Parpagliola, parpajon,..parpaja! – Cenestesi. – La malapianta dell’egoismo – La ricerca della furbizia. – I Sarmati. – Prandona – Da Giunone alla moneta! – Damocle e la spada. – Certi giorni. – Da vignano o cimosa alla pezza e non solo…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Parpagliola, parpajon,..parpaja!
Ho trovato in un libro la parola parpagliola che era all’epoca della prima conquista francese di Milano nel sec. XV era una moneta allora del valore di due soldi e mezzo o ottavo di lira, che prese questa denominazione dal francese parpaillole. Il nome venne esteso a monete similari di molti altri luoghi, anche di valore inferiore. Ricomparve sotto Napoleone I nel 1808. Secondo alcuni la parola deriva dal francese parpaillole, voce di origine provenzale, di etimo incerto, forse affine alla monete dette perpero, valute storiche dell’area balcanica, adattamento di hyperperum che era una moneta coniata nell’Impero di Bisanzio tra la fine del XI secolo e la metà del XIV. In greco hyperpyros significa, infuocato, cioè purgato dal fuoco. Questa parola mi ricorda quanto affermava mia suocera quando nevicava fitto in Inverno: parpajon! Con il significato di farfalla, fiocchi di neve che quando cadono sembrano che danzino come le farfalle in estate. Voce che deriva dal provenzale parpalhon, farfalla. Dalla stessa radice provenzale la parola parpajonè, sbattere le palpebre e perpèila, ciglia e sopraciglia, parpignè o sparignè sbattere velocemente le ciglia. Adesso smetto se no mi mandate a parpaja, il modo di dire è va an parpaja, cioè vado nascondermi in un luogo immaginario, l’etimo di questa colorita espressione è paja e parpajion che rimandano a parpaja la femmina del baco da seta.
Favria, 4.08.2020 Giorgio Cortese

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Cenestesi.
La presenza di certe persone mi provoca nell’animo la cenestesi. Mi spiego la cenestesi è una sensazione generale del corpo o nell’animo, di solito notata solo quando viene turbato. La parola deriva dal greco koinos, comune e aisthesis, sensazione. la cenestesi è letteralmente la sensazione comune del corpo. Non quella che percepiamo dal giornalismo degli organi di senso con cui diamo l’assalto alla realtà, ma quella interna, sottile e complessa, indescrivibile da vista, udito, tatto. Può essere una sensazione di benessere, o di malessere, come nel mio caso. Una vibrazione negativa di fastidio per i farlocchi. Pensate che si usa anche nel diritto, per indicare una cenestesi lavorativa, cioè la normale fatica da lavoro, che certi danni biologici possono aggravare. Certo è un concetto più facile da intendere che spiegare ma è la cenestesi!
Favria, 5.08.2020 Giorgio Cortese

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La malapianta dell’egoismo
Nelle prossime generazioni quando si studierà la storia attuale la domanda che sorgerà d’obbligo se sia nata prima la reazione alla grande paura dei migranti o se viceversa fosse stato il persistente egoismo di un’Europa in crisi economica, politica e morale e non più in grado di restare unita a seminarne la malapianta. Le prossime generazioni si chiederanno allora come si è giunti al rifiuto di un Paese civile e mite come l’Austria di ospitare nuovi migranti al punto da chiudere i propri varchi, così come avevano fatto la Macedonia, l’Ungheria, la Croazia e la Slovenia, imbottigliando le lunghe schiere di profughi in una strada senza uscita in Grecia. E poi le repubbliche uscite dalla lunga dittatura comunista dell’Unione Sovietica, Repubblica Ceca, Polonia, Ungheria e Slovacchia e le tre Repubbliche baltiche, Lettonia, che nei futuri testi incarneranno alla perfezione l’immagine di quella Grande Paura che in quel periodo stava frantumando l’Europa spingendola progressivamente verso una spaccatura frontale con se stessa e con l’idea che l’Europa dei fondatori aveva di sé. Ma io che vivo adesso nel presente l’Europa che che ho sotto gli occhi oggi è un’Europa capace di costruire muri, di stendere reti di filo spinato, di solleticare la pancia sorda dell’opinione pubblica con slogan brutali, in grado però di far crescere la fortuna elettorale di chiunque impugni lo stendardo della xenofobia, del razzismo, dell’euroscetticismo. Per tutti loro, per i loro leader, per i loro sostenitori i profughi e i migranti economici sono una minaccia, non una risorsa, soltanto un problema da risolvere, non prima di tutto persone con problemi da affrontare ed energie e competenze da valorizzare. Per tutti loro l’Europa di Schengen, quella della solidarietà fra i popoli nella sicurezza, è un’utopia fallita e in parte hanno ragione. Da ragioniere se oggi assommo gli egoismi nazionali, le miserie contabili, le ottusità nelle normative e l’inconsistenza degli eletti al parlamento Europeo, è si, hanno amaramente ragione! E adesso che siamo ad una progressivo appassimento dell’identità europea che rinsecchisce valori e speranze consentendo ai populismi nascenti di proliferare sulla delusione collettiva, la stessa Comunità Europea ci mette del suo non dando delle risposte efficaci, con un proliferare di vertici dove vengono stilate delle bozze, dove per quieto vivere politico i concetti essenziali di una società civile sono anestetizzati in freddo burocratese. Adesso vivo in un Europa che arriva a pagare il vicino, la Turchia per nascondere il problema, e dove lì i soldi da sprecare si trovano eccome! Adesso vivo in Europa affetta dalla Grande Paura, che ritengo ridicola se penso dal milione di richiedenti asilo, un granello di sabbia su mezzo miliardo di cittadini europei, a fronte di un Paese come il Libano, che di profughi ne ospita oltre un milione e mezzo su una popolazione di 4 milioni, e nonostante tutto non collassa. La mia speranza è che le future generazioni leggeranno che dopo la Grande Paura l’idea di Europa e di umanità abbia generato dei costruttori di ponti e non di muri, perché non è certamente con i muri o con i fili spinati che si fa integrazione. È gente che fugge disperata dai propri Paesi per motivi di guerra, di fame, di carestia, di persecuzione e l’Europa, che è il continente, la zona più vicina, ma in realtà il mondo intero deve veramente farsi carico di questa situazione, andando ad aiutarli nei paesi d’origine e facendo la guerra alla potente lobby dell’industria degli armamenti e a chi si ingrassa in tutto questa abominevole situazione, e non parlo solo degli scafisti ma a chi ha interesse di sfruttare i migranti come schiavi!
Favria, 6.08.2020 Giorgio Cortese

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La ricerca della furbizia…
Mio suocero, classe 1924, mi ha raccontato questa vecchia novella che anticamente si trasmetteva oralmente, nelle notti d’inverno nelle stalle, Si narra che tanto tempo addietro in una noto paese della zona i due sindaci, nel seicento in Canavese, esisteva veramente la figura dei due amministratori di derivazione medievale dei due consoli, decisero in accordo con tutti i capifamiglia, che era giunto il momento anche nel loro piccolo paese fossero più furbi per evitare di rimare continuamente raggirati nella vendita di grano e nell’acquisto di legna da scaldare e fienaggio per nutrire gli animali. Si informarono da un viandante che passava periodicamente promettendo ogni volta unguenti miracolosi e si avviarono verso una grande città del territorio. (purtroppo non viene indicata ne la Comunità di partenza che quella dove andarono i due amministratori). Giunti in questa grande e grossa città, rimasero meravigliate dalle persone che trovavano per le strade, dall’infinità di botteghe e persone che si affaccendavano. Ma senza lasciarsi distrarre arrivarono all’indirizzo della persona che doveva fornire a loro la furbizia. Questi le accolse nella sua bottega, li stette ad ascoltare e gli dissi di passare nel pomeriggio che aveva pronto quanto chiedevano. Passarono nel pomeriggio e lo trovano con una grossa scatola di legno, con la scritta “Quae nocent docent”,che voleva dire ma, loro che ignoravano il latino e sapevano a mala pena scrivere il loro nome. “Le cose che nuocciono istruiscono”, insomma rendono più furbi. Da questa scatola proveniva uno strano ronzio. Il furbo bottegaio, gli disse di non preoccuparsi, il ronzio che sentivano era l’essenza della furbizia e gli dette le istruzioni di cosa fare prima di aprire la scatola per acquisire la furbizia per loro e per tutta la Comunità. Arrivati nella Comunità dopo aver viaggiato tutta la notte e sempre con la paura di essere derubati del prezioso carico della furbizia, fecero suonare la campana e chiamare a raccolta tutti i capi famiglia nel grande salone delle adunanze vicino all’attiguo palazzo del signore feudale, che assistette anche lui, per acquisire con tutti loro una dose di furbizia. Prima di aprire il la cassa di legno che aveva ogni tanto delle piccole feritoie da cui proveniva sempre più forte il sordo ronzio, si unsero tutti di miele, che avevano acquistato sempre da cui gli aveva venduto il contenitore della furbizia. Una volta che tutti avevano la faccia, le braccia e le gambe unte di miele, scrollarono un paio di volte la cassa gridando forte quanto c’era scritto in latino nella cassa. Aperta la cassa usci un nugolo di vespe inferocite dalla lunga cattività che incominciarono a mordere e pungere tutti i presenti. Allora gli abitanti di tutta la Comunità capirono che nella vita non tutto il male viene mai per nuocere ma per dare l’esperienza necessaria di non essere gabbati una seconda volta. Ma oggi quanto ci costano, in termini di mancato sviluppo economico la disonestà? Quanto ci costano i furbi, gli imbroglioni, gli evasori fiscali, i mafiosi, quelli che su piccola o grande scala scardinano il sistema delle regole per ingoiare un profitto illecito? Purtroppo come gli antichi abitanti di quella Comunità oggi la maggioranza dei cittadini non sa distinguere tra furbizia e intelligenza. Ritengo che la forma di furbizia oggi più efficace è l’onestà, perché se i presunti furbi che poi si fanno truffare sono la maggioranza è anche vero che i veri furbi sono pochi, ma se cerco di rimanere onesto corro di meno il rischio di farmi fregare
Favria, 7.08.2020 Giorgio Cortese

Agosto è il periodo dell’anno in cui tutto rallenta, tranne il tempo.

I Sarmati.
I Sarmati o Sauromati, la seconda forma è per lo più utilizzata dai primi scrittori greci, l’altra dai Greci del periodo classico e poi dai Romani, erano un popolo che Erodoto nel V secolo a.C. posiziona sul confine orientale della Scizia al di là del Tanais, Don, uno dei tanti vicini scomodi della cultura greca. Eppure, a differenza di molti altri gruppi etnici a loro molto prossimi, fin da subito la loro storia si è colorita di tratti leggendari che perdurano fino ad oggi, donando a questi nomadi dell’Asia nord-occidentale una sorta di alone mitico e misterioso, dove le donne pare godessero di ampia libertà, che includeva anche la partecipazione alle attività belliche, una libertà insolita persino per le popolazioni delle pianure orientali e lo storico greco vede come eredità delle loro antenate amazzoni. Il vasto territorio in cui vivevano l’odierna Ucraina, veniva chiamato dai romani Sarmatia. I sarmati erano divisi in tribù, gli Iazamati, Iazigi, Roxolani, Siraci, Aorsi e Alani di ceppo indoeuropeo e lingua affine al persiano. Questi ultimi furono la popolazione Sarmatica di più lunga durata, in parte si convertirono al cristianesimo ortodosso nel IX secolo, combatterono contro i Mongoli prima, e accanto ad essi poi. Gli Alani rimasti si stabilirono sul Caucaso occidentale, dove subirono una più o meno forte influenza turca ed islamica nel XIV-XVII secolo, e poi un processo di parziale russificazione tra il tardo Settecento e i giorni nostri e attualmente sono noti come Osseti. I Sarmati vennero utilizzati dai Romani come cavalleria pesante, Catafratti, nel Basso Impero, e in tutta l’epopea militare medievale. Un contingente venne impiegato in Britannia nel 175, Marco Aurelio, dopo aver sconfitto le tribù degli Iazigi Sarmati durante le guerre marcomanniche, assunse forzatamente 8.000 Sarmati al servizio di Roma e 5.500 di queste reclute vennero inviate ai confini settentrionali della Gran Bretagna. La loro presenza in Bretagna potrebbe essere all’origine della più tarda leggenda di Re Artù, forse perché sarebbe rimasti conservati elementi di origine sarmata nella sua mitologia e nella sua cultura. La cultura del Sarmati, che si conosce attraverso le leggende ossete, loro diretti discendenti, presenta molte somiglianze con le leggende di Re Artù con il loro culto tribale che era diretto a una spada che spuntava dal terreno, in modo simile alla spada nella roccia e poi il simbolo dei Sarmati era un drago, come nello stemma usato da Artù e da suo padre Uther Pendragon. L’eroe nazionale osseto Nart Batraz ha una storia piuttosto simile a quella di Artù e molto comune era la presenza tra i Sarmati di sciamani che ricordano molto da vicino la figura di Merlino. In Italia, durante il basso impero romano c’erano dei contingenti sarmati con al seguito le famiglie nell’attuale provincia di Cuneo a Pollentia, oggi Pollenzo, nota per essere stata teatro nel 402 d.C. della battaglia tra Visigoti di Alarico ed i romani, fra le cui file erano presenti cavalieri Sarmato-Alani. In seguito si sarebbero spostati sul più sicuro e poco distante altopiano alla confluenza fra il Tanaro e la Stura di Demonte dove oggi sorge il piccolo paese di Salmour, che si ipotizza derivi il nome da quell’antico insediamento, Sarmatorium. Anche a Borgofranco in Canavese pare ci fossero delle truppe di cavalleria di origine Sarmatica. Un’altra probabile colonia di Sarmati ad aver lasciato il segno nella toponomastica locale fu Sarmaticula, oggi Sermeola di Rubano presso Padova. I loro diretti discendenti sono gli Osseti, chiamati dai russi con il termine Jas, mentre nella lingua osseta di chiamano con il termine “Iratta” per il popolo e “Iriston” per la patria.
Favria, 8.08.2020 Giorgio Cortese

Se detesto la maleducazione, devo sempre dire grazie e per favore. Dire grazie cambia la giornata a me e a chi se lo sente dire.

Prandona
A volte i toponimi hanno origini dai proprietari o dai frequentatori di quel luogo. Dare il nome ad un terreno, toponimo è un patrimonio culturale avuto in eredità dalle passate generazioni nel tentativo di appropriarsi, di addomesticazione e riconoscimento dell’ambiente dove vivevano. Questo è la storia di un terreno appartenuto alla famiglia di mio suocero da generazioni detto Prandona. La prima parte del toponimo prà deriva dal latino pratum, prato, inteso sia come prato da pascolo sia come prato da coltivazione, luogo dissodato nella colonizzazione umana del bosco della favriasca. La parola dona potrebbe essere sembrare a prima vista un campo appartenuto ad una grandama, una padrona. In piemontese dona, vuole dire padrona, in monferrino, e Favria era feudo del Monferrato la donna veniva chiamata anche come vezzeggiativo dadona da non confondere con la donna minuta donin. Se invece di robusta corporatura, anche per noi maschietti, di diceva dondon, questo ultimo lemma arriva dall’antico francese e richiama il passo dondolante di una persona robusta e sovrappeso. Come detto la parola dona deriva dal latino domina ma veniva solitamente usato in piemontese per designare dei rapaci notturni in segno di rispetto della credenza popolare di una volta come ad una dama. Questa rapaci notturni, civetta, gufo e barbagianni erano anticamente considerati i messaggeri del volere degli dei perché volano più in alto degli uomini e quindi più vicini agli dei. Poi con nel Medioevo il loro lugubre richiamo notturno diviene presagio di sfortuna, malattia e morte. Tornando al toponimo, magari in quel campo erano soliti dimorare anticamente questi rapaci notturni o forse pensavano che da li provenisse la donnola feroce predatrice dei pollai, anche lei chiamata dona. Ma dona assume anche il significato, in piemontese della camomilla, in italiano erba chelidonia, magari molto presente anticamente in quel prato.
Favria 9.08.2020 Giorgio Cortese

I messaggi scritti tra persone che non si conoscono prendono le sfumature e le intonazioni di chi le legge, non di chi le scrive.

Da Giunone alla moneta!
La nascita della moneta è relativamente recente, la leggenda vuole che siano state coniate la prima volta da Creso, si quello del mito che tutto quello che toccava diventava oro, forse perché era il ricchissimo re della Lidia, oggi una regione dell’odierna Turchia. Nei millenni precedenti i commerci erano regolati dal baratto anche nella sua forma più evoluta, secondo il quale si poteva pagare con merci campione come il sale, da li deriva la parola salario, o con del bestiame, pecus in latibo, da cui la parola pecunia. Nel corso dei secoli l’evoluzione della moneta da metallica a carta moneta, inventata dai cinesi che le stampavano su seta, fu lenta e graduale ed oggi abbiamo la moneta virtuale con le varie carte e poi la criptomoneta. Ma interessante è la nascita del nome moneta. Questo nome trae origine nell’Antica Roma al tempo dei Galli di Brenno che assediano l’Urbe, in attesa dell’intervento risolutivo dal console Marco Furio Camillo. I Galli con un colpo di mano cercavano di occupare la rocca del Campidoglio. Ma le oche sacre a Giunone, li si trovana il suo tempio, iniziarono a starnazzare che svegliarono i Romani che misero in fuga i Galli. In seguto a quell’episodio Giunone venne chiamata anche Moneta cioè colei che avverte. E appunto si chiamarono le prime monete in metallo coniate alcuni anni dopo nella zecca istituita sul Campidoglio vicino al tempio dedicato alla dea.
Favria, 10.08.2020 Giorgio Cortese

Certe persone vivono con tante azioni cattive sulla coscienza e qualche buona intenzione nel cuore.

Damocle e la spada.
La spada di Damocle è una metafora utilizzata per indicare un pericolo che incombe su qualcuno. Damocle è un personaggio della mitologia greca ambientata nella città siciliana di Siracusa, dove nel V secolo a.C. regnava Dionisio, un tiranno crudele e paranoico che vedeva la cospirazione ovunque e spesso faceva giustiziare i propri sudditi, accusandoli appunto di cospirazione, che nella maggior parte dei casi non esisteva. Damocle era un cortigiano e adulatore di Dionisio e non perdeva occasione per ricordare al tiranno quanto fosse fortunato a godere di tanta autorità e tanto prestigio e invidiava apertamente il tiranno. Ad un certo punto, Dionisio propose a Damocle di prendere il suo posto per un giorno, vivendo come un monarca, svolgendo le sue funzioni e godendo di tutti i suoi beni. Dionisio gli fece prendere il suo posto per fargli capire se veramente fosse così fortunato come riteneva. La sera durante un lussurioso banchetto, mentre sedeva al posto del tiranno, volgendo lo sguardo in alto, Damocle si accorse che proprio sulla sua testa pendeva una spada sorretta da un sottilissimo crine di cavallo. Questa spada pendeva dal soffitto sul cortigiano e sarebbe potuta cadere da un momento all’altro, visto l’esile crine che la sorreggeva. Era stato lo stesso Dionisio ad aver fatto posizionare la spada sulla testa di Damocle per fargli capire quanto fosse insicura la sua posizione di uomo potente, esposta quotidianamente a mille pericoli. Fu a quel punto che Damocle capito quanto fosse pericolosa la posizione del tiranno, chiese di tornare nei suoi panni. Questo aneddoto è stata riportato da Cicerone nella sua opera “Tuscolanae Disputationes“. Sembra però che la storia originaria fosse contenuta in “Storia di Sicilia”, un’opera andata perduta dello storico Timeo di Tauromeno. Questo evento è stato magistralmente raffigurato in un dipinto da Richard Westall nel 1812. In conclusione la metafora della “Spada di Damocle” sta ad indicare un pericolo, una minaccia che incombe su qualcuno.
Favria, 11.08.2020 Giorgio Cortese

La bellezza di un sorriso dona un attimo infinito di felicità.

Certi giorni.
Certi giorni cerco di immaginare i silenzi vasti delle campagne prima dell’industrializzazione capillare dell’Italia rurale andavano poco a poco cedendo allo strepito delle macchine, in quel secondo dopoguerra che conosceva l’affievolirsi di tanti lavori manuali. Ogni tempo ha suoi rumori e mestieri. Ma quelli durati fino a poco oltre gli anni Sessanta del Novecento, per molta parte restavano i medesimi dei secoli precedenti. Dai più lievi, come il fruscio della falce fienaia sui prati e il biascichio della filatrice alle prese con fuso e arcolaio, al clangore dei carri dalle ruote cerchiate di ferro lungo le strade bianche, al lento passo dei buoi, al sibilare dei ferri da cavallo incandescenti tuffati nell’acqua dal maniscalco, al chiocciare, tubare, grufolare, degli animali di bassa corte che impegnavano la massaia sull’aia. La natura, di tempo in tempo, aggiungeva di suo il desolante crepitio della tempesta, il chioccolio gentile della pioggerellina benefica, il soffio del vento sulle spighe silenziose se l’aria faticava a smuoverle, tanto erano turgide, strepitante annuncio di carestia se scompigliava solo paglia e fusti senza chicchi….
Favria, 12.08.2020 Giorgio Cortese

Con la dolcezza si ottiene tutto. Ma con l’ironia si conquista il mondo.

Da vignano o cimosa alla pezza e non solo.
Viene chiamata comunemente pezza, lemma che deriva dal celtico pettia da cui anche il francese pièce, è un pezzo di tessuto, scusate il gioco di parole, adibito a vari usi, come una pezza di lana, di flanella, di cotone., magari usate, inumidite, per lavare il pavimento, fasciare provvisoriamente una ferita. Ma viene chiamata vivagno, da vivo, nella espressione: orlo vivo, oppure dal latino medievale vivagnum, dall’analoga espressione orum vivum. Il vivagno è il margine laterale delle pezze di stoffa, quello sull’ultima maglia del lavoro ai ferri o all’uncinetto, ma anche la riva di un fiume o il margine di un bel libro. Questo margine, detto anche cimosa è spesso rinforzato, perché non si sfilacci, perché non si sciupi con il risultato di un bordo con un rivestimento inspessito che protegge il tessuto vivo. Questa immagine, visto disuso dell’uncinetto o del lavoro ai ferri ha fatto perdere un po’ di quotidianità ma resta familiare il margine della pezza di stoffa. La parola vivagno viene anche usata anche in campo marinaresco, intendendo l’orlo dei teli usati per la fabbricazione delle vele, il vivagno. Come detto prima è la riva sul bordo del torrente, ma anche dai bordi di un libro, capiamo dai vivagni sciupati quanto quel libro sia stato letto e riletto. Una piccola menzione spetta anche la parola cimosa, detta anche cimossa, che probabilmente deriva da cima, la parte terminale e più tenera di alcune piante, dal latino cyma, germoglio. La cimosa parrebbe un tipico lemma da sartoria, infatti quando riporta scritte, sigle, marchi di fabbrica o altri segni convenzionali viene viene chiamata cimossa parlante, i segni possono essere tessuti o stampati con colore contrastante. Cimosa viene anche chiamato il cassino o cancellino, un oggetto comunemente utilizzato per cancellare i segni di gesso alla lavagna, in origine fatto con una cimosa arrotolata oppure con una spugna. Come detto all’ inizio la pezza di stoffa viene usata per riparare o rinforzare tessuti o calzatrurex, calzature. Ma una pezza è anche il tessuto non ancora cucito che, prodotto in strisce lunghe alcune decine di metri, che viene messo in commercio di solito avvolto intorno a un elemento cilindrico o piatto, di cartone o di materiale plastico. La pezza può essere un appezzamento di terreno, pezza di terra, e anticamente la pezza, prima dell’adozione del sistema metrico decimale fu a Roma e nel Lazio anche unità di misura di superficie, come per noi la giornata Piemontese. Per pezza di indicavano ciascuna delle parti dell’armatura dei cavalieri medievali, detta pezza d’arme. Ma pezza era anche nel XVI secolo la denominazione generica di una moneta, dette pezze d’oro o di argento, in Toscana la pezza delle rose detta rosalina, moneta che portava al rovescio due piante di rose, fatta coniare dal granduca Ferdinando de’ Medici nel 1665. La parola pezza viene utilizzata in tanti modi di dire. Si usa nell’espressione avere le pezze nel sedere, per significare di essere molto poveri, senza il denaro per acquistare un abito portando quindi vecchi calzoni rattoppati nei punti più consunti. Ma diciamo mettere una pezza per rimediare all’errore o una svista. Certe persone poi sono reputate da altri delle pezze da piedi, perché ritenute trascurabili e di poca stima, oppure perché loro stessi che pretendono di farsi valere e rispettare ma che tolta l’autorità del ruolo non ne hanno l’autorevolezza. Questo detto deriva quando un tempo le pezze da piedi erano un tempo delle strisce di tessuto che si avvolgevano attorno ai piedi e alle caviglie con la funzione delle nostre attuali calze. Per molto tempo furono usate solo dalle classi elevate e dai guerrieri, poi il loro uso si estese, e furono usate dal popolo e dai soldati di truppa fino alla Prima Guerra Mondiale. Alcuni di questi personaggi con supponenza trattano i loro simili come pezze da piedi, con il significato di trattare malissimo e poi ricorrono a loro solo quando servono, come appunto le pezze per i piedi. Beh con la parola pezza si potrebbe andare avanti quando si indica la forma di formaggio, il taglio della carne per passare a delle pezze araldiche che compongono uno stemma come la banda, il capo, la croce, la fascia, il palo, la sbarra. Potrei andare avanti in questa pièce, pezzo ma penso che ormai le pezze giustificative della parola sono terminate, e concluso il pezzo.
Favria, 13.08.2020 Giorgio Cortese

Ogni giorno non devo andare da nessuna parte a cercare la felicità, ce l’ho qui e ora.
giorgio