programma di conferenze ricco e articolato sui diversi ambiti culturali, letterari, scientifici, artistici, con l’intento di stimolare la curiosità e l’interesse degli iscritti. Come tradizione, verranno attivati i laboratori di yoga, di teatro, di balli popolari, di lingua inglese e di pasticceria. Sono in programma diverse gite culturali e enogastronomiche. Le conferenze si svolgeranno il mercoledì pomeriggio, dalle 15 alle 16,30, nel salone comunale di via Montenero 12. Sarà possibile iscriversi, nella saletta delle minoranze a Rivarolo in via Ivrea 58, martedì 1 ottobre dalle 16 alle 18, giovedì 3 ottobre dalle 16 alle 18 e sabato 5 ottobre dalle 10 alle 12. Per ulteriori notizie e per prendere visione del programma del 2024/25 si può consultare il sito web dell’associazione: https://www.unitre-rivarolofavriafeletto.it/
Ogni 11 secondi.
Ogni 11 secondi, in Italia, una persona ha bisogno di una trasfusione di sangue, il potere di salvare la vita l’abbiamo nel sangue. Vieni a donare il sangue, vieni a donare a Favria *MERCOLEDI’ 16 OTTOBRE *, cortile interno del Comune dalle ore 8 alle ore 11,20. Abbiamo bisogno anche di Te. Attenzione, per evitare assembramenti è necessario sempre prenotare e portare sempre dietro documento identità. a Grazie per la vostra collaborazione. Per info, Cell. 3331714827. Ricordo i requisiti minimi per donare: età compresa tra i 18 e i 60 per la prima volta, poi dai 65 a 70 anni, l’idoneità a donare va valutata dal medico. Grazie se fate passa parola e divulgate il messaggio.