Veterinario. – Il falco ed il gallo. – Benvenuta estate. – Gentile & cortese. – Il sonno. – Tiglio, profumo di festa Patronale! – Sereno, no secco! La siccità. – Il mito delle quattro stagioni. – Gli odori e profumi…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Veterinario. Oggi se pensiamo al veterinario, il pensiero corre al dottore che cura i nostri

animali di compagnia, cani e gatti in primis e poi il dottore che vista le stalle per la salute delle mucche. Ma in origine non era così. La parola deriva dal basso latino: (animalia) vehiterìna animali da trasporto. Identica radice di “veicolo”.  E’ strano ritrovarsi a considerare che una professione come il veterinario, che oggi sembra tanto propria di società evolute in cui sia ben radicata la concezione di animali d’affezione, a cui può sembrare che si dedichi esclusivamente, nasca invece in relazione alla cura degli animali da soma, ai tempi, d’importanza cardinale per economia e sostentamento. Pensate che nell’antico Egitto, esistettero medici di buoi, di polli, di gazzelle. Nell’antica Grecia esisteva la figura dell’ippiatra, nedico del cavallo, che era il veterinario militare. Anche nell’antica Roma esistevano gli ippiatri al seguito delle legioni. Con la caduta dell’impero romano il medicus veterinarius con vocabolo di origine barbara, marah, cavallo e skalks, servo,  divenne marescalco e poi maniscalco fino quasi a tutto il sec. XVIII, cioè fino alla fondazione e all’affermazione delle scuole veterinarie in Francia, quando il vocabolo latino veterinaria risorse a nuova luce.  Ai  primordî del sec. XIX, l’italiano Giovanni Pozzi ne propose la sostituzione con la voce “zooiatria” ma la proposta incontrò scarsa fortuna
Curioso che in Inghilterra nel sec. XV, secondo un’ordinanza di Londra, si aveva la distinzione tra maniscalco, maresciallo e veterinario: quest’ultimo solo era il “medico” dei cavalli.

I maniscalchi praticavano la ferratura, consigliavano nella compravendita e potevano anche “consigliare” una cura, che doveva però essere lasciata sempre al veterinario; altrimenti essi erano condannati a indennizzo nel caso che la cura fosse andata male. Il maresciallo era il “maestro di stalla” nelle grandi scuderie, e questo titolo rimase fino al sec. XVIII. È noto fra gli altri il maestro maresciallo italiano Annibale alla corte di Enrico VIII. F. Herbert nel 1523 adopera la parola horseleach per medico dei cavalli; e T. Blundeville, quando scrive la sua opera (1565), I quattro principali scopi della cavallerizza, non conosce ancora la parola veterinarius. La parola veterinarian ricorre per la prima volta in T. Browne (1646). Carlo II diede ai maniscalchi curanti di Londra uno stato corporativo, a capo del quale nel 1675 troviamo il “maresciallo ferratore” Andrea Snape, discendente da una famiglia che da oltre 200 anni esercitava l’arte, autore del primo trattato inglese di anatomia veterinaria (1683) e noto plagiatore del Ruini. Nei primi decennî del sec. XVIII accanto ai maniscalchi per i cavalli comparvero anche medici per i bovini e per piccoli animali. Ma già varî medici umani cominciarono a occuparsi di veterinaria. Nel 1765 un altro della famiglia Snape aprì un ospedale per cavalli, nel quale anche s’insegnava la professione: ma il tentativo fallì e l’ospedale equino fu chiuso nel 1778. Nel 1789, per iniziativa del francese Vial de Sainbel, fu fondata a Londra una scuola privata di medicina veterinaria, di cui fa animatore J. Hunter; e nel 1823 un’altra ne venne fondata a Edimburgo da William Dick. Una scuola statale fu fondata dal governo reale soltanto nel 1844.

Favria, 19.06.2022    Giorgio Cortese

Buona giornata. Noi donatori di sangue siamo creature uniche ed irripetibili, è scritto nel nostro patrimonio genetico ma anche nel nostro sangue. Felice domenica

Il falco ed il gallo

Un falco s’era lasciato addomesticare, e veniva a posarsi sulla mano del padrone, quando lo chiamava. Il gallo, invece, scappava lontano e schiamazzava, quando il padrone gli si avvicinava. Allora il falco disse al gallo: “Voialtri galli non conoscete la gratitudine. Soltanto quando siete affamati, vi accostate ai padroni! Ben diversi siamo noialtri, uccelli selvatici: noi, di forza, ne abbiamo tanta, e in volo siamo più veloci di voi, ma non scappiamo lontano dagli uomini, anzi andiamo di nostra volontà a posarci sulla loro mano, quando essi ci chiamano. Noi siamo riconoscenti a chi ci dà mangiare”. Rispose il gallo: “Voi non scappate lontano dagli uomini perché non avete mai visto un falco arrosto, ma noi, di galli arrosto, ne vediamo ogni momento”.  Questa favola di Lev Tolstoj ci ricorda quanto la gente parli a sproposito e superficialmente, senza conoscere i fatti e le circostanze che stanno dietro alle singole situazioni.

Favria, 20.06.2022  Gioprgio Cortese

Buona giornata. Nella vita quotidiana tutto quello che vogliamo e desideriamo  si trova dall’altra parte della paura. Felice lunedì.

Buona giornata.

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Benvenuta estate.

Cia siamo oggi martedì 21 giugno l’estate è ufficialmente iniziata. Oggi cade il solstizio della bella stagione che ci accompagnerà fino a settembre, prima di lasciare spazio di nuovo all’autunno. Il 21 giugno è anche il giorno più lungo dell’anno: oggi godremo infatti di ben 15 ore e 14 minuti di luce. Come chiariscono gli esperti, con il solstizio d’estate inizia la stagione astronomica. Quella meteorologica è iniziata il 1° giugno e terminerà il 1° settembre. Da  domani, 22 giugno,  il picco del sole  inizierà di nuovo a spostarsi sempre più a Sud, e le giornate, che fino a oggi si erano a poco a poco allungate, riprenderanno ad accorciarsi e che termineranno intorno al 21 dicembre con il solstizio d’inverno. Pochi minuti di luce in meno che, almeno nei primi mesi, nemmeno ci accorgeremo di perdere. Il solstizio d’estate è stato considerato un giorno speciale da molte civiltà del passato. Pare che le pietre di Stonehenge servissero proprio a studiar e i solstizi ed equinozi. La parola estate molte volte è stata usata come sfondo per i romanzi e film più celebri. Intonata nelle canzoni più famose e non, descritta magistralmente dai grandi poeti. Ed ognuno di noi l’attende per nove lunghi mesi dopo giorni corti, freddi e piovosi. Per poi poter godere finalmente del pieno della luce solare. Però, sempre il più delle volte, quando è arrivata, ci lamentiamo per il troppo caldo. Stiamo parlando della stagione estiva. Ma effettivamente noi della parola ‘estate’ che cosa sappiamo? Oltre all’associazione naturale che facciamo con l’ombrellone, il mare, la montagna, il relax e con un’altra parola, tanto cara solo a sentirla: ‘vacanza’. Quanto conosciamo l’etimologia di questa parola? Forse molto o forse poco. Nella settimana in cui, dal punto di vista astronomico, incomincia questa piacevole stagione dell’anno, scopriamo, seppur brevemente, la vera etimologia. Naturalmente le origini di tale termine affonda le sue radici in un tempo lontano e, in un’epoca storica, in cui tutte le lingue esistenti ancora non erano nemmeno lontanamente sviluppate come al giorno d’oggi. I popoli antichi, all’inizio, fruivano della radice linguistica, nel sanscrito, ‘idh’ o ‘aidh’. In entrambi i casi, con questa espressione, ci si riferiva alle parole ‘ardere’, ‘infiammare’ ed ‘accendere’. Quest’ultimo vocabolo tradotto in italiano lo ritroviamo, proprio come specifica accezione, nella lingua greca con la medesima radice etimologica, ma, ovviamente, mutata nel corso del tempo, ossia ‘aitho’. Nella lingua latina, invece, la lente d’ingrandimento si sofferma sul sostantivo maschile ‘aestus’ della quarta declinazione. Oltre a questo lemma, è bene richiamare, anche, ‘aestas’ che invece è della terza declinazione femminile. Precisamente il sostantivo maschile, tradotto in italiano significa ‘calore’, mentre il sostantivo femminile ‘calore bruciante’. Difatti, se consultiamo il vocabolario, scopriamo che la differenza fra queste due varianti fa riferimento all’innalzamento della temperatura con il sole che rimane più tempo in cielo.

Favria, 21.06.2022  Giorgio Cortese

Buona giornata. E’arrivata l’estate. La luce si è fatta incredibilmente forte. Felice martedì.

Gentile & cortese

Nella vita essere gentile e cortese ritengo che mi faccia bene alla salute, mi ha fatto sempre guadagnare simpatie e aiuta a creare un clima rilassato e positivo per affrontare i vari ostacoli quotidiani. Il significato del lemma “gentile” deriva dal greco antico ethnikos, da ethnos razza, gente, che nell’antico testamento è usato per indicare il popolo pagano non ebreo.  Successivamente trradotto in latino come gentilis della stessa famiglia, da gens formazione famigliare allargata, da gignere generare, intendendo i generati da un medesimo mitico capostipite. Nell’Antica Roma  “gens”  era una formazione sociale sovrafamiliare patrizia,  un po’ come se fosse una famiglia nobile allargata, un clan a cui appartengono molte famiglie. Formazione sociale che mi riesce difficile immaginare, dal mio contesto attuale. Secondo i Romani queste gens discendevano ciascuna da un capostipite mitico, più probabilmente furono dei retaggi di formazioni tribali diverse che confluirono nello Stato romano. Gli appartenenti alla stessa gens avevano dei  reciprochi doveri di assistenza e difesa, oltre che il diritto di successione ereditaria in mancanza di parenti prossimi,  e condividevano i luoghi di sepoltura. Così l’essere “gentili” implicava un comportamento più fraterno rispetto a quello tenuto con estranei di altre gentes, anche se magari, vista l’ampiezza di queste gentes, i gentili fra loro non si conoscevano nemmeno.  Cortese come significato deriva da cortigianeria ed adesso  significa: buone maniere. Oggigiono essere  “gentile” e cortese non vuol dire  essere “debole”, ma è il contrario. Certe persone si indignano e ricorrono agli urli e alla maleducazione,  e di fronte a questi atteggiamenti penso che che la persona malvagia può essere fermata, ma la stupità no, con la sua esperienza risorge sempre. Ecco allora la forza della gentilezza e della garbata cortesia che non è solo di facciata ma è sempre  reciproco rispetto, ascolto, comprensione, partecipazione. Non parlo  degli inutili ossequi che sono disgustosi, insomma pura ipocrisia che spesso nascondono atteggiamenti e intenzioni tutt’altro che amichevoli.  Certo nella vita  non posso sempre essere gentile ed amichevole con tutti, l’onesta sincerità e la correttezza possono imporre, quando è necessario, toni e comportamenti duri e rigorosi. Ma posso essere sincero e sereno senza alzare i toni ne essere volgare o maleducato. Certo oggigiorno l’atteggiamento dominante, complici i media con i i programmi spazzatura.  Note che, quando cresce il chiasso della scortesia, dell’arroganza e dell’alterigia, aumenta spontaneamente la gentilezza nei rapporti, abituali o casuali, della mia vita personale. Magari con un tono di voce, un sorriso, un gesto, un atteggiamento, un silenzio o un cenno di comprensione.  Ritengo che la  vita quotidiana un  gesto di sincera, umana gentilezza può essere più forte di mille polemiche, perché è basilare saper ascoltare per capire la  situazione anche dal punto di vista di chi interloquisce con me. Certo molte volte dei miei atteggiamenti posso provocare anche antipatia, ed io li devo accettare come sono, perdonando anche l’imperdonabile, tollerando anche l’intollerabile senza mai serbare rancore ma sicuramente senza mai piegarmi alla volontà altrui con falsa acquiescenza. Né mai rinuncio al diritto di avere le mie opinioni, anche quando sono diverse dalle convenzioni più diffuse, ma posso gestire anche la differenza di pensiero e di atteggiamento senza offendere o denigrare nessuno. Qui non parlo di diplomazia, ma di gentilezza una risorsa che può rivelare un potere dirompente soprattutto nell’epoca odierna, in cui i rapporti fra esseri umani sono sempre meno autentici e sempre più formali. Mai come oggi le relazioni sono state così fredde e spersonalizzate, ma sempre di più è sentita la necessità di un ritorno ad atteggiamenti genuini, la gentilezza appunto. La forza della gentilezza e dell’atteggiamento cortese nell’ascoltare e condividere. Ogni giorno cerco di sforzarmi di scoprire dove, anche in ciò che a prima vista mi sembra sbagliato può avere delle opportunità per migliorarmi.  Troppo spesso si accumulano rancori, incomprensioni, conflitti che trasformano un trascurabile episodio, o un problema che il buon senso potrebbe risolvere, in un incrocio di animosità che alla fine non ha vinti né vincitori, ma provoca un profondo malessere. Certo la forza della gentilezza non basta da solo per i rapporti tra persone ma mi sembra un comportamento che mi fa stare bene e fa del bene, e riesco a farla crescere,  e meno maleducato  diventa il mondo in cui vivo

Favria, 22.06.2022   Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno mi sforzo di scrivere le mie ferite sulla sabbia ed a incidere le mie gioie sulla pietra felice mercoledì.

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Il sonno.

Con questo caldo si dorme meno di notte e poi durante la giornata, complice il caldo veniamo presi dal sonno subito dopo pranzo. Il sonnellino pomeridiano detto pennichella che pare derivi dal lemma latino pendiculare, pendere. Questo forse dall’immagine del capo che inizia ad oscillare a destra e a manca, mentre seduti sulla sedia o in poltrona e le palpebre che calano inesorabilmente. Questo riposino viene anche detto siesta, parola spagnola che proviene dal latino hora sexta che significa “la sesta ora del giorno” e che corrisponde approssimativamente al mezzogiorno per i romani.  Secondo un filosofo “Il sonno è una sorta di innocenza e di purificazione”, nelle Tusculanae Cicerone lo definiva imago mortis; gelidae mortis imago, ribadiva Ovidio negli Amores, “particella di morte” era per Leopardi, e così via in un lungo elenco funereo che approda alla requies aeterna cristiana. Stiamo parlando del sonno, un’esperienza che intreccia in sé fisiologia e simbologia e persino teologia, tant’è vero che la risurrezione di Cristo, mi diceva un amico sacerdote è espressa col verbo greco eghéirein, “risvegliarsi”, un termine che risuona 144 volte nel Nuovo Testamento. Per molti l’insonnia è un incubo sul quale sembra echeggiare il celebre monito nel III atto, Calaf, il figlio del vecchio re tartaro Timur, nella Turandot pucciniana: “Nessun dorma! Nessun dorma!”. Il sonno, come confessa colui che l’ha perso, Macbeth di Shakespeare nell’atto II: “…pettina l’animo sfilacciato dalle occupazioni quotidiane ed è un bagno ristoratore del faticoso affanno, balsamo alla dolente anima stanca, piatto forte alla mensa della grande Natura, nutrimento principale nel banchetto della vita”. Il sonno ha dato origine a tanti detti, proverbi e aforismi, dal popolare ninnananna, la notte porta consiglio, cascare dal sonno, morto di sonno, chi dorme non piglia pesci. A proposito di quest’ultimo detto, è curioso notare che l’insonnia in greco è agrypnía che unisce in sé l’ovvio hýpnos, “sonno”, a ágra, “pesca”!  Certo il dormire non deve diventare rassegnazione come recita la famosa frase: “Svegliatemi quando tutto è finito”, come pensano certe persone quando hanno un periodo difficile di poter dormire fino a quando tutto non sarebbe passato. Poi forse al risveglio i problemi sono aumentati. Tornado al sonno, noi esseri umani trascorriamo mediamente un terzo della nostra vita dormendo. Ma dormire non vuol dire tagliare completamente i ponti con la realtà o “spegnersi”, anzi, il nostro sonno è un fenomeno attivo che svolge tante importante funzioni nell’ambito della conservazione delle nostre funzioni cognitive, della nostra competenza immunologica, nella protezione cardiovascolare e nella riparazione dei nostri tessuti. Come abbiamo visto il fenomeno del sonno ha da sempre colpito l’immaginario l’immaginario collettivo con il fenomeno più conosciuto, il “sogno”, studiato variamente negli anni sia per il suo significato biologico che psicoanalitico.  Il sonno è fondamentale alla tutela del nostro benessere e solo quando non riusciamo a dormine ce ne accorgiamo. Benvenuto sonno ristoratore ogni notte che è per noi esseri umani ciò che la carica è per l’orologio.

Favria,  23.06.2022 Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita quotidiana mi inquietano di più le persone che discriminano, ma di quelle che rimangono in silenzio. Felice giovedì

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Tiglio, profumo di festa Patronale!

I tigli in fiore sono gli alfieri odorosi dell’imminente festa patronale di San Pietro a fine giugno in Favria. Il tiglio è un albero presente in diversi miti e mitologie. Secondo un mito c’era molto e molto tempo fa, prima che Zeus diventasse il Signore dell’Olimpo, una bellissima ninfa di nome Filira, figlia dell’Oceano sorella di della ninfa Stige, il fiume che bagna gl’inferi e che anche gli Dei temono, sul quale prestano i loro giuramenti. E questa donna antichissima fu amante di Crono, il primo dei Titani, coloro che a quei tempi dominavano il mondo. Ma Crono aveva una sposa, Rea, la quale un giorno sorprese il marito a letto con Filira, ed egli, vedendosi scoperto, ecco che subito balzò dal giaciglio con forma di stallone e fuggì via. Anche Filira si allontanà da quel luogo per sempre, e prese dimora sul monte Pelio, in Tessaglia, terra di streghe e magia quanto nessun’altra nell’Ellade. Qui, in una grotta che prese il suo nome, diede alla luce il figlio del suo amore, Chirone. Ma Chirone non era un bimbo come gli altri, era infatti un Centauro, il primo ed il più saggio, metà uomo e metà cavallo, a causa delle metamorfosi del padre. Secondo il mito la madre, presa dalla vergogna per un figlio tanto orripilante invocò gli Dei, e chiese di venir tramutata in qualcos’altro. Così fu che divenne il primo albero di Tiglio, ma attenzione la parola Filiria, alcuni studiosi fanno risalirea philyra al greco philos, amico, e yron, sciame, col significato di pianta amata dagli sciami di api.Ma attenzione non è una storia triste, Chirone divenne un grande conoscitore delle erbe con le quali curava gli uomini, e ciò non stupisce vista la madre, essendo il Tiglio da sempre ritenuto un albero dalle grandi proprietà medicinali, il cui nome nelle lingue germaniche ha dato origine al verbo lindern, alleviare, calmare, mitigare, fu un grande maestro di eroi, fra i quali Giasone ed Achille. Bellissimo è il mito sul Tiglio narrato da Ovidio nelle Metamorfosi che narra di quando vivevano un tempo in Frigia in una piccola capanna, due anziani sposi , Filemone e Bauci. Un giorno gli Dei si presentarono alla loro umile abitazione chiedendo ospitalità, dopo essere stati rifiutati da tutti i vicini molto più ricchi ed agiati dei due vecchi. Questi accolsero i misteriosi stranieri con gentilezza e con ogni riguardo. Allora, volendo gli Dei punire coloro che avevano rifiutato loro ospitalità allagarono la piana, ma salvarono Filemone e Bauci dicendo loro che avrebbero potuto chiedere ciò che volevano in cambio della loro affabilità; essi chiesero solo di poter divenire loro sacerdoti e di morire insieme, poiché s’amavano molto e non volevano sopravvivere l’uno all’altro. Così la loro dimora divenne un tempio, e quando giunse il tempo della morte, i due si mutarono in alberi, Filemone in Quercia e Bauci in Tiglio che ha come caratteristiche la gentilezza, premurosità e accoglienza. Nei paesi del nord Europa la sacralità degli alberi si è conservata per molto tempo, tanto che ancora in epoca medievale e spesso anche più tarda, venivano emessi divieti e decreti affinché si cessasse di adorare i boschi sacri e particolari alberi, i quali in molti casi furono abbattuti. Il nome della madre di Odino, Bestla, sembra significhi, fibra della parte interna della corteccia, soprattutto del Tiglio, ed ecco nuovamente questo albero come Antica Madre che precede l’ascesa degli Dei indeuropei, dei quali in questo caso è madre e non sposa. Nella Saga di Sigfrido il Tiglio ha un ruolo centrale, l’eroe principale, dopo aver ucciso un drago guardiano di tesori, si bagna con il suo sangue che lo rende invulnerabile, ma nel mentre, una foglia gli cade fra le scapole, e quello sarà il suo unico punto debole, che scoperto dai suoi nemici, verrà trafitto e porterà l’eroe alla morte. Dalle trascrizioni Medievali di questa storia, la foglia che cade sulla schina di Sigurd, è proprio di Tiglio. In Scandinavia è anche uno degli alberi vardtrad, parola svedese composta da varda, curare e trad albero, comunemente tradotta come albero che cura. Questi particolari alberi sono i custodi delle case o dei villaggi, se vengono tagliati l’abbondanza e la fortuna abbandonano il luogo. Per questo le famiglie lasciavano offerte alle sue radici, sotto le quali si diceva vivessero gli spiriti aiutanti della comunità. Questa tradizione sembra essersi conservata in ambienti di lingua tedesca dove fino alla fine del XIX secolo si potevano ancora trovare il Dorflinde, il Tiglio del villaggio ed il Gerichtslinde, il Tiglio del giudizio” intorno al quale si tenevano i processi, poiché era opinione diffusa che sotto ai suoi rami non si potesse mentire, e che la sua dolcezza avrebbe mitigato le sentenze troppo severe. Ma si ha notizia anche di Tanzlinde, il Tiglio del ballo, sotto le cui fronte si tenevano danze di buon augurio durante le pricinpali feste dell’anno. Molti di questi Tigli, essendo stati curati per generazioni dagli abitanti dei villaggi divennero molto vecchi ed imponenti, e molteplici vennero dedicati alla Madonna in tempi più tardi. Di nuovo, il Tiglio come Madre amorevole, femminile protettrice.

Favria, 24.06.2022 Giorgio Cortese

Buona giornata. Se ogni giorno doniamo senza aspettarci nulla abbiamo sempre nell’animo il fiore della gioia. Felice venerdì

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Sereno, no secco! La siccità.

La parola siccità deriva dal lemma secco a sua volta sereno. Se oggi la parola sereno significa limpido, senza nuvole che esprime tranquillità, in latino serenus era il secco, l’asciutto. Poiché l’asciutto della terra dipende dall’asciutto del cielo, si comprende come questa idea di secco si sia proiettata in alto, descrivendo uno stato limpido dell’atmosfera, privo di nubi, privo di nebbia.

La siccità, la mancanza o carenza di pioggia non è solo una caratteristica di questo periodo contemporaneo che stiamo vivendo. Nella storia dell’umanità la siccità, alluvioni, eruzioni vulcaniche hanno segnato la fine di imperi e scatenato rivoluzioni.  Il più grande dei mutamenti climatici recenti, la fine della glaciazione avvenuta intorno a 12 mila anni fa per le lente variazioni dell’orbita terrestre, ha addirittura fatto nascere la storia del genere umano. L’aumento di temperature e piogge in molte aree del Pianeta le rese infatti adatte ai cereali, innescando l’invenzione dell’agricoltura, delle città e della scrittura, e chiudendo così i 200 mila anni di preistoria in cui gli umani erano stati solo cacciatori-raccoglitori nomadi. L’essersi rese dipendenti dalla terra coltivata rese però le civiltà umane, già dagli inizi, vulnerabili al clima, a cui non si poteva più sfuggire semplicemente migrando altrove.

Una delle prime crisi climatiche portò all’invasione della Mesopotamia nel 2334 A.C., quando gli Accadi invasero le terre dei Sumeri. Dalle tavolette che parlano di quei lontani avvenimenti, pare che vi furono due   due secoli di siccità che disseccò le terre appena conquistate, portando all’abbandono di decine di insediamenti. Già allora i “profughi climatici” furono tanto numerosi da indurre la città di Ur a costruire un muro di 180 chilometri per tenerli fuori, prima di collassare a sua volta.  Gli antichi romani rimediavano alle carestie create da eventi climatici spostando il cibo da una provincia all’altra, grazie alla loro estesa rete di strade e porti: una strategia simile a quella attuale.  Ma quando, a partire dal III secolo, il clima diventò più freddo e secco, il Nord Africa, uno dei granai dell’Impero, si inaridì. Il venir meno del grano africano fu un grave fattore di instabilità per l’impero.

Forse il colpo di grazia arrivò quando dal 350 una siccità che durò parecchi decenni colpì le steppe euroasiatiche, facendo muovere bellicose popolazioni locali, come gli Unni, verso ovest. Il loro arrivo in Europa spinse le popolazioni germaniche a fuggire in più ondate nell’Impero romano d’Occidente, finendo per cancellarlo.

Ma quando parliamo collasso di una civiltà, non dobbiamo penare ad un fenomeno veloce e cruento, molte volte consisteva anche nel progressivo spopolarsi delle città, con le famiglie che si disperdono in piccoli centri agricoli dove è più facile trovare cibo, come accadde alla civiltà Maya classica, insediata nel centro dello Yucatan nei primi secoli dell’era corrente, quando piogge abbondanti e regolari resero quell’area molto produttiva. I re-sacerdoti, con i loro cruenti sacrifici, garantivano il favore degli dei, ma quando nel IX secolo le piogge si diradarono per decenni, forse anche a causa dell’eccessiva deforestazione, la fiducia nell’élite venne meno e i loro sudditi si spostarono in aree meno aride del Centro America. Le splendide città dello Yucatan finirono coperte dalla foresta.

Altre civiltà sono cadute per il problema opposto come la civiltà Khmer, in Cambogia, dove nella valle del fiume Mekong le piogge sono concentrate nella stagione dei monsoni, e provocano frequenti inondazioni. Così i re Khmer costruirono la città-tempio di Angkor al centro di una serie di imponenti lavori idraulici, con canali e bacini per regolare le acque. Per sfamare la popolazione che aumentava, la rete idraulica divenne sempre più complessa e difficile da mantenere. Alla fine del XIV secolo i monsoni divennero molto irregolari, alternando anni di siccità ad anni di diluvi, e divenne impossibile tenere in funzione le opere idrauliche. L’area coltivabile diminuì e con essa la popolazione, finché Angkor venne sommersa dalla giungla.

Certi popoli, come nel periodo degli Incas, si coalizzarono per costruire opere idrauliche, solidarietà tra le comunità e scorte di cibo per fare fronte comune al clima impazzito come le civiltà del Sud America, sulla costa settentrionale del Perù, dove si verificò per millenni una lotta fra l’uomo e El Niño, il ciclico riscaldamento delle acque costiere del Pacifico orientale, con il problema che ogni pochi anni El Niño, provoca  piogge torrenziali e la poco pescosità delle coste, mentre il suo opposto la Niña ferma le piogge e porta i banchi di pesci vicino alla costa.

Nell’era moderna, si hanno notizie di condizioni eccezionali di siccità dal novembre 1539 al successivo aprile del 1540. Le cronache del tempo indicano la mancanza assoluta di precipitazioni piovose e nevose. I fiumi del nord Italia seccarono, così come i pozzi. Nella pianura Padana i danni ai raccolti fecero innescare l’impennata dei prezzi del grano, con conseguente effetto di carestia.

Nel 1616, l’eccezionale siccità iniziò nell’Europa orientale a meno di quindici anni dalla epidemia di peste che la avrebbe seguita. Si estese poi a occidente includendo l’Italia e perdurando dalla primavera fino alla fine dell’estate, con temperature medie molto elevate.

Nel 1741, la siccità si verificò a partire dalla primavera, proseguendo per tutta l’estate. L’inverno precedente era stato lunghissimo e freddo. Al termine del periodo vi furono precipitazioni temporalesche violente, che aggiunsero danni, come quella di metà agosto sulla città di Torino che portò chicchi di grandine di quasi 10 cm di diametro che infransero la maggior parte dei vetri e dei lucernari dei palazzi.

Ma dei popoli furono favoriti dal clima impazzito, come quando nella piccola età glaciale che colpì l’Europa fra XV e XIX secolo, causata forse da un calo nell’attività solare, portò piogge torrenziali, tempeste estreme, gelo e carestie.  Un disastro per tutti, ma non per gli olandesi del XVII secolo, che capirono come trarne profitto: smisero di coltivare il delicato grano, passando al foraggio per i bovini e basando così la loro dieta su latte e carne, mentre i cereali li acquistavano dove i raccolti erano stati buoni, per stoccarli e rivenderli poi nelle aree colpite dalle carestie. Con i capitali accumulati armarono flotte mercantili dirette in tutto il mondo, aiutate anche dai venti atlantici rafforzati dal cambiamento climatico, iniziando l’era del colonialismo europeo.

In quel periodo avvenne anche un altro evento climatico che contribuì a cambiare il mondo: l’eruzione del vulcano islandese Laki del 1783-’84. Scagliò in aria così tanta polvere da rovinare con gelo e siccità un paio di raccolti in Europa: questo aumentò il già grande malcontento dei contadini e dei borghesi francesi, spingendoli verso la Rivoluzione e poi un altro vulcano con le sue polveri portò le piogge torrenziali del 1814 che furono una delle cause della sconfitta di Napoleone a Waterloo.

Proseguendo sulla storia delle siccità nel 1893 avvenne un periodo che le precipitazioni furono rarissime, se non in molti casi nulle. Ancora oggi, in termini di precipitazioni, è considerata l’annata più arida.

Nel 1921 dopo la Prima Guerra Mondiale è uno dei peggiori anni, per quanto riguarda la siccità. Concentrata nell’Europa nord-occidentale arrivò comunque a coinvolgere l’Italia e il mediterraneo. Il livello delle precipitazioni crollò del 40%, fenomeno che nella penisola si protrasse fino all’inizio dell’anno 1922.

Nel 1945, l’Europa straziata da cinque anni di guerra, l’estate di quell’anno cruciale fu nelle rilevazioni ancora peggiore di quella che si registrerà nel 2003. La terra si inaridì dai giorni della liberazione dal nazifascismo sino all’agosto inoltrato.

Nel 1954, la siccità colpì in prevalenza il Meridione d’Italia. Niente piogge a Sud per oltre 5 mesi. Nel 1959 le regioni più colpite dalla siccità in Italia furono quelle settentrionali, in particolare Veneto, Lombardia, Piemonte e Liguria, Sardegna inclusa. Per oltre 100 giorni non vi furono precipitazioni. Nel 1962, fu l’anno record per l’assenza di pioggia in Sicilia, già colpita da una cronica carenza idrica. Dal cielo non cadde nulla per circa 200 giorni. La siccità colpì per 3 mesi anche le altre regioni italiane.

Nel 1976, ricordo bene un caldissimo inizio mese di giugno, quando l’anticiclone investì l’Europa, colpendo in particolar modo la Francia. Il caldo fu eccezionale, con temperature vicine ai +40°C. La seconda parte dell’estate fu caratterizzata da violentissimi fenomeni temporaleschi che crearono notevoli danni specie sulle regioni adriatiche. Nel 1980-81 fu un anno senza neve sui rilievi per tutto l’inverno. In pianura, tra novembre e marzo vi furono più di 100 giorni senza pioggia. Nel 1994-95, l’anno si presentò privo di precipitazioni dopo che il precedente si era concluso con il disastroso alluvione del Piemonte.

Nel 2003 le premesse della siccità e del caldo eccezionale di quell’estate ricordavano la situazione del 1976. Per settimane le medie furono in Italia superiori ai 40°C, e le morti registrate durante la stagione furono 4.000 in più della media. La durata del fenomeno fi particolarmente estesa, da maggio a fine agosto.

Nel 2011, la siccità giocò d’anticipo rispetto alla norma, presentandosi già nel mese di aprile. Il giorno 9 le medie avevano superato di oltre 10 gradi i valori del periodo. Il fenomeno della siccità colpì in particolar modo le regioni settentrionali. Nel 2015 fu una siccità invernale, concentrata tra novembre e dicembre, con impoverimento delle nevi sulle Alpi e crescita vertiginosa dei tassi di inquinamento nei grandi centri urbani.

Come si vede si potrebbe scrivere pagine e pagine sugli episodi della storia umana, che raccontano di periodi o annate particolarmente siccitose, con fiumi ridotti a rigagnoli e laghi quasi prosciugati. Tutte situazioni che nel tempo si sono risanate, e che poi, ciclicamente, sono tornate ad essere critiche.

Sono ottimista che ne usciremo anche questa volta, e i nostri fiumi torneranno come sempre a scorrere e registrare piene. Se iniziamo ad usare fonti energetiche sempre meno inquinanti per non accelerare i periodi di siccità, e anche po’ di buon senso, perché se nei secoli scorsi l’acqua era considerata un bene prezioso, oggi con i nostri sprechi spesso ce ne dimentichiamo.

Favria, 25.06.2022 Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita quotidiana nessun atto di gentilezza per piccolo che sia non è mai sprecato. Felice sabato

Il mito delle quattro stagioni

All’inizio dei tempi, quando le divinità camminavano tra gli uomini per osservare, studiare e mescolarsi tra loro viveva in Grecia una giovane ragazza bellissima. Si narrava e narra che ella fosse: candida e pura come una rosa, vivace come un papavero, audace, forte e determinata come una ginestra e che avesse uno spirito libero con la forza di contrastare tutto e tutti. Il suo nome era Persefone figlia di Demetra, una dea che governava il clima e le forze della natura, grazie alla quale i raccolti potevano venire alla luce, importantissimo per l’umanità. Persefone l’ammirava così tanto, da immaginarsi un futuro identico a quello di sua madre. Un giorno sua madre Demetra  si era invaghita di un umano, Demetrios, un contadino che portava ogni giorno doni al suo tempio per ottenere un buon raccolto. Demetrios  sposò Akylina, la fioraia di cui da moltissimo tempo era innamorato.   Demetra prese a malvolere gli esseri umani e si rifiutò di lavorare. Piena di odio e di rancore verso gli umani, mise ben in chiaro ciò che pensava, cioè che non erano al mondo altro che per sfruttarla. Persefone tentò di porre rimedio e disse a sua madre: “So bene che siete afflitta, ma non dovete permettere ai vostri sentimenti di interferire con il compito che il sommo Zeus vi ha affidato. Gli uomini, le donne, persino i vecchi saggi e i bambini innocenti moriranno senza il vostro aiuto!”  Ma niente e nessuno le poteva far cambiare idea, tanto che si ritirò sull’Olimpo. Intanto la terra si sgretolava con il Sole cocente, le èpiante si seccavano e le persone e gli animali iniziarono a  morire per fame e per sete. Dall’alto del Olimpo Persefonone assisteva a tutto questo,  e osservando gli umani, tra i tanti vide Demetrios, che con un sorriso stava cedendo la sua razione di cibo alla moglie, pregando tutti gli dei affinché le risparmiassero e questa provata dalla fame e dalla sete tra le lacrime abbracciarlo. Persefone si commesse alla fedeltà e amore, commossero Persefone, che corse sull’Olimpo per convincere la madre a tornare mostrando che nonostante le atrocità che potevano commettere, anche nel più buio dei momenti e nel più oscuro dei cuori, gli umani erano dotati di un sentimento che gli dei ancora non avevano appreso: “L’amore.” Non potevano capire il reale significato del sentimento se mai lo avevano provato. All’arrivo di Persefone a a quanto gli disse Demetra rise amaramente e con uno sgardo pieno di rancore disse: “Amore? Tu, figlia mia, credi veramente che il mortale che mi ha ingannata, preferirebbe dare la sua vita pur di salvare la sua donna? In nome di ciò che tu chiami Amore!” Persefone: “Io non ho notato alcuna menzogna o esitazione nelle sue parole e nei suoi occhi.” Nell’Olimpo tutte quante le divinità tacquero, in attesa che Demetra desse udienza al contadino per provare che l’Amore non esisteva. Persefone confidava nella forza dell’Amore, poiché, sebbene era consapevole di non poterlo provare, sperava fermamente di poterlo almeno ammirare. Demetrios fu convocato dagli dei e Demetra  reasasi conto che  ciò che la figlia aveva raccontato era vero,  uccise il mortale con le sue stesse mani, finendo nell’abisso dell’odio e ritirandosi subito dopo, furente. Persefone a tale scena decise che sarebbe stata lei stessa a sostituire la madre ma, ogni giorno i sensi di colpa la consumavano. Vedere ogni giorno Akylina recarsi in quello che in passato era stato il tempio di Demetra e che ora fungeva da tomba, per piangere il suo amato e per donargli i fiori più belli che aveva colto, di certo non aiutava. Un giorno, mentre Persefone piangeva ai piedi di un melograno, un uomo di rara bellezza apparve davanti a lei: alto, lunghi capelli color del grano maturo e dal viso dolce, ma triste, occhi neri e profondi come la notte. Affascinante, ma con un che di strano. “Siete dunque voi, la nuova Dea?” domandò lui, con voce profonda. E dopo un cenno positivo, riprese: “Il mio nome è Ade, signore degli Inferi e fratello maggiore del sommo Zeus. Solitamente non mi reco mai in superficie e non faccio nemmeno visita ai miei fratelli e sorelle lassù, sull’Olimpo. Odio la loro compagnia chiassosa ed irritante.”Persefone chiese spavalda: “E per quale ragione onorate il mondo della vostra presenza oggi, oh sommo Ade?”. Riprese Ade in tono serio: “Sono venuto fin qui per riferirvi che siete fastidiosa. Ogni giorno piangete insieme ad una donna per la morte di un mortale. Era forse il vostro amante?”. Persefonte piangendo: “No. Io… sono la causa della sua morte.” “Ah.” emise Ade, apparentemente scioccato. Il dio dei morti la osservava e lei ricambiava il suo sguardo con fierezza. “Che dea piagnucolona.” disse infine. Si voltò “Ho proprio sprecato il mio tempo giungendo qui. Non mancherò di fare presente al mio caro fratello quanto incompetente voi siate. Tuttavia. Poiché mal sopporto udire il suono della vostra voce, restituirò ad Akylina il suo amato. Anche perchè non era destinato a quella morte… ed io detesto quando nel mio regno le regole del Fato non vengono rispettate.” E svanì senza senza farla parlare. Persefone si precipitò nella casa di Akylina, vide Demetrios riabbracciare la sua sposa. Ade gli aveva ridato vita veramente,  ma per quale ragione? Persefone pìù ci pensava, meno ne comprendeva il motivo e maggiormente si faceva strada in lei una certezza. Il dio dei morti era certamente orgoglioso e presuntuoso, ma anche molto solo, lei lo aveva percepito fin dal primo istante. Ed era gentile, per quanto potesse sorprendere. Persefone per sdebitarsi di tanta cortesia colse i fiori più belli e colorati e ne fece un bel mazzetto, che infine legò con uno dei nastri rossi che lei utilizzava per acconciarsi la folta chioma bruna. Persefone quando però giunse all’ingresso dell’Aldilà, si trovò la strada sbarrata dal suo instancabile guardiano. “Chi osa entrare nel regno dell’Oltretomba, quando la sua anima è ancora legata al corpo?” domandò un’enorme bestia famelica. E ruggendo disse:“Insolente ragazzina, imparerai a tue spese a controllare la tua arroganza!”. Il mostro stava per azzannarla, quando una potente voce lo bloccò come un invisibile guinzaglio. “Cerbero, placati!” La bestia non si mosse. Persefone, nel frattempo, osservò il suo salvatore. Ade, con passo aggraziato ma deciso, le si avvicinò. “Che siete venuta a fare quaggiù? Volevate forse molestare il mio fidato custode?” le sue parole furono accompagnate da una carezza sull’enorme zampa dell’animale. Ma Persefone porse il suo dono. Il dio strabuzzò gli occhi e posò il suo sguardo svariate volte prima sui fiori e poi sul viso della giovane. Poiché non si mosse, Persefone parlò. “Sono giacinti, i miei fiori preferiti, mentre al centro del bouquet ho messo delle campanule. A detta degli umani, simboleggiano la gratitudine.” l’ultima parola fu quasi un sussurro. Lei divenne tutta rossa e lui posò le mani sulle sue e dopo qualche istante le ritrasse, afferrando saldamente i fiori. “Accetto con piacere il vostro dolce pensiero.” Persefone assisté allora ad un evento incredibile e totalmente inaspettato. Il dio dei morti le stava sorridendo. Con spontaneità. E lei ricambiò quell’espressione di gioia. Poi Persefone soggiunse: “Sommo Ade. Ora perdonatemi, ma devo tornare alle mie mansioni.” Si era già allontanata di qualche passo, quando la divinità la fermò con voce incerta. “Aspettate! Voi… questi fiori….Spero che non daranno noie come la persona che li ha colti.” E svanì nell’Oltretomba e Persefone si mise a ridere. Nei giorni seguenti, il dio dei morti si recò ogni dì sulla terra, per farle visita… Ed ogni volta, egli inventava una scusa diversa. La bella Persefone ormai capiva la sua maschera per celare il suo profondo imbarazzo, e perciò non replicava mai…Si limitava a scusarsi distrattamente per la sua presunta mancanza nei riguardi del dio, e poi lo invitava a sedersi con lei, mentre faceva nascere nuovi germogli o riportava alla vita alberi vecchi e malati. Quando lui si doveva congedare, Persefone gli regalava sempre un giacinto del suo colore prediletto, il bianco. I due si intrattennero via via sempre di più e una volta fino all’apparir delle stelle. Ma un giorno, Ade non si presentò come suo solito e Persefone non se ne curò troppo inizialmente, intenta com’era a svolgere al meglio i suoi doveri, ma quando l’ora si fece tarda, iniziò a temere per il suo amico.Che cosa era successo? A forza di logorarsi al pensiero un dubbio iniziò a insinuarsi in lei… La dea considerava Ade come un amico, eppure era possibile che fosse solo questo? Decise di avviarsi a cercarlo e  non notò la carrozza nera che si stava celermente avvicinando. Se ne rese conto solo quando fu troppo tardi. Lo sportello s’aprì e una mano la prese per la vita e la caricò a forza al suo interno. La carrozza sparì subito dopo attraverso uno squarcio nella montagna dalla quale era apparsa. Solo il mazzolino di fiori di Persefone era rimasto a terra abbandonato, come unica prova di quanto appena accaduto. Persefone era stata sì obbligata a salire su quella tetra carrozza, ma la mano che l’aveva afferrata apparteneva ad Ade. Quando giunsero negli Inferi, il dio spiegò il motivo del suo strano comportamento. “Il minimo che potessi fare per avervi scocciato tutto il dì ieri, era quello di ospitarvi nella mia dimora stanotte.” disse, camminando nervosamente da una parte all’altra della sua stanza. Persefone l’osservò divertita. Di nuovo avvertì una strana sensazione. Decise però di non farci caso. “E per fare ciò, non potevate invitarmi, prima di rapirmi?” chiese ironica la dea. “Io non vi ho rapito! Vi ho semplicemente obbligata ad accettare il mio invito,  non potevo rischiare che voi rifiutaste.” mormorò Ade. “Ebbene, perchè non me lo domandate ora?” Il signore dell’Aldilà osservò stupito la fanciulla, ma subito l’accontentò. “Mi fareste l’onore della vostra compagnia, stanotte?” “Accetto con immenso piacere.” fu la sincera risposta della fanciulla. Venne servita una lauta cena, ma prima che si potesse iniziare a consumarla… “Aspettate, non potete farlo! Non ancora… non prima che vi abbia parlato di un fatto di vitale importanza, per me.” La dea rimase in attesa di udire la voce del dio che, ormai ne era certa, le aveva rubato il cuore. “Non dovete nemmeno sfiorare il cibo proveniente dall’Oltretomba, perchè se ne mangerete, anche solo un boccone, non potreste mai più abbandonare codesto luogo infausto, tetro ed infelice… Eppure, desidero con tutto il cuore che voi mangiate qualcosa, fosse anche solo un misero chicco d’uva, voglio che lo addentiate. Perchè così facendo, sareste legata a questo luogo… a me, in eterno. Ma io m’illudo. Come potreste mai voi, che rappresentate la vita stessa, innamorarvi della Morte? Voi appartenete al Sole, al mondo variopinto e gioioso che sta sopra di noi, non certo a questo infausto loco. Mio fratello  Zeus aveva ragione, non sarei mai dovuto venire in superficie…”. “Cosa vi disse il sommo Zeus?” Le parole della fanciulla, per quanto soavi e leggiadre come il tiepido vento primaverile, scossero l’animo del dio come una tormenta, facendogli rievocare ricordi infelici. “Ricordate il giorno in cui ci incontrammo per la prima volta? In verità, quel dì, che mai dimenticherò, non ero giunto sulla terra per le ragioni che voi credete. Io vi conoscevo già. Oh sì, vi conoscevo e vi ammiravo da lontano da tanto tempo. Eppure, benché abbia il pieno controllo sui morti, non trovavo mai il coraggio per parlarvi, per raggiungere in qualche modo il vostro cuore. Non ero nemmeno in grado di sorridervi, di regalarvi un gesto che potesse farvi intendere il mio amore. Così, a causa della mia codardia, mi limitai a guardarvi da quaggiù e, ogni volta che ridevate, il mio cuore provava un sussulto. Ma per quanto tentassi, sapevo di non potermi avvicinare a voi, e come potevo? Quando quel giorno vi vidi così triste e afflitta, per l’ennesima volta, a causa di quel mortale, qualcosa in me si ruppe. Capii che dovevo fare qualcosa, che dovevo aiutarvi, poco importava se voi in seguito non mi avreste più degnato di uno sguardo. E quando, finalmente, mi decisi e mi presentai al vostro cospetto, tutte le mie sciocche paure svanirono. Non mi sarebbe più importato di finire nuovamente nell’ombra, ora che avevo assaporato la dolcezza della luce. Ma voi, oh voi mi avete stupito! Siete tornata da me, con un mazzo di fiori! Da allora mi illusi che forse anche voi avreste potuto provare lo stesso amore che io nutrivo nei vostri confronti. Per tale motivo venivo ogni giorno da voi. Inizialmente, lo ammetto, nel vano tentativo di conquistare il vostro indomito cuore libero, ma poi non più. Non più per un sì futile motivo! Venni da voi per godere della vostra allegria, della vostra gioia di vivere e del vostro sorriso, che era in grado di rendere me, Ade signore indiscusso della Morte, indifeso e spaesato come un bambino. Ma Zeus, il mio potente fratello, mal sopportò questo mio atteggiamento. Proprio ieri, dopo il nostro lungo incontro, mi obbligò a presentarmi dinnanzi a lui e lì, al cospetto tutti gli dei, mi accusò di incoscienza ed insubordinazione. Secondo lui, io non solo stavo mancando ai miei doveri di dio della Morte, ma stavo anche tentando di deviare voi dal vostro compito. E poi… mi ordinò di non tornare mai più sulla terra, e mi proibì di incontrarvi ancora.” A quelle parole Persefone impallidì. “Per questo vi ho rapita. Ora che l’ho fatto, mi sento felice. So bene che voi non accettereste mai di diventare la mia compagna, tuttavia sentivo prepotente in me la necessità di dirvelo. Adesso, siete libera di andare.” Rivelare in modo così aperto i propri sentimenti non era cosa facile per una divinità solitaria come lui. Persefone osservò attentamente il cibo che si stagliava dinnanzi a lei. C’erano proprio tutti i suoi frutti favoriti, dal melograno all’uva, dal pistacchio alle ciliege. Gli occhi azzurri della dea si posarono poi sull’ambiente circostante. Sebbene tetra e apparentemente inospitale, la stanza di Ade era ricolma di tutti i fiori che lei gli aveva donato in passato. In un bel vaso di fiori, poi, posto proprio al centro della stanza, vi si trovava il bouquet di giacinti e campanule che lei aveva confezionato la prima volta che si era incontrata col bel dio. Infine, le sue iridi si posarono su Ade, e legato al suo polso destro vi era il nastro rosso per capelli che la ragazza aveva utilizzato per legare il mazzo di giacinti e campanule. “Mio caro amico. Conosco bene le leggi che governano questo regno e non le temo. Luogo infausto, dite voi? Tetro? Infelice, l’avete definito? Eppure io non vedo altro che fiori, centinaia, migliaia e forse anche più dei miei amati giacinti bianchi come neve. E poi… ci siete voi.” A quel punto, la dea giocherellò con una ciocca di quei capelli che le ricordavano in modo impressionante il suo amato Sole. “Sapete, inizialmente mal sopportavo la vostra presenza. Vi credevo freddo e distaccato, altezzoso ed arrogante, incapace di provare sentimenti e di riscaldare gli altrui cuori. Ma adesso…” “Adesso?” domandò speranzoso e preoccupato al tempo stesso Ade. “Adesso mi rendo ben conto che quelle sono per davvero le vostre doti principali. Tuttavia, sono conscia del fatto che non esiste al mondo luce più vitale per me, di quella che sapete donarmi voi con la vostra sola presenza.” Detto ciò, Persefone afferrò un frutto di melograno, proveniente dalla stessa pianta che tempo addietro li aveva fatti incontrare, e ne osservò rapita il colore. “Io non temo la Morte e neppure l’ira di Zeus. Ciò che più temevo…” “Cosa temete, mia signora?” chiese Ade. “Ciò che temevo, e che ora non temo più, era di non provare mai in vita mia l’ebrezza dell’Amore. Ma adesso, è ben altro ciò che mi spaventa…Io ho paura di svegliarmi domani e di non rivedere mai più il vostro dolce sorriso. Temo, molto più che la Morte, di non poter più udire la vostra voce canzonatoria che mi deride per la mia leggerezza. Tremo al solo pensiero, di venire separata dall’Amore che ho tanto a lungo cercato e che ora si trova dinnanzi a me.” A quel punto, senza più alcuna esitazione, Persefone addentò sei semi di melograno. Ade era rimasto incantato dalle sue parole e dal suo gesto, ed i suoi occhi, per la prima volta da quando esisteva, provarono la gioia di versare lacrime di felicità. “A questo punto vi chiedo, mia amata, di parlare ancora una volta, poiché le mie orecchie hanno il disperato bisogno di udirlo dalle vostre dolci labbra: mi amate, dunque?” “Vi amo con tutta la mia anima e con ogni fibra del mio corpo.” rispose decisa lei. “E… desiderate diventare la mia sposa?” Persefone diede la sua risposta, con voce rotta dall’emozione: “Solo ad una condizione…” Quella stessa notte, Persefone si unì in matrimonio con Ade, dio dei morti e signore dell’Oltretomba, e ne divenne la moglie. Divenne il Sole dell’Aldilà, la reincarnazione della Morte dolce e serena.E lo è tutt’ora. Per sei mesi all’anno, ella si allontana dal suo amato per adempiere al suo compito, ovvero, vegliare sulla vita degli uomini e della natura. “Io sono la dea delle messi ed ho un impegno ed un debito nei confronti dei mortali. Senza di loro, infatti, non avrei mai potuto incontrare te, amore mio.” aveva detto quella notte di tanti anni fa. Ed Ade aveva accettato e persino Zeus si era dovuto ricredere, in quanto quella fanciulla si era dimostrata più forte di quanto pensasse e suo fratello maggiore, il temibile dio dei morti, più tenace di quanto credesse. E da allora così fu, per sempre. Quando Persefone è nell’Aldilà con Ade, le foglie cadono e le piante si seccano e muoiono, benché ella sia felice e lieta. Questi mesi noi li chiamiamo Autunno e Inverno. Ma quando la dea torna sulla terra, nonostante il suo cuore pianga e si spezzi, balla e danza allegramente e allora il suo sorriso fa sbocciare i fiori e i nuovi germogli escono dalla terra. Questi sei mesi noi li conosciamo come Primavera e Estate. Perchè non sempre le cose come appaiono, e grazie di averla letta.

Favria, 26.06.2022 Giorgio Cortese

Buona giornata. Che forza gli esseri umani che hanno il coraggio di essere umani. Felice domenica

Buona giornata.

Cerchiamo Persone che Amano la propria Vita pensando spesso a quella degli Altri. Se ancora non sei donatore, pensaci, ma non con la testa, con il cuore. Ti aspettiamo mercoledì 13 Luglio ore 8- 11,20 a Favria, cort.int Comune. Per info e prenotare cell.3331714827

Grazie del Tuo aiuto, anche solo nel diffondere il messaggio

Gli odori e profumi

L’emergere dei ricordi in ognuno di noi è spesso scatenato dai dettagli. Un luogo, un evento, una persona, che alcune volte ci riportano col pensiero indietro, a cose di tanto tempo prima. Il collegamento non è sempre chiaro e lineare, in realtà spesso è un dettaglio di quel luogo, quell’evento, quella persona ad aver acceso la nostra memoria. Fra i dettagli scatenanti, gli odori, i profumi, del cibo, dei luoghi, delle persone, hanno una particolare forza evocativa. La memoria olfattiva penso che rappresenta proprio la capacità di rievocare con estrema nitidezza un’esperienza passata. Personalmente quando entro in una panetteria e sento il profumo del pane o meglio in una pasticceria le torte appena sfornate, il animo si illumina subito di buon umore e questi odori mi riportano a ricordi piacevoli della mia infanzia. Al contrario, sentire un odore poco gradevole mi provoca una sensazione di disgusto e magari mi richiama alla mente episodi spiacevoli associati a quell’odore. E si sono le mie narici a volte ad influenzare il mio stato emotivo e, viceversa, queste sono  a loro volta influenzate dalla percezione degli odori.  Allo stesso modo, quando compiamo delle scelte, può essere che sia il nostro naso ad aiutarci a distinguere una scelta immorale da una giusta. I processi mentali che ci portano a prendere delle decisioni sono infatti il risultato di un ingarbugliato intreccio di ragionamenti logici e passate esperienze  che si influenzano a vicenda.

Il ricordo di un evento del passato, che emerge dopo aver sentito un determinato odore, è il cosiddetto fenomeno chiamato “sindrome di Proust”, dal nome dello scrittore che per primo descrisse tale evento. Secondo questa sindrome, gli odori sono in grado di richiamare alla memoria episodi autobiografici in modo incredibilmente vivido grazie all’attivazione della memoria episodica. Il naso  è un po’ il centro del nostro mondo sensoriale e al suo senso collegato, l’olfatto, sono state dedicate molte opere letterarie, e quelle tendono a rimanere in memoria più facilmente perché è indubbio che pensare a una poesia o a un libro dedicato agli odori faccia colpo. Anche nel linguaggio di tutti i giorni usiamo frasi e citazioni legate a questo senso che stiamo scoprendo in tutte le sue sfaccettature. Molti di questi modi di dire le utilizziamo  quotidianamente con leggerezza senza pensare troppo alla loro origine e al loro significato più profondo. Pensate che il modo di dire: “Andare in giro con il naso per aria”, letteralmente significa ciò che leggiamo, ovvero camminare senza guardare a terra. In senso traslato, si pensa alle conseguenze di questo gesto, quindi incidenti dovuti alla distrazione. Pare che questo detto tragga origine da un episodio realmente accaduto a Talete, che passeggiando di notte osservando le stelle mise un piede in fallo e cadde in un fosso. Soccorso da un contadino, gli spiegò che si trovava lì perché era troppo impegnato ad ammirare la volta celeste che a badare a dove mettere i piedi, e da contro la saggezza spicciola del contadino gli consigliò di fare le cose al contrario, per il bene della sua salute. Beh mi raccomando non “Arricciate il naso”, manifestare repulsione o disapprovazione nei confronti di qualcosa o di qualcuno che non ci va a genio. L’origine è chiara, deriva proprio dal gesto fisico che compiamo con il viso, gesto che solitamente compiamo quando sentiamo un odore poco gradevole, e da lì il senso lato dell’espressione. Questo è un “caso” eloquente di come sia il nostro olfatto, prima di tutto il resto, a darci un reazione ad una situazione che stiamo vivendo, sia a livello fisico, arricciando il naso entrando in un luogo che ha un cattivo odore ci mette già in guardia, sia livello metaforico, quando quel gesto, anche se non compiuto fisicamente, ci scatta nella testa per metterci in allarme magari in una situazione che subito, d’istinto, ci convince poco. Molte volte il nostro personale  giudizio morale può influenzare il nostro corpo nel percepire la sensazione di sgradevolezza degli odori e see ci viene chiesto di fare delle scelte che calpestano la nostra morale,  dei semplici odori spiacevoli ci sembreranno delle vere e proprie puzze, inmsomma proviamo del disgusto!  Sicuramente  evitiamo di “Farla sotto al naso”, ilcompiere un’azione ai danni di qualcuno senza che l’interessato se ne accorga. Il raggiro avviene in modo furbo e astuto, come se venisse compiuto sotto agli occhi, e quindi al naso, del raggirato affinché questi non se ne renda conto. In questo detto c’è l’unione di due sensi potentissimi di cui ci si prende gioco, eludendoli entrambi con destrezza e magari con modi nemmeno troppo onesti. Non è solo la vista che non dà il suo apporto, ma anche il naso non ci mette in allarme riguardo al raggiro, al torto, o alla presa in giro che stiamo subendo. È difficile “farla sotto al naso” perché il naso in casi normali, ci avvisa su ciò che succede! Per questo evitiamo di “Non ricordare dal naso alla bocca”, ovveroessere totalmente privi di memoria, dimenticndoci le cose velocemente e per distrazione. Evitiamo ogni giorno di andare “A lume di naso”, facendo le cose senza dati precisi, con approssimazione e intuito, qui rappresentato dal fiuto. Perché cosi rischiamo di “Soffiare il naso alle galline”  fare una cosa senza senso o intestardirci nel compiere azioni e imprese impossibili. Pensarsi geniali ed invece solo includenti come questa mia chiacchiarata. Concludo con un modo di dire di origine piemontese: “Bagnare il naso” significa battere qualcuno, sconfiggerlo, surclassarlo. Questo modo di dire risale quando una volta in Piemonte i  maestri del tempo avevano l’abitudine di punire, o umiliare, oserei dire, gli alunni che commettevano qualche grave errore costringendo uno dei loro compagni a inumidirsi il dito con la saliva e bagnare il naso del compagno da “educare”, così da metterlo in ridicolo di fronte all’intera classe. Il naso o meglio la  memoria olfattiva contiene così tante informazioni per così tanto tempo da sorprendermi a volte con dei ricordi che a livello consapevole avevo  messo  in un magazzino della mente e, e che invece tornano a galla semplicemente richiamati da un odore.

Favria, 27.06.2022 Giorgio Cortese

Buona giornata. La stupidità di certe persone deriva dall’avere una risposta per ogni cosa. Invece le persone sagge hanno sempre una domanda per ogni cosa.

Felice lunedì.