Tra amici e campi di fiori selvatici . – Il rodomonte attapirato. – Ci sono mattine. – I leoni di Sicilia & l’inverno dei leoni – Un capriolo di nome Bambi. – Avvento dell’avventore..- Avere gli orecchi lunghi. – Barbarus hic ego sum…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Borgata San Giuseppe di Favria, tra amici e campi di fiori

selvatici
Domenica 1 maggio si è svolta la festa a San Giuseppe nell’omonima borgata di Favria. Dopo due anni, che, a causa della pandemia non si è potuta svolgere c’è stata una grande affluenza ad una ricorrenza religiosa che mantiene ancora dopo tanti anni il sapore ed il fascino delle antiche feste di campagna, grazie anche alla bellissima giornata.
La cappella di San Giuseppe dedicata a San Giuseppe Lavoratore, protettore dei lavoratori.

Dopo la S. Messa officiata nel pomeriggio da don Gianni con una bellissima predica, è avvenuta la successiva distribuzione delle gallette benedette, cellofanate a norma anticovid, complice la bella giornata è seguito il rinfresco, in un locale aperto del Ristorante San Giuseppe. Che bello ritrovarsi fra campi fioriti di margherite e amici, anche questo fa parte della bella giornata del 1 maggio. Un grazie ai priori uscenti Cattaneo Silvio e Onorina, priori entranti Salarin Michelino e Mariuccia e ai sotto priori Giuseppe Bertotti e Anna, che mantengono intatte delle tradizioni religiose secolari .

Favria, 9.05.2022  Giorgio Cortese

Buona giornata.  Potranno recidere tutti i fiori ma non potranno mai fermare la primavera. Felice lunedì.

Il rodomonte  attapirato.

Rodomonte è un personaggio letterario dell’Orlando innamorato di M.M. Boiardo, e dell’Orlando furioso  di L. Ariosto.  nonché di altri poemi cavallereschi.

Rodomonte è un guerriero saraceno discendente di Nembrotte, fortissimo, orgoglioso, pronto ad affrontare ogni pericolo e ogni avversità. La sua figura si colora, nel poema dell’Ariosto, di una particolare vivezza umana e sentimentale e di efficaci tinte grottesche, muore in duello con Ruggiero.

Senza dubbio è un condottiero coraggioso, ma a prevalere sono i suoi caratteri di superbia, di litigiosità, di violenza, di rozzezza e di disprezzo degli altri. È sempre pronto ad imporsi con la forza, tanto da essere temutissimo anche fra le proprie file, è facile alla vanteria e alla rabbia.

Parlo di Rodomonte perché nella vita quotidiana di personaggi spacconi e che si vantano ne abbiamo trovati e ne troviamo ancora purtroppo. Ma queste persone a volte si intestardiscono e per portare a compimento dei loro umani progetti ottengono a volte delle vittorie di Pirro. Usiamo abitualmente dire vittoria di Pirro per designare una mezza vittoria. Meglio, uno sbandierato successo portato a termine con eccessivi  sacrifici di mezzi, anche in termini monetari. Questo modo di dire affonda le radici nella storia più antica della nostra tradizione, fino ad arrivare alle origini dell’Impero Romano, quando ancora Roma era una modesta repubblica, una potenza peninsulare estesa solo in parte nel centro-sud Italia. Le vittorie di Pirro si ebbero durante le Guerre pirriche, che interessarono il sud Italia tra il 280 e i 275 a.C., contrapponendo la Repubblica Romana e una coalizione greco-italica capitanata da Pirro, re dell’Epiro, regione storica situata circa presso l’odierna Albania. Le guerre pirriche ebbero inizio a causa dell’espansione della giovane Repubblica Romana nel sud Italia, che vedeva nella città libera di Taranto, appartenente alla Magna Grecia, il prossimo obiettivo fondamentale per consolidare la sua presenza sulle coste Ioniche. Taranto allora, chiese aiuto a Pirro, che accettò di entrare in guerra a favore dei greci, con lo scopo di portare sotto la sua sfera di influenza, e in seguito annettere, i territori della Magna Grecia.

La forza di Pirro, dotato di elefanti da guerra, in confronto a quella dei romani, ancora agli inizi della loro ascesa come potenza mediterranea, era estremamente superiore.

All’inizio i romani subirono importanti sconfitte presso Eraclea e Ascoli Satriano, dove però Pirro perse un grande quantitativo di uomini, tanto da ridurre considerevolmente la potenza bellica degli epiroti. Una battaglia volse definitivamente la situazione in favore dei romani presso Maleventum, dove Pirro subì una schiacciante sconfitta, tanto che i romani ribattezzarono il nome della città in Beneventum, l’odierna Benevento. Pirro, per non essere catturato, ritornò nel suo regno dopo aver perso gran parte dell’esercito. Taranto dopo tre anni di assedio capitolò e la Magna Grecia fu annessa ai territori di Roma. Si può dire quindi che furono proprio i grandi sacrifici, in termini di soldati, fatti per vincere alcune battaglie, che causarono la finale sconfitta del re dell’Epiro.

Oggi, non  so come si insegni la storia, ai  miei tempi, parecchi anni fa, la storia era collegata all’educazione civica che  è lo studio delle forme di governo e di una cittadinanza, con particolare attenzione al ruolo dei cittadini, alla gestione e al modo di operare dello Stato.

Cicerone affermava che la Storia è maestra di vita e la vittoria di Pirro ne è un bel esempio, sempre attuale per i novelli rodomonti, ad ogni livello nostrano ed estero, che invece di iniziare delle guerre, oggi interminabili liti, si può guadagnare con una negoziazione che non vuole dire compromesso!

Quando la guerra è in atto, al massimo si raggiunge un compromesso. Ma prima che la battaglia si scateni, che la lite raggiunga l’apice, si può tendere alla negoziazione: comprensione dell’altro e delle sue priorità e scelta di un obiettivo comune. 

Se no, poi fanno la fine di Pirro che si è tornato nell’Epiro con la coda tra le gambe, attapirato. L’aggettivo attapirato, deriva dal verbo “attapirare”, che a sua volta deriva da tapiro, dal notissimo “Tapiro d’oro”, il premio che dal 1996 viene consegnato da un giornalista della trasmissione televisiva Striscia la notizia, a personaggi famosi che sono stati protagonisti di azioni discutibili o di scarsa qualità. Per estensione significa infierire senza pietà e tolleranza contro chi dovrebbe vergognarsi dei suoi comportamenti, perché eticamente squallidi o sbagliati. Attapirante, dunque, ha un significato negativo, di un qualcosa che mostra il peggio di sé, trattasi di cose o persone, degno quindi del tapiro d’oro.

Favria,  10.05.2022  Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno ogni parola che diciamo ha delle conseguenza, ma anche il silenzio. Felice martedì.

Ci sono mattine.

Ci sono mattine di maggio in cui mi sveglio e sento che tutto sta per succedere. Me lo dice la luce che sale e poco a poco illumina prima gli alberi del parco e poi giù fino ai più piccoli fiori del vicino giardino. Tra gli alberi del vicino parco Martinotti gli uccelli cantano, e tutto è una promessa di pienezza.  Allora nel mio animo si allarga il cuore, prendo coraggio aiutato dalla natura che prende spazio con i suoi caldi colori dopo il grigio inverno.

Favria,  11.05.2022 Giorgio Cortese

Buona giornata. Tutta la vita è un bellissimo esperimento di esistere e più ne facciamo, meglio è!  Felice mercoledì

I leoni di Sicilia & l’inverno dei leoni

Ci sono libri che hanno storie che  ispirano empatia e quando li leggi vieni preso dal racconto e ti trovi tra i protagonisti senza mai lasciare la tua poltrona dove leggi il libro. Questo è quanto mi è successo leggendo  questo romanzo dove  pagina dopo pagina, vengo coinvolto e mi identifico con i protagonisti. In questo romanzo si parla della saga di una delle più importanti famiglie imprenditoriali d’Italia. Partiti nel 1799 da Bagnara Calabra, cittadina marittima addossata alle pendici dell’Aspromonte, alla volta di Palermo, gli ambiziosi Florio decidono di far crescere la loro piccola attività di commercio marittimo di spezie: in pochi anni, la loro aromateria diventa la più fornita della città e loro si affermano come i più potenti commercianti di cortice raffinato (usato successivamente per ottenere il chinino) e di zolfo, acquistando case e terreni dagli spiantati nobili palermitani e costituendo una loro compagnia di navigazione. Casa Florio continuerà ad ampliarsi in modo esponenziale sotto la guida di Vincenzo. Le intuizioni e le conoscenze internazionali lo porteranno infatti a fondare, con Benjamin Ingham e Agostino Porry, la “Anglo-Sicilian Sulphur Company” per la produzione e la vendita dell’acido solforico, a dar vita a una cantina per la lavorazione di alta qualità delle uve di marsala, generalmente considerata una bevanda da poveri, e a farne un vino richiesto su scala internazionale, a introdurre un metodo rivoluzionario per la conservazione, e quindi per il commercio e il consumo,  del tonno, rendendolo un prodotto in lattina e sott’olio, e a costituire, nel 1840, la prima Società dei battelli a vapore al mondo, le “Flotte Riunite Florio”, che garantiscono i collegamenti tra Palermo, Napoli, Marsiglia e gli altri porti siciliani. È l’ascesa commerciale e sociale di questa famiglia, quella che la Auci ci racconta, una storia che ha fortemente cambiato e rinnovato la Palermo del XIX e del XX secolo, spesso rimasta spettatrice davanti all’espansione dirompente dei Florio. La classe nobiliare siciliana, detentrice di valori antichi e anacronistici ma con il portafoglio vuoto, assiste con disprezzo e invidia ai successi di questi uomini, giunti dalla terraferma con le mani sporche, gli abiti logori, sguardi lunghi verso l’orizzonte e visioni caparbie sul loro avvenire.

Notevole è la capacità di tratteggio psicologico che emerge tra i dialoghi. Appassionante, incalzante la trama, dove la fiction si mescola ad eventi realmente accaduti, come i moti rivoluzionari e l’arrivo del colera. Tra le donne del romanzo, non c’è solo la volitiva Giuseppina Saffiotti Florio, tenace e di gran carattere, ma c’è anche Giulia Portalupi, milanese, orgogliosa, compagna di Vincenzo Florio, diventata a sua volta vero e proprio punto di riferimento. Sono donne che hanno precorso i tempi, restie, in un certo senso, ai ruoli imposti dalla società e che hanno dimostrato coraggio.

In questo romanzo c’è il sapore del verismo verghiano, che lega  con il sapore del sale marino, l’odore penetrante delle spezie,  lo sguardo che abbraccia affamato i colori delle stagioni palermitane e trapanesi. Quel legame con la Sicilia del “ciclo dei vinti” resta in sottofondo per tutta la lettura del libro, come una presenza spettrale e inquieta che ha il suo nodo più stretto nell’impossibilità per l’uomo di uscire dalle proprie umili origini, nonostante gli sforzi per giungere a uno stile di vita benestante. Come Mastro-don Gesualdo, anche Vincenzo Florio, allo stesso modo del padre Paolo e dello zio Ignazio, resterà per sempre uno “straniero”, un “bagnaroto”, un “facchino”.

Questo romanzo narra un pezzo di storia dell’umanità è reso ancor più vivo ed efficace dalla profondità con cui l’autrice entra nella mente dei personaggi: le frasi sono brevi, all’apparenza semplici, il linguaggio è scorrevole, con alcuni termini dialettali che lo rendono ancor più tridimensionale ed evocativo. In questo modo impressionistico, poche pennellate disegnano precisamente i pensieri dei protagonisti, rendendone la concretezza dei punti di vista e la complessità del quadro d’insieme.

Nel secondo romanzo dedicato a questa famiglia  abbiamo “L’inverno dei leoni”, che non regala un lieto fine. Questa famiglia  passa dalle  stelle alle stalle ricalcando quel modello classico per cui la prima generazione costruisce le fortune, la seconda generazione le consolida, la terza le dissolve riducendo in molti casi in miseria chi aveva avuto la fortuna di ereditare tali imperi economici. Con le dovute differenze, il pensiero va ai Buddenbrook, il capolavoro di Thomas Mann che il grande scrittore tedesco pubblicò all’età di ventisei anni. E a richiamarlo c’è anche una buona ricostruzione delle condizioni sociale di quella Sicilia del periodo in questione, ed in particolare di una borghesia che non riesce a fissare orgogliosamente la propria identità e aspira solo a ripetere i modelli formali della vecchia aristocrazia. Qui si vede la figura di Ignazio Florio jr., che si trova giovanissimo ad ereditare un impero economico, senza averne la giusta maturità per governarlo, per cui appare schiacciato dal confronto con la figura del padre che invece l’aveva saputo fare. L’autrice ne disegna bene il profilo, a cominciare dal suo orgoglio dell’appartenenza, cioè del portare quel nome Florio onorato e riconosciuto come simbolo di successo economico e sociale a livello di opinione pubblica internazionale. Ma anche i limiti che lo contraddistinguono, la realtà di un uomo dominato dalle pulsioni, che non sa resistere ai richiami dei piaceri carnali per soddisfare i quali è pronto a dilapidare fortune. Un personaggio che già dall’avvio porta il segno della sconfitta. E poi, donna Franca Florio, una aristocratica decaduta, che sogna di vivere alla grande e che nelle attenzioni che le presta il giovane Ignazio, che la sposerà più per capriccio che per amore, scopre lo strumento per realizzare i suoi sogni. Una donna che entrata in casa Florio anche, e forse soprattutto, per realizzare il sogno della ricchezza e del lusso, può permettersi tutto e si permette tutto, una donna che vive alla grande pensando che dal sogno non si sveglierà mai. Una donna ferita dalla perdita nel giro di pochissimo tempo di tre figli, evento che la turba profondamente ma non fino al punto di farla rinunciare ai piaceri che la sua condizione le permetteva di soddisfare. Una donna che scambia la propria dignità, sopporta cioè i continui tradimenti del marito, con superfluità e i piaceri che la ricchezza può offrire. Una donna, ed è questa una delle pagine più belle del libro, che in un momento drammatico, quello del furto dei suoi favolosi gioielli, rivela di amare più quelle gioie che le sue stesse figlie. Ma anche il contesto ambientale, un mondo che senza accorgersene scrive, una dopo l’altra, le pagine della sua fine che è anche la fine del sogno di una Sicilia diversa da quella che conosciamo, cioè di una Sicilia che finalmente avrebbe potuto cogliere i segni della modernità invertendo la spirale di parassitismo e sperpero di risorse che, purtroppo ne ha segnato la storia.

Favria, 12.05.2022  Giorgio Cortese

Buona giornata.  Ogni giorno la violenza, anche quella verbale è il rifugio degli incapaci. Felice giovedì.

Un capriolo di nome Bambi.

Tutti noi conosciamo Bambi, la favola di Bambi nota soprattutto per il cartone animato di Walt Disney. Leggere il libro che ha ispirato il film, credetemi ne vale la pena. La storia scritta da Felix Salten nel 1923 ha quasi un secolo ma la parabola del capriolo che nel bosco impara le leggi della vita è talmente semplice da non aver bisogno di aggiornamenti. Per un bambino è la scoperta della natura, degli animali nel rapporto con l’uomo, della violenza e dell’amore. La formazione di Bambi passa per la perdita della madre e attraverso la scoperta della pericolosità dell’uomo, che gli animali del bosco chiamano Lui. Ma nel libro è soprattutto la natura ad essere protagonista. Insomma un grande classico dell’infanzia. Nel libro scopriamo che Bambi appartiene alla famiglia dei cervidi, ma che quello creato da Salten era nello specifico un capriolo vissuto in un bosco dell’Austria, mentre nelle mani di Disney, nel film del 1942, diventerà un cervo della Virginia, con corna molto più grandi e scenografiche, più adatte alla resa sullo schermo. E che il libro non era percepito solo in modo bucolico, visto che i nazisti lo misero al rogo nel 1936, considerandolo un’allegoria della persecuzione degli ebrei in Europa.

Questo libro era in realtà all’inizio rivolto al mondo degli adulti, e riflette l’atmosfera causata dal crescente e aggressivo antisemitismo tedesco. I nazisti bandirono nel 1935 il libro Bambi, una vita nei boschi, scritto da Felix Salten, ebreo di origine ungherese, perché ritenuto propaganda ebraica, cioè un’allegoria politica sul trattamento degli ebrei, i nazisti avevano intuito qual era il significato metaforico della storia. Nel libro, i sentimenti espressi dagli animali simboleggiano quelli umani, che Salten mette quasi sullo stesso piano. L’autore è forse memore della norma ebraica che recita di non cucinare il capretto nel latte della madre, e di affermazioni come quella del profeta Isaia del lupo che dimorerà con l’agnello, dove la metafora è evidente con la morte della madre di Bambi è uno dei momenti critici e più commoventi della storia. I cacciatori, che hanno ucciso la madre, uccideranno altri animali e nessuno si sentirà mai al sicuro. Bambi potrà sopravvivere grazie all’intervento di un maestoso cervo che rivela di essere suo padre. Un altro momento tragico è l’incendio del bosco, in cui tutti sono in pericolo: è possibile che Salten abbia intuito la direzione che avrebbero preso gli eventi con il diffondersi dell’antisemitismo in Europa.

Questi venti oggi caratterizzano la  nascita e lo sviluppo di estremismo e populismo oggi e che non devono essere sottovalutati per le conseguenze tragiche che potrebbero avere. Il testo usato per la produzione di Bambi fu profondamente modificato ed edulcorato rispetto all’originale bandito dai nazisti, per farne una versione adatta al pubblico giovanile cui era diretto.

Il senso della storia nella forma originaria avrebbe avuto un impatto negativo sui giovani, perché avrebbe fatto capire che alla fine Bambi e tutti gli altri animali selvatici nella foresta sarebbero stati uccisi dai cacciatori. L’uso di animali che esprimono sentimenti umani è uno strumento facile per creare empatia e per superare i preconcetti e i pregiudizi negativi sugli ebrei e sulle minoranza da parte di molti lettori: così per Salten fu possibile parlare della persecuzione degli ebrei, senza essere didattico, e incoraggiare il lettore a sentire più empatia verso i gruppi oppressi e avere spirito critico verso i loro oppressori. “Anche molti altri scrittori, come George Orwell, hanno scelto gli animali per esprimere determinate idee perché si possono affrontare più liberamente problemi che potrebbero irritare i lettori. Non si vuole che inorridiscano, ma che alla fine dicano: questa è una tragedia”, dice Zimes sottolineando che la nuova traduzione tenta anche di rendere in inglese per la prima volta il modo in cui parlano alcuni personaggi del romanzo di Salten. Quando parlano in tedesco, hanno uno stile viennese, ed è quindi facile riconoscere che non stanno parlando come parlano gli animali, ma che sono esseri umani. Al contrario, la traduzione inglese, pubblicata nel 1928, ha un tono e una forma antropomorfica: la versione proposta per il film doveva rispondere agli interessi di Disney che amava le storie di animali da salvare, cosa che avrebbe catturato l’interesse dei bambini e non solo. Il destino di Felix Salten non fu diverso da quello del suo Bambi: quando la Germania annette l’Austria nel 1938, Salten riesce a fuggire in Svizzera. A quel punto, aveva venduto i diritti cinematografici per soli mille dollari a un regista americano, che poi li avrebbe venduti a Disney. Salten stesso non guadagnò mai un centesimo dall’animazione della storia. Privato dai nazisti della cittadinanza austriaca, trascorre i suoi ultimi anni solitario e disperato a Zurigo, dove muore nel 1945. Il film intanto era stato realizzato e presentato nel 1942 e vincerà diversi Oscar. Ritengo che raccontare una storia servendosi di metafore può aiutare la crescita non solo dei bambini, ma dell’uomo in generale. Nei testi biblici, ma anche in quelli di Esopo, Fedro e La Fontaine, ogni persona può trovare una risorsa cui ispirarsi.

Favria, 13.05.2022 Giorgio Cortese

Buona giornata. Sono dell’opinione che posso ricavare qualcosa di positivo in tutte le circostanze. Felice venerdì.

Avvento dell’avventore,  l’inizio dell’avventura.

La parola avvento significa che deve venire. La parola deriva dal latino adventor con il significato di avventore, forestiero, derivato da advenire, giungere con il prefisso “ad” che indica avvicinamento, ed oggi  indica il cliente di un di un negozio, frequentatore, chi prende posto in un locale. E’ singolare che questa parola che  esprime  una situazione che quotidianamente avviene per indicare la persona entra in un locale come il bar o ristorante

La parola avventore un termine recuperato dal latino nel Cinquecento, non è una  persona avventata. La il verbo avventare deriva dal latino  ventus, vento, entro nella lingua italiana tramite il provenzale ventare e poi il francese antico venter, gettare al vento, mediante una forma neolatina ad ventare, scagliarsi con forza, con impero contro qualcuno,  come il vento, e divenuto  in uso metaforico come sconsideratezza.

La nostra parola avventore narra che l’antico adventor era chi arrivava come cliente o come forestiero, ma sempre comunque ospite.

Oggi il lemma avventore lascia un margine di sconosciuto, come d’altronde fanno certi altri suoi parenti etimologici, come l’avvenire e l’avventura.

La parola avventura, per concludere deriva dal latino, sempre lui, advenire, sopraggiungere mediante adventurus, avvenimento.

La vita ogni giorno è un ignoto che ci investe ed è  la più bella delle avventure ma solo noi avventurieri su questa terra giorno dopo giorno la possiamo scoprire.

Favria, 14.05.2022    Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita quotidiana non conta quello che diciamo o pensiamo ma quello che facciamo. Felice sabato.

Avere gli orecchi lunghi.

Inizio questa mi riflessione semiseria per affermare che molte volte non capisco nulla, ignorante e cocciuto, come la tradizione vuole che sia l’asino per via delle sue lunghe orecchie.

Parlo dell’udito e non solo dell’incredibile abilità nell’utilizzare entrambe le orecchie, di cui sono fornito, per percepire i suoni in movimento nello spazio e quindi la loro provenienza.

Il termine tecnico per indicare questa capacità viene detto ascolto binaurale, comunemente conosciuto come udito.

Assieme agli altri cinque sensi,l’udito rappresenta un importante flusso di informazioni.

La nostra civiltà ruota attorno all’udito

Poiché l’udito è sempre stato importante per noi, abbiamo costruito il nostro mondo intorno ad esso. Così le campane scandiscono il passare del tempo; gli impianti di diffusione sonora forniscono informazioni importanti mentre si attraversa una stazione ferroviaria; le applicazioni di navigazione impartiscono comandi verbali che ci consentono di seguire le indicazioni senza abbassare lo sguardo.

Usiamo sempre più segnali acustici elettronici che ci dicono, per esempio, se una pietanza è cotta, se il computer si sta avviando o se la cintura di sicurezza è slacciata.

Le nostre orecchie ci aiutano anche a mantenere oggetti e apparecchiature funzionanti: i cigolii ci dicono che un oggetto necessita di essere lubrificato; dei colpi ci suggeriscono che qualcosa ha bisogno di manutenzione; uno sferragliamento indica che un componente si è allentato.

Senza questi semplici indizi e segnali, la vita diventa un po’ meno semplice.

Infatti, attività e stimoli come comunicare e socializzare con il prossimo,interagire e lavorare con il mondo esterno dovrebbero permettere di mantenere il cervello sempre attivo, ma a volte pur ascoltando certi discorsi non riesco a comprenderne il significato. Mi pare di avere gli orecchi foderati di prosciutto. Ma forse più che non sentire fingo, come se avessi le orecchie coperte da grosse fette di prosciutto che non lasciano passare i suoni. Devo insomma aprire bene le orecchie, per prestare la massima attenzione, a chi mi parla.

Invidio quelle persone che vivo la vita ad orecchio, simili a musicisti che suonano senza avere il brano davanti e riescono sempre ad improvvisare, ma sicuramente non parlo di altre persone solo per sentito dire perché non è mia abitudine allungare le orecchie per carpire informazioni varie, senza farmi notare. E si quello che devo fare tendere meglio le orecchie prestando sempre la massima attenzione, con chi mi sta parlando.

Forse non ho un orecchio, per la musica, figuriamoci se ho un udito fine. Non dico che sono duro d’orecchio, ma per pigrizia a volte fingo di non sentire. Cerco sempre di essere tutt’orecchi, concentrandomi e attento nell’ascoltare il mio interlocutore.

Ma a volte nella vita è meglio fare orecchio da mercante, facendo finta di non sentire, come i mercanti che udivano solo quello che faceva loro comodo invocando la confusione della piazza del mercato.

Perché con certi personaggi è meglio non aver né bocca né orecchie per evitare di farmi coinvolgere. Con gli amici per le loro confidenze invece non ho né occhi né orecchie, per essere il massimo della discrezione, fingendo di non vedere e non sentire nulla, come se si fossi privi di occhi e di orecchie.

Gli amici di penna hanno ragione di tirarmi le orecchie per la mia pigrizia ma tranquilli, le Vostre sollecitazioni non mi entrano da un orecchio e uscire dall’altro, questo secondo una vecchia credenza che la persona a cui è diretto il consiglio gli attraversa fugacemente il cervello e se ne esce senza lasciare traccia.

È vero mi sento fischiare le orecchie come un’antica credenza vuole che se qualcuno parla di una persona assente, questa si sente fischiare le orecchie. Si può addirittura stabilire se ne parla in bene o in male a seconda che l’orecchio interessato sia il sinistro oppure il destro, e se poi si vuole cercare d’individuare l’autore del discorso, basta scegliere a caso una lettera dell’alfabeto che ne darà l’iniziale del nome. Il giochetto è talmente antico che ne parla anche Plinio il Vecchio nella sua Storia naturale (XXVIII, 5).

Non mi tappo gli orecchi rifiutandomi di ascoltare.

Anzi tendo sempre l’orecchio su quello che mi scrive l’amico di penna e spero che non mi tiri le orecchie per la mia assenza.

Affermava Zenone di Cizio che la ragione per cui abbiamo due orecchie e una sola bocca è che dobbiamo ascoltare di più e parlare di meno, ma poi se scrivo tanto non è colpa mia, ho due mani.

Favria,  15.05.2022  Giorgio Cortese

Buona giornata. Non servono grandi ali per spiccare il volo, la vita è molto più vasta di quanto immaginiamo. Felice domenica.

Barbarus hic ego sum…

Per gli antichi Greci l’incespicare nel linguaggio era assimilato alla condizione di barbaro.

Nel corso della storia molte persone ne hanno sofferto, tra loro numerosi sovrani, scienziati e noti artisti. Purtroppo per secoli la la balbuzie ha costituito un marchio negativo per gli esseri umani, mi viene in mente il matematico Niccolò Fontana, meglio noto come Tartaglia a causa della sua balbuzie. Come dicevo èrima per gli antichi greci, gli stranieri erano chiamati barbari, in latino poi barbarus,  con il significato che davano i greci con il lemma  “bárbaros,straniero” nel senso di balbettante, incapace di farsi capire. Come si vede una classificazione a doppio taglio. Lo dice una lettera di Aristotele che consigliava ad Alessandro, scriveva Plutarco, di comportarsi coi greci da stratega, con i barbari da padrone e di curarsi degli uni come amici e famigliari, degli altri come animali e piante.

Anche tra gli antichi cinesi si parlava degli stranieri che vivevano nelle steppe ai margini della terra di mezzo come abitanti che parlano un linguaggio incomprensibile.  Di conseguenza, per i cinesi del I secolo d.C. un governo saggio deve trattarli come bestie selvagge.

Nella storia umana gli affetti da balbuzie famosi sono tanti, da Mosè per il quale si dice che aveva una ferita subita da bambino alla bocca a causa della prova, cui l’aveva sottoposto il faraone facendogli scegliere tra un gioiello d’oro e una brace che il piccolo portò alla bocca perché luccicava ancora di più?

Balbuziente era il re Battos, in greco antico, balbuziente, fondatore della colonia greca della Cirenaica.

Sempre Plutarco affermava che Demostene, un personaggio storico, famoso filosofo greco che soffriva di balbuzie. Questi pur afflitto da tale difficoltà non si arrese mai e la vinse, fino a diventare il più grande oratore della storia ellenica. Demostene per porre rimedio a una pronuncia poco chiara e alla balbuzie e riuscire ad articolare bene le parole, si infilava in bocca dei sassolini e contemporaneamente declamava qualche passo; volendo, inoltre, rinforzare anche la voce, faceva conversazione mentre correva o si inerpicava per qualche salita e intanto, tutto d’un fiato, proferiva discorsi o versi, esempio importante per tanti balbuzienti.

Le balbuzie sono semplicemente un problema espressivo, non legato né all’intelligenza, né al talento, come dimostra il fatto che molti grandi della scienza e delle arti fossero balbuzienti.

Da Luigi II detto il Balbo re della Provenza e dell’Aquitania, dal conte Oliba detto Cabreta, signore della Cerdanya, citato nelle cronache medievali perché faticava tanto a estrarre le parole che batteva la terra tre volte come una capretta, all’imperatore d’Oriente Michele II il Balbo.

Anche San Carlo Borromeo soffriva di balbuzie.

Ma pure Luigi XIII, il figlio di Caterina de Medici, re di Francia era balbuziente. Si narra al riguardo che un giorno mentre era a caccia, il re Luigi XIII, avendo perduto di vista il falco da lui lanciato un momento innanzi, si volse a un cavaliere seguito che gli si trovò vicino in quell’istante e si mise a gridargli: “L’oi… l’oi… l’oi… l’oi… l’oiseau”, per domandargli se vedeva dov’era volato l’uccello. Il cortigiano a cui si era rivolto era il conte di Thoiras, che per la prima volta era stato ammesso a una caccia reale e che, avendo ben capito ciò che sovrano gli domandava, prese subito a rispondergli sullo stesso tono: «Le voi… le voi… le voi… le voilà…» Immaginatevi il re di Francia che divenne, dicono i testimoni paonazzo in volto. Per fortuna era sopraggiunto in quell’istante un altro cortigiano il quale fu pronto a dire al re: che ignorava del  fatto che il conte di Thoiras aveva l’onore di essere balbuziente!.  Ed ecco che il conte di Thoiras  fece perfino carriera.

Famoso è stato Giorgio VI d’Inghilterra, il padre della regina Elisabetta II, la cui storia è stata raccontata ne “Il discorso del re”, vincitore di quattro Oscar. Film magnifico che trascurava un dettaglio: anche Winston Churchill, che inciampava spesso nella balbuzie.

Altri balbuzienti famosi sono stati Alessandro Manzoni, Anthony Quinn, Tiger Woods, Marilyn Monroe, Alberto di Monaco, per arrivare a Joe Biden.

A proposito dei barbari chiamati dagli antichi  Romani,  Ovidio, esiliato, sul Mar Nero, cosi si sfoga: “Barbarus hic ego sum quia non intelligor illis”, qui il barbaro sono io, perché nessuno mi capisce.

In conclusione quando incontriamo un nostro simile la comunicazione parte non dalla bocca che parla ma dall’orecchio che ascolta e personalmente ritengo che tutti balbettino e non solo nell’incespicare su di una parola, ma scivolano su certi ragionamenti e per loro l’unica cura è quella di imparare a ragionare come essere umani e non come bestie.

Favria, 16.05.2022 Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita quotidiana il coraggio non è non avere paura, ma avercela e andare avanti lo stesso. Felice lunedì.