San Valentino, la festa degli innamorati. – Invenzioni medievali. – Aria Majin – Va a contéjla al Lucio dla Venerìa. – Miao! – Maschere. – I colori nel quotidiano…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

San Valentino, la festa degli innamorati. La tradizione di San Valentino, festa degli innamorati risale

all’epoca romana, nel 496 d. C., quando l’allora papa Gelasio I volle porre fine ai lupercalia, gli antichi riti pagani dedicati al dio della fertilità Luperco.. Questi riti si celebravano il 15 febbraio e prevedevano festeggiamenti sfrenati ed erano apertamente in contrasto con la morale e l’idea di amore dei cristiani.  In particolare il clou della festa si aveva quando le matrone romane si offrivano, spontaneamente e per strada, alle frustate di un gruppo di giovani nudi, devoti al selvatico Fauno Luperco. Anche le donne in dolce attesa si sottoponevano volentieri al rituale, convinte che avrebbe fatto bene alla nascita del pargolo. In fondo, ad alleviare il dolore bastava lo spettacolo offerto dai corpi di quei baldi giovani, che si facevano strada completamente nudi o, al massimo, con un gonnellino di pelle stretto intorno ai fianchi. Per “battezzare” la festa dell’amore, il Papa Gelasio I decise di spostarla al giorno precedente,  dedicato a San Valentino, facendolo diventare in un certo modo il protettore degli innamorati. Esistono però molti Santi di nome Valentino, e, a parte il fatto che tutti furono martiri, non si sa molto di loro. Due sono i più noti. Il primo, nato a Interamna (oggi Terni) nel 176, proteggeva gli innamorati, li guidava verso il matrimonio e li incoraggiava a mettere al mondo dei figli. La letteratura religiosa (e non storica) descrive il santo come guaritore degli epilettici e difensore delle storie d’amore. Specie quando queste sono infelici: si racconta, per esempio, che abbia messo pace tra due fidanzati che litigavano, offrendo loro una rosa. Il secondo, invece sarebbe morto a Roma il 14 febbraio del 274, decapitato. Per alcune fonti sarebbe lo stesso vescovo di Terni. Per altri – tesi più plausibile – sarebbe un altro martire cristiano. Per altri ancora, non sarebbe mai esistito. Ad ogni modo, si racconta che Valentino sarebbe stato giustiziato perché aveva celebrato il matrimonio tra la cristiana Serapia e il legionario romano Sabino, che invece era pagano. La cerimonia avvenne in fretta, perché la giovane era malata. E i due sposi morirono, insieme, proprio mentre Valentino li benediceva. A chiudere il cerchio della tragedia sarebbe poi intervenuto il martirio del celebrante.  Una delle tesi più note è che l’interpretazione di san Valentino come festa degli innamorati si debba ricondurre al circolo di Geoffrey Chaucer, che nel poema “Parlamento degli Uccelli” associa la ricorrenza al fidanzamento di Riccardo II d’Inghilterra con Anna di Boemia. Tuttavia, studiosi  hanno messo in dubbio questa interpretazione. In particolare, il fidanzamento di Riccardo II sarebbe da collocare al 3 maggio, giorno dedicato a un altro santo omonimo del martire, san Valentino di Genova. Pur rimanendo incerta l’evoluzione della ricorrenza, ci sono alcuni riferimenti storici che fanno ritenere che la giornata di san Valentino fosse dedicata agli innamorati già dai primi secoli del II millennio. Fra questi c’è la fondazione a Parigi, il 14 febbraio 1400, dell’”Alto Tribunale dell’Amore”, un’istituzione ispirata ai principi dell’amor cortese. Il tribunale aveva lo scopo di decidere su controversie legate ai contratti d’amore, i tradimenti, e la violenza contro le donne. I giudici venivano selezionati sulla base della loro familiarità con la poesia d’amore. La più antica “Valentina” di cui sia rimasta traccia risale al XV secolo, e fu scritta da Carlo d’Orléans, all’epoca detenuto nella Torre di Londra dopo la sconfitta alla battaglia di Agincourt (1415). Carlo si rivolge a sua moglie (la seconda, Bonne di Armagnac) con le parole: Je suis desja d’amour tanné, ma tres doulce Valentinée. Successivamente, nell’Amleto di Shakespeare (1601), durante la scena della pazzia di Ofelia (scena V dell’atto IV) la fanciulla canta vaneggiando: “Domani è san Valentino e, appena sul far del giorno, io che son fanciulla busserò alla tua finestra, voglio essere la tua Valentina”. Inoltre, alla metà di febbraio si riscontrano i primi segni di risveglio della natura; nel Medioevo, specialmente in Francia e Inghilterra, si riteneva che in quella data cominciasse l’accoppiamento degli uccelli e quindi l’evento si prestava a essere considerato la festa degli innamorati. Considerando la sua collocazione in calendario, la ricorrenza, inoltre, ha ispirato vari motti e proverbi “Per San Valentino fiorisce lo spino”, “Per San Valentino la primavera sta vicino” e “A San Valentino ogni “Valentino” sceglie la sua “Valentina” (detto piuttosto antico)”. Soprattutto nei paesi di cultura anglosassone, e per imitazione anche altrove, il tratto più caratteristico della festa di san Valentino è lo scambio di valentine, bigliettini d’amore spesso sagomati nella forma di cuori stilizzati o secondo altri temi tipici della rappresentazione popolare dell’amore romantico (la colomba, l’immagine di Cupido con arco e frecce, e così via). A partire dal XIX secolo, questa tradizione ha alimentato la produzione industriale e commercializzazione su vasta scala di biglietti d’auguri dedicati a questa ricorrenza. La Greeting Card Association ha stimato che ogni anno vengano spediti il 14 febbraio circa un miliardo di biglietti d’auguri, numero che colloca questa ricorrenza al secondo posto, per biglietti acquistati e spediti, dopo il Natale. Già alla metà del XIX secolo negli Stati Uniti alcuni imprenditori come Esther Howland (1828-1904) cominciarono a produrre biglietti di san Valentino su scala industriale; a sua volta, la Howland si ispirò a una tradizione antecedente originaria del Regno Unito. Fu proprio la produzione su vasta scala di biglietti d’auguri a dare impulso alla commercializzazione della ricorrenza e, al contempo, alla sua penetrazione nella cultura popolare. Questo processo continuò nella seconda metà del XX secolo, soprattutto a partire dagli Stati Uniti. La tradizione dei biglietti amorosi cominciò a diventare secondaria rispetto allo scambio di regali come scatole di cioccolatini, mazzi di fiori o gioielli.  Nel tempo la festa degli innamorati ha assunto una dimensione romantica  e commerciale. In questa data sono numerose le iniziative che vengono organizzate un po’ ovunque. Ci sono tante opportunità per trascorrere piacevoli momenti in compagnia della propria amata o del proprio amato. Per esempio, molti ristoranti e pizzerie propongono menù speciali, ideali per godere una serata romantica e conviviale, mentre parecchi hotel e strutture ricettive del territorio offrono pernottamenti promozionali per le coppie. Nelle spa e centri benessere, invece, è possibile optare per pacchetti pensati per ritagliarsi piacevoli momenti di relax. Non mancano, infine, iniziative a tema promosse in diverse località, oltre a concerti e spettacoli dagli svariati generi. Oltre a essere patrono degli innamorati, San Valentino è considerato protettore degli epilettici. Questo si deve ad un’antica credenza medievale, d’origine tedesca, dovuta alla semplice assonanza del nome del Santo (in tedesco “Valentin” si pronuncia “Falentin”) con il verbo “fallen” (cadere). In passato ebbe origine una festa che si teneva il 14 febbraio dove veniva impartita al Santuario delle “Sette Chiese” di Monselice (Padova) la “benedizione di San Valentino” che avrebbe dovuto proteggere i bambini dalla sindrome del “mal caduto” (epilessia, nota anche come “male di San Valentino”). L’epilessia è una malattia neurologica che si manifesta sotto forma di crisi improvvise, transitorie e di varia intensità (fino anche alla perdita di coscienza) che dipendono da un’alterazione della funzionalità dei neuroni. In Italia la ricorrenza è ricordata ogni anno dalla Lice (Lega italiana contro l’epilessia) l’associazione professionale dei medici epilettologi. Benvenuto  S. Valentino  il tramite ultraterreno della dimensione dell’Amore cortese.
Favria, 14.02.2023 Giorgio  Cortese

Buona giornata. Omnia vincit amor (Virgilio). Felice  martedì.

“ Invenzioni medievali”.

Docente Silvia Vacca, Mercoledì 15 FEBBRAIO 2023 ore 15,30 -17,00

Conferenze UNITRE’ di Cuorgnè presso ex chiesa della SS. Trinità –Via Milite Ignoto

Il Medioevo, un periodo buio caratterizzato da oscurantismo e arretratezza culturale e scientifica, sarebbe un grave errore etichettarlo in quel modo. Il Medioevo è stato ben altro. E cioè un periodo storico vivo e segnato da grandi invenzioni più utili e pacifiche di quella delle armi da fuoco, l’invenzione di mulini a vento verticali, occhiali, orologi meccanici, e mulini ad acqua molto migliorati, tecniche costruttive, architettura gotica, castelli medievali, rotazione delle colture in agricoltura e molto altro.

Aria Majin

Aria Majin la canzone del carnevale Ora che stiamo per entrare nel clima di Carnevale credo di fare cosa gradita ai Favriesi vecchi e giovani, pubblicando la “Canzone ufficiale del Carnevale del 1914”. Le parole sono del signor Francesco Domenico Nizzia, detto il “l Preve Falì”, giornalista, polemista e musicologo, nato il 18 aprile 1881 e morto l’11 giugno 1932. Riposa nel cimitero di Favria e sulla tomba i suoi amici di Rivarolo fecero scrivere “poeta canavesano”. La musica è del maestro Antonio Bianco, nato il dicembre 1879, morto nel 1964. La canzone si divide in tre parti, la prima e la terza parte è gaudente ed epicurea, insomma di chi apprezza e piaceri della vita, ed è dedicata al vino e alle donne la seconda parte spiritosa è dedicata alla politica. Ecco il testo completo: Aria Majin La cansoun ‘d l Carlevè FAVRIA 1914 Noi soma ‘d cojch’an pias gode la vita e gode l’alegria en quaich manera an pias ‘d co’ taroche’ quaich bela cita e beive tante bote ‘d bon barbera Nemis ‘d la gaseus e ‘d la berlaita, amis, ma da lontan con l’spessiari, la purga pi potenta e pi ben faita l’e sempre ‘n bon bicer for ‘d l’ordinari (Ritornello 1) Se sciopi ‘d salute beivila al botal beivila a la bota se l’eve ‘n mes mal se ‘l cheur a termola se jeve ed sagrin beivine na pinta…e aria majin Curevne ‘d mai savei j’ afè dle stat per long j’e ‘d bon minist che farinei a s’ lambico purtrop gia ‘l so cossat per conserveje ai turch i Dardanei J’e I deputati peui che quat flanelle a poso tuti I dì piene ‘d sudor per ch’erse ‘d pì del dobi le gabele e feve galopè da l’esator (Ritornello 2) a v’cherso la branda, sigale e tabach a nom ‘d la lege v’ lo buto ‘n tel frach e peui per calmeve a v’arfilo ‘l chinin e noi j’ pagoma… e aria majin (ritornello 3) se j’ veuli stè ‘n piota vni’ tuti con noi se j’ veuli stè alegher cercheve ch’ a v’ daga ‘n basin e dop arangeve…e aria majin

Favria, 15.02.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata. A carnevale ogni scherzo vale, ma che sia uno scherzo che sa di sale. Felice mercoledì.

Va a contéjla al Lucio dla Venerìa.

In realtà chi era Lucio dla Venerìa, un modo di dire che ancora oggi in una tipica frase idiomatica piemontese. In piemontese ad una persona contafrottole e fanfarona che esagera veniva detto: “Va a contéjla al Lucio dla Venerìa”, una esortazione: un invito, in fondo garbato, a ridimensionare le iperboli del racconto, oppure un’esplicita esortazione ad andare dire ad altri le sue esagerazioni a persone più credulone di colui che ascolta. O forse questo modo di dire, garbato e cortese vuole fare capire all’interlocutore di non essere degli sprovveduti. Da dove nasce questa espressione? Dovete sapere che Lucio dla Venerìa è una maschera di carnevale che fa la sua apparizione nel teatro dei burattini a metà dell’Ottocento. In queste commedie Lucio non ricopriva mai un ruolo di primo piano, era una spalla di maschere più famose, pare che la sua fortuna nasca dalle battute che scatenavano tra il pubblico scrosci di acclamazioni e di incontenibile allegria. Lucio era un personaggio personaggio ingenuo, fortemente credulone, e talvolta anche un po’ corto di cervello, a volte anche il ruolo del finto tonto. Non si sa da dove nasce questa maschera che nell’Ottocento in Piemonte ha avuto grazie al romanziere Luigi Pietracqua che ha scritto in piemontese il romanzo intitolato “Lucio dla Venerìa”, dove si parla di un orfanello, di nome Sandrino, che nell’adolescenza scopre di essere il figlio di un brigante, di uno di quei briganti buoni e generosi, però, che rubano ai ricchi per distribuire ai poveri il bottino. Sandrino, venuto a conoscenza delle tragiche circostanze in cui era morta sua madre, decide di farsi giustizia da sé, vendicandosi di coloro che lo avevano reso orfano. Acquista un podere a Venaria, poi cambia nome, facendosi chiamare Lucio, poi con il suo comportamento generoso e altruista, conquista un poco alla volta la simpatia di tutti gli abitanti del contado. Intanto il nostro Lucio non cessa di indagare sulle trame del passato e alla fine scopre che gli assassini della madre sono padre Romualdo e il conte Rodolfo. Lucio allora li invita nella sua abitazione. Poi appicca il fuoco e fugge: i due, senza possibilità di fuga, bruciano vivi. Ma da quel giorno, di Lucio si persero per sempre le tracce. Ma ne rimase il mito e la leggenda come un’altra che narra dove sotto questo pseudonimo si celava in realtà il conte Braschetti, che così poteva praticare agevolmente il suo passatempo preferito: fare della beneficenza. Infatti, presentandosi ai popolani come mandatario del Lucio d’la Venaria, poteva esercitare tutto il bene che desiderava ed evitare, poi, le dimostrazioni di riconoscenza, espressioni che per la sua spontanea generosità erano un autentico peso. Il conte partiva di buon mattino con il fucile in spalla, come per andare a caccia e percorreva molta strada per trovare gente bisognosa di aiuto. A sera, il benefattore rientrava nella sua palazzina a Venaria, detta “la Pomera”, perché circondata da numerose piante di melo. Per i Venariesi dell’epoca, il “Lucio d’la Venaria” assume le sembianze di un essere invisibile, mandato dal Cielo per consolare la povera gente e operare ogni sorta di miracolo in loro favore; è il protettore ed il benefattore dei poveri.” Lo storico Giuseppe Baruffi, scrittore contemporaneo   Luigi Pietracqua, nel suo libro: “ Passeggiate nei dintorni di Torino”, il quale afferma che Il nome “Lucio d’la Venaria” sarebbe derivato unicamente da un gioco di parole.  Molto famosi erano, infatti, i lucci giganteschi messi in un laghetto del parco del Castello dove si narrava che avessero addirittura divorato un bambino scivolatovi dentro. Dato che in piemontese “Luss” significa sia luccio che Lucio, ne derivò l’equivoco di “Lucio per luccio”. Comunque sia  la sua origine, il nome Lucio della Venaria, non è stato mai dimenticato dai piemontesi, anche grazie al successo del piacevole romanzo. L’autore del romanzo Luigi  Pietracqua nato a Voghera nel 1832 e morto a  Torino nel  1901 è stato  uno dei maggiori e più popolari autori di teatro piemontese, oggi purtroppo dimenticato, prolifico autore in lingua piemontese. Tra le sue commedie in piemontese ricordiamo: La carità sitadina, Le sponde del Po, Sablin a bala, Rispeta toa fomna, Un pover pàroco. Tra i suoi romanzi oltre  Lucio dla Venerìa, ha scritto  anche  Don Pipeta l’asilé, romanzo storico in lingua piemontese. Prima opera scritta da Luigi Pietracqua, vi si rivivono i tempi eroici della resistenza massonica all’Inquisizione. La grafia piemontese è quella originaria, leggermente riveduta in modo da renderla di facilissima lettura, dipodnibile presso la Biblioteca di Favria G. Pistonatto. Altre sue opere di successo furono Lorens el suicida, Ij mister ëd Vanchija, La famija dël soldà. Pietracqua all’inizio della sua carriera di giornalista era stato assunto come compositore tipografo presso la Gazzetta del Popolo di Torino dove poi ne diventa redattore. Come giornalista, scrisse anche per La Sesia, la Gazzetta Piemontese e Il Fischietto.  In questi romanzi e scritti si può apprezzare la fluidità della lingua piemontese, le sue colorite espressioni idiomatiche e la sua peculiare espressività, ricca di sfumature e di termini affascinanti. Attualmente “Lucio” è la maschera ufficiale di Venaria, indossa un costume che ricorda quello del più famoso Gianduja

Favria, 16.02.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata. La libertà  e la vita appartengono a quelli che le conquistano ogni giorno. Felice giovedì.

Miao!

Oggi 17 febbraio 2023 in Italia è la giornata Nazionale del Gatto.

Perché il 17 febbraio?  Secondo  un’antica credenza febbraio è il mese dei gatti e delle streghe e il numero 17 è stato indicato per sfatare tutti i miti legati alla sfortuna che hanno accompagnato la storia di questo felino, per questi motivi oggi in Italia il 17 febbraio si celebra la giornata nazionale del gatto dedicata ai quasi milioni di mici che vivono con le famiglie italiane. Il numero 17 in base a tradizioni medioevali ancora abbastanza radicate nella cultura europea, viene spesso associato alla sventura, proprio come i gatti, soprattutto quelli neri. Ed è per sfatare questa diceria che è stato scelto proprio il giorno 17. Febbraio, inoltre, è il mese dell’Acquario, il segno zodiacale degli spiriti liberi, caratteristica spesso associata a questi felini, per natura selvatici ma anche grandi compagni e amici degli esseri umani. Secondo una classifica  stilata nel 2019 dal Censis, l’Italia è il Paese europeo col maggior numero di animali domestici: sono presenti nel 52% delle case. Nella penisola ci sono in totale 32 milioni di animali da compagnia: 12,9 milioni di uccelli, 7,5 milioni di gatti, 7 milioni di cani, 1,8 milioni di piccoli mammiferi, criceti e conigli, 1,6 milioni di pesci e 1,3 milioni di rettili. In Italia, inoltre, ci sono 53,1 animali da compagnia ogni 100 abitanti: dato che colloca il nostro Paese al secondo posto in Europa, in coda all’Ungheria popolata da 54,2 animali ogni 100 persone e prima della Francia (49,1), della Germania (45,4), della Spagna (37,7) e del Regno Unito (34,6). Esiste poi al riguardo del numero 17 una curiosa superstizione alla linguistica. L’anagramma della cifra romana per indicare il numero “17”, ovvero XVII, è VIXI,  che in latino si traduce con: “Ho vissuto”. E chi meglio dei gatti che per tradizione si dice che godano del privilegio di vivere sette vite. Il numero 17,  secondo una credenza dei paesi nordici, può valere anche come “una vita per sette”. In questo caso, diversamente dalle altre interpretazioni, il 17 è un numero che porta bene, da intendersi con il significato di “una volta morirò e sette vivrò”, come i gatti. La data della Festa del Gatto è diversa da Paese a Paese. Come in Italia, anche in Polonia si festeggia il 17 febbraio, anche se la ricorrenza è più recente ed è stata istituita nel 2006. Cade il 29 ottobre negli USA, dov’è nata nel 2005, come anche in Russia, celebrata il 22 febbraio. Il Giappone è il primo Paese del mondo che reso nazionale questa giornata: qui  dal lontano 1987 si festeggia ogni 22 febbraio. Tutti i gatti domestici, secondo recenti studi, avrebbero un solo, comune antenato: il gatto mesopotamico. Il felino incontrò  gli esseri umani circa diecimila anni fa. In quel periodo è nata l’agricoltura e, con essa, il bisogno di difendere dai topi i raccolti nei depositi. Il gatto ha una sua Santa patrona, Santa Gertrude di Nivelles, La monaca benedettina del VII secolo,  nota per la sua profonda pietà e già patrona anche dei viaggiatori, dei giardinieri e pregata anche in caso di  malattie, ottenne dalla chiesa il titolo di protettrice dei gatti perché pare amasse molto questi animali abili cacciatori di topi, ai tempi portatori di gravi infezioni, contro le quali veniva spesso invocata. Santa Gertrude di Nivelles è la protettrice contro le invasioni di ratti.

Favria, 17.02.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita quotidiana non essere amati è una semplice sfortuna, la vera disgrazia è non amare. Felice venerdì.

Maschere.

Le maschere traggono origine dal culto  di Dioniso. Questo dio greco invocato nei riti per rinnovare il ciclo della vita vegetale, tornare a far scorrere il vino e possedere gli uomini con la mania, era dotato di una doppia natura; almeno così testimonia Euripide nelle Baccanti. La sua danza si alternava tra violenza selvaggia e dolcezza. Un dio ambiguo, altero, contradditorio; per questo piacque a Nietzsche, che lo contrappose al Crocefisso. La maschera in onore del dio Dionisio dà forma a quella del mondo greco, ma essa si manifesta ovunque. L’orientalista Johann Ludwig Burckhardt nella pubblicazione dei sui viaggi “Travels”, si  lascia sfuggire l’osservazione: la maschera funeraria è il modello immutabile in cui si ritiene che il morto si reintegri e tende a trattenere nella mummia  “ soffio della vita nelle ossa”. Per i vivi i significati si moltiplicano, la  maschera non nasconde, al contrario rivela le tendenze di chi la indossa. Ho trovato in un libro questi e altri pensieri che  sono stati  scritti nei dieci libri dal titolo Onomasticon  di Giulio Polluce, sofista e grammatico greco del II secolo d.C.,  nato a Naucrati in Egitto, che annoverò tra i suoi nemici il lessicografo Frinico e Luciano di Samosata. L’Onomasticon di Polluce, dedicato all’imperatore Commodo, è la fonte per conoscere le maschere del teatro antico. Ne elenca 28 della tragedia, 44 della commedia e 4 satiriche. Le descrive a volte in maniera spesso sommaria, non di rado poco comprensibile, comunque attraverso una serie di tratti: acconciatura dei capelli, barba, fronte, occhi, naso, mento, orecchie, labbra e rughe. Queste  pagine offrono informazioni sulla denominazione di usi e costumi del mondo greco antico. Ci fanno capire com’era inteso un ficcanaso, un ostinato o un gestore di bordello. Pare che Oscar Wilde, che se ne intendeva  deve aver letto l’opera di Polluce nell’edizione di Berlino del 1846, per questo  affermava che una maschera rivela più di una faccia. Concludo quanto dichiarava François de La Rochefoucauld nelle sue Massime: Siamo tanto abituati a mascherarci di fronte agli altri, che finiamo per mascherarci anche di fronte a noi stessi”.

Favria, 18.02.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata.  Siamo felici solo quando liberiamo il nostro animo dalla cattiveria. Felice sabato.

Esiste dentro di noi la gioia di aiutare. Basta ascoltarla. Lo scopo della vita di noi essere umani è quello di accendere una luce di speranza nei nostri simili anche donando il sangue. Ti aspettiamo a FAVRIA  VENERDI’ 24 FEBBRAIO  2023, cortile interno del Comune dalle ore 8 alle ore 11,20. Abbiamo bisogno anche di Te. Dona il sangue, dona la vita! Attenzione, per evitare assembramenti è necessario sempre prenotare la vostra donazione. Portare sempre dietro documento identità. a Grazie per la vostra collaborazione. Cell.  3331714827- grazie se fate passa parole e divulgate il messaggio

I colori nel quotidiano

In italiano esistono tante espressioni idiomatiche. Inizio citando Cesare Pavese che scrisse “Ogni nuovo mattino, uscirò per le strade cercando i colori.” Infatti, i colori fanno bene alla vita, la rallegrano e la riempiono. Tutti possono confermare l’effetto benefico di una passeggiata nel verde, no? Ci sono tanti modi per aggiungere un po’ di colore alla vita quotidiana tramite piccole cose, come l’abbigliamento, un rossetto per le donne, dei fiori. Il loro benefico potere si è riversato anche sulla lingua. A volte solo parlando si colora la realtà come il modo di dire avere il pollice verde. Questa espressione ha un significato abbastanza evidente: la si usa per riferirsi a chi ha una grande abilità nel coltivare e prendersi cura di piante e fiori o un orto. Ma perché proprio il verde? Beh, il colore verde, sul pollice in questo caso, è dovuto al contatto della mano con le piante quando non si utilizzano i guanti. Ma possiamo anche essere verdi dall’invidia. Il sentimento dell’invidia viene associato al verde perché l’eccesso di rabbia nel nostro corpo fa aumentare notevolmente la produzione di bile, il cui colore è proprio il verde. Oppure essere al verde. Generalmente, il verde viene visto come il colore della speranza, del buon auspicio, eppure questa espressione relazionata con il colore verde è tutt’altro che ottimista e positiva! Se qualcuno rimane, è o si trova al verde, significa che è rimasto senza nemmeno un soldo in tasca, che è ormai ridotto alla miseria. Ma perché si sceglie proprio il colore verde? A quanto pare, il significato di questa espressione viene da un’antica tradizione: quella di dipingere proprio di verde il fondo dei ceri e delle candele. Perciò, una candela arrivata al verde era una candela ormai consumata, a cui non restava più nulla. Adesso cambio argomento di  punto in bianco. Significa “all’improvviso”, “in maniera inaspettata”, “che coglie alla sprovvista”. Questa espressione deriva dal mondo militare, dove indicava un tiro di artiglieria che veniva realizzato senza elevazione, in maniera orizzontale, quindi ad una posizione zero e cioè non contraddistinta da nessun numero, in bianco appunto. Sicuramente è meglio evitare di fare o dare  un assegno in bianco. Fare a qualcuno un assegno in bianco significa darglielo senza indicare né la somma né il beneficiario. Infatti, se è bianco, significa che non è stato “sporcato” dall’inchiostro nero della penna. Altrimenti mettiamo nero su bianco. Siamo soliti mettere nero su bianco quando scriviamo, inchiostro nero su foglio bianco. Infatti, questa espressione significa proprio “mettere per iscritto” e si usa generalmente per accordi, contratti e simili, per evitare che tra le due parti ci siano malintesi, ritiri o rinunce. Per fare una settimana bianca. Questo perché pensando al bianco ci viene in mente la neve. Infatti, questa espressione indica una vacanza di sei o sette giorni durante l’inverno in una località di montagna, presso una struttura sciistica. Stiamo attenti di non passare la notte in bianco. Questa espressione significa “non riuscire a dormire per un’intera notte”. Questo significato viene dal Medioevo e, più precisamente, dal fatto che, in questo periodo, quando una persona doveva ricevere l’investitura di cavaliere, la sera precedente avrebbe dovuto passare la notte sveglia, indossando un vestito bianco in segno di purezza. poi al ritorno ben si adatta  il modo di dire “essere nero”, veramente arrabbiato. Purtroppo non siamo nobili e ricchi e non abbiamo il sangue blu. Quest’espressione viene di solito utilizzata per indicare persone che hanno origini nobili. Ma perché proprio la scelta del blu? In realtà la ragione per la scelta di questo colore non è chiara, ma c’è un’ipotesi piuttosto convincente. Sembrerebbe infatti che, dal momento che i nobili non si esponevano mai al sole, a differenza delle classi povere, che lavoravano in campagna, la loro carnagione era particolarmente chiara, tanto da lasciare intravedere le vene, di colore bluastro. Ma non per questo dobbiamo vedere tutto nero. Il nero è associato oltre che all’eleganza ad eventi tristi come lutto, morte. Per questo, questa espressione significa “essere pessimisti”, cioè vedere tutto negativo, a prescindere da dove si guardi. No non dobbiamo essere pessimisti ma ottimisti e “ Vedere tutto rosa”. Come detto se il nero viene di solito associato a qualcosa di negativo e triste, il rosa viene visto invece come il colore dei balocchi, dei bambini, della serenità e della gioia, per questo, se si vede tutto rosa, significa che si è ottimisti, che si riesce sempre a trovare del positivo in qualsiasi cosa. questi due colori li troviamo per le notizie di cronaca rosa e nera.  Infatti se si legge articoli di cronaca rosa  su notizie di personaggi famosi, di solito a proposito della loro vita sentimentale, quella nera di efferati omicidi e quella bianca di buone notizie che raramente arrivano alla prima pagine del giornale. Adesso  sono  dalla vergogna, mi vergono di quanto ho scritto. Qui l’uso del colore rosso è chiaro: quando ci vergogniamo, tendiamo ad arrossire in viso. Ho una fifa blu per quanto scritto. Questa espressione significa provare tanta paura che fa assumere al viso un colorito tanto pallido da sembrare quasi bluastro, tipico di quando si è terrorizzati. Smetto qui perche me ne direte di tutti i colori. “Di tutti i colori” significa “di ogni tipo”, quindi l’intera espressione indica il parlare male di qualcuno o qualcosa, dicendo ogni sorta di cose, spesso negative, al riguardo. Perché proprio tutti i colori? Beh, perché c’è veramente una vasta scelta di cose negative da dire a qualcuno, proprio come con i colori, eppure quella persona le sceglie tutte!

Favria, 19.02.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. Ci vuole poco per scacciare la noia, ritrovare lo stupore e pensare che la vita non è affatto male, a ben pensarci. Felice domenica