XXV Aprile, ricordiamo i primi martiri resistenti!. – Umile e graziosa pratolina.- Da Priacco in Russia per costruire strade, ricordi di famiglia – Kaliningrad, un territorio russo che però non si trova in Russia. – La parola allibito, esterrefatto, senza livore.- Il punteggio del tennis…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

XXV Aprile, ricordiamo i primi martiri resistenti!
Oggi parliamo di Liberazione, di XXV Aprile e del contributo di sangue, di

vite e di privazioni sofferte dalla nostra amata Patria sotto i tre anni di repressione nazifascista. Parlare della festa della liberazione solo dal 1943 al  XXV aprile del 1945 sarebbe riduttivo, bisogna fare memoria perché questo virus totalitario ed inumano non risorga mai più.

Dai media leggiamo e sentiamo dei rigurgiti xenofobi contro ebrei, i profughi, i diversi e contro chi non la pensa, nella maniera malata, come loro.

Mi domando se oggi sia possibile comparare la Resistenza europea al nazifascismo con quanto sta avvenendo in Ucraina?

Con tutte le cautele e i distinguo del caso penso si possa rispondere in modo affermativo.

Il prepotente ritorno delle armi, la forma distruttrice di un’aggressione violenta in una strategia di conquista di territorio sollecitano paragoni con altre pagine della storia europea. Il passato non offre lezioni, ma il suo lascito non si cancella, non scompare dentro le logiche della distruzione totale.

Persino le parole possono divenire oggetto di una contesa, come “prove” da mostrare con tracotanza, pietre per la dialettica di oggi e per una, speriamo, prossima ricostruzione domani.

Insomma il significato della resistenza ucraina va al di là della linea di demarcazione tra aggrediti e aggressore.

E’ importante ricordare a tutti noi che già all’affermarsi del fascismo, c’erano italiani che non la pensavano come i fascisti ed alzavano la testa. Il 18 Dicembre del 1922 inizia quella che viene ricordata come ‘La strage di Torino’: nelle giornate tra il 18 ed il 20 dicembre, le squadre fasciste aggrediscono diversi militanti delle organizzazioni popolari, uccidendo 11 antifascisti e causando decine di feriti.

Un paio di mesi prima della marcia su Roma, a Torino la violenza squadrista si era manifestata più volte con  particolare ferocia.

Ad essere colpiti nelle tre giornate di Dicembre sono operai, sindacalisti, militanti del partito popolare, socialisti e comunisti con la sola colpa di pensare con la propria testa.

Oggi voglio ricordare, un nostro concittadino, Matteo Tarizzo, a cento anni dalla sua morte,  che a Favria ha una a lui dedicata,  ucciso dai fascisti a Torino all’età di 34 anni, sorpreso nel sonno dall’irruzione dei fascisti, prelevato e ucciso a bastonate poco lontano da casa sua.

Ed oggi in Via Cernaia, una lapide davanti a Porta Susa, in Torino, ricorda il luttuoso evento.

A mio avviso occorrerebbe che questa figura venisse maggiormente valorizzata e conosciuta.

Ricordare oggi la Resistenza non ha solo un valore culturale o celebrativo, ma significa far nostri gli insegnamenti di chi ha combattuto il fascismo con l’obiettivo di costruire una società senza più classi, guerra e sfruttamento.

Oggi, dobbiamo sempre di più rinnovare il legame, anzi, la simbiosi tra italianità, nazione e unità, dobbiamo allora tornare a promuovere i valori e sostenere le aspirazioni che animarono gli uomini che 100 anni fa non piegarono la testa alla dittatura e con il loro esempio contribuirono a mantenere vivo  lo spirito democratico del Paese.

Oggi, dobbiamo recuperare il significato morale del fare politica, ripartendo da un nuovo inizio, sulla strada che porta a costruire quello Stato di cittadini liberi ed uguali desiderato, immaginato ed infine realizzato dai tanti che si impegnarono e si sacrificarono per la Patria.

Oggi,  dobbiamo ricordare tutti i patrioti, da chi prese le armi andando a combattere sulle montagne con una resistenza armata e consapevole a fianco di tanti altri: renitenti alla leva, militari internati dopo l’8 settembre 1943, circoli intellettuali che offrirono ospitalità e aiuto.

Oggi, dobbiamo ricordare le donne impegnate come  staffette a portare, a rischio della loro vita,  messaggi e generi di conforto a chi resisteva con le armi in mano alla feroce dittatura.

Oggi, dobbiamo ricordare tutte quelle persone, semplici cittadini, fra cui anche, contadini, operai, medici e sacerdoti, che fornirono solidarietà ed accoglienza.

Con i loro eroici comportamenti quotidiani  nascosero  famiglie di religione ebraica, i disertori, offrirono cibo, ristoro e cura aprendo cantine e sacrestie.

Infine, oggi dobbiamo ricordare i patrioti che si sacrificarono  per il bene di tutti e per molti di loro il sacrificio fu addirittura la vita stessa.

A tutti loro va oggi il nostro pensiero, carico di ammirazione e riconoscenza.

Quello che contraddistingue il loro sacrificio è la gratuità che ha trascurato le conseguenze personali delle proprie scelte.

Queste scelte sono state ispirate a valori che si ritengono superiori perché ti ci appartengono e a tutti e, devono essere garantiti come diritti.

Basterebbe considerare la grandezza e la nobiltà di questo sacrificio per comprendere il significato fondamentale della Liberazione e affrancare la sua celebrazione dal rischio di ridursi a una circostanza scontata, inespressiva, per alcuni e purtroppo non pochi, persino fastidiosa ed imbarazzante.

Cosa posso dire allora, quali parole debbo usare per far comprendere alle persone della mia generazione e di quelle successive perché è importante celebrare il XXV Aprile?

Perché  questa data sia sempre viva nel presente e ricordarla non è solo un obbligo da assolvere, se non addirittura un pretesto per godere di un giorno di vacanza!

Penso che bastino solo tre parole:

sacrificio, democrazia, libertà.

Nella storia dell’umanità, il sacrificio ha uno straordinario valore di rinnovamento ed ogni volta che si compie ha il significato di una rivoluzione morale, perché all’apparenza è contro ogni ragione.

La Resilienza già del 1922, la Resistenza e la guerra di Liberazione sono state la dimostrazione che uomini e donne possono superare il pessimismo ed il cinismo della ragione che si fa rassegnazione, se si sentono chiamati a battersi per il bene sociale, se partecipano con passione, se credono in una giustizia che regola la convivenza, che garantiscono dignità della persona, uguaglianza e rispetto della libertà.

La Resistenza non è stata un romanzo nè un evento mitico, ma è stata una straordinaria vicenda di vite dedicate con speranza, coraggio ed altruismo all’affermazione di ideali altissimi ed è per questo che non dovrebbe essere difficile raccontarla a chi non vi ha partecipato e fare sentire i giovani parte di quella vicenda.

Non bisogna avere timore di ripetere parole che non possono diventare vuote e retoriche se trovano corrispondenza nei nostri comportamenti di ogni giorno. Perché il loro sacrificio non sia vano, si deve ritornare a vivere la politica come il momento in cui si diventa responsabili delle proprie scelte, non solo nei confronti di se stessi, ma soprattutto nei confronti degli altri.

Abbiamo bisogno di nuove e continue dimostrazioni su ciò che nell’impegno nei partiti e nelle istituzioni viene dato alla politica, non venga sottratto alla morale.

Amministrare  la cosa pubblica con senso pratico non significa farlo senza principi,  non si può chiedere il rispetto delle regole ai cittadini senza prima riconoscere la libera dignità delle persone.

Questa è la sempre attuale  eredità della Resistenza, sfociata poi nella Liberazione e giunta sino a noi con i principi della Costituzione:

rispettare la persona, essere consapevoli dei doveri e dei diritti dei cittadini.

Riconoscere questi principi è la condizione per affermare la preminenza assoluta dei diritti inalienabili dell’uomo e allo stesso tempo costruire una società in cui tutti sono partecipi di una speranza collettiva; speranza di cui, oggi più che mai, per i giovani, per i lavoratori, per chi è in difficoltà, sentiamo fortissimo il bisogno. Il compito della politica è quello di raccogliere questa aspirazione, che ci è stata trasmessa prima dai resilienti martiri del 1922 e poi  dai combattenti per la Libertà e dai padri fondatori della Repubblica.

E oggi, come allora, la politica è chiamata ad interpretare le grandi questioni e ad affrontare i problemi che in ogni epoca si presentano ad ogni società, ancor più nella dimensione globalizzata della difficile attualità che viviamo: come ricercare e realizzare la giustizia sociale; come associare etica, responsabilità e aspirazioni; come mettere in relazione e far dialogare le diverse identità e culture. Sino a giungere a quel traguardo, intravisto con coraggio ed inseguito con doloroso sacrificio da tutti quelli che hanno messo in gioco le loro vite per rendere libere le vite di tutti noi: ricomporre il legame indispensabile, drammaticamente negato nell’esperienza della dittatura fascista, tra la politica e la moralità, tra lo Stato e l’interesse del popolo. Ricordiamoci della loro testimonianza.

Facciamolo con rispetto ed immensa gratitudine. Andiamo allora con il nostro cuore a rendere omaggio ai combattenti per la democrazia. Onore ai martiri della Resistenza!

Loro c’erano e sapevano che la pace non basta invocarla, qualche volta bisogna conquistarla.

Onore al concittadino Matteo Tarizzo morto dopo vile  aggressione  fascista nel 1922.

W la Liberazione, Viva l’Italia libera e unita! Buon XXV Aprile a tutti!

Favria,  25.04.2022   Giorgio Cortese

Buona giornata. La libertà è la base di uno stato democratico. W la Festa della liberazione.

Buona giornata.

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Umile ma graziosa pratolina

Nome scientifico “bellis perennis” della famiglia delle Compositae. Secondo la mitologia romana, la ninfa Belide fu trasformata nel piccolo fiore Bellis, per soddisfare la sua richiesta agli dei di aiutarla a sfuggire alle attenzioni non desiderate di Vertumno, dio dei boschi e delle stagioni, che l’aveva adocchiata ballare con le compagne sul ciglio della foresta. Più facilmente, secondo i filologi moderni, il suo nome deriva dall’aggettivo “bellus”, bello, grazioso, con riferimento alla delicata freschezza di questo fiorellino. Mentre il nome specifico “perennis” fa riferimento al ciclo biologico di questa specie, perenne. Gli inglesi le chiamano “english daisies”, o “margherite inglesi”. Le pratoline, o margheritine o primavere, fanno parte di quel bel mondo che fu, che per anni avevamo infilato nel dimenticatoio e del quale invece siamo oggi sempre più assetati. In fondo l’impiego di alcuni fiorellini di campo, magari sotto forma di varietà coltivate, è qualche volta sufficiente per soddisfare anche i palati più raffinati. Nasce spontanea in tutti i prati e pascoli del Continente, fatta eccezione per le isole Baleari e le Svalbard. Diffusissima in tutte le regioni italiane, questa erbacea perenne, solitamente non più alta di 15 centimetri, possiede un solo capolino, con bottone centrale giallo e petali, in realtà sono fiori ligulati, bianchi, ma spesso soffusi di rosa-rosso. La fioritura dura da marzo all’autunno ma si può far fiorire la pratolina anche in inverno. Alcune varietà presentano capolini grandi semplici. Vengono coltivate oggi varietà a fiore doppio di colore bianco, rosa, cremisi, rosso, carminio e altre tonalità di rosso.  Anche in natura, gli ibridi e le varietà non si contano, tanto da facilitare enormemente il lavoro di chi invece si dedica alla costituzione di cultivar ornamentali. Con le umili ma graziosissime pratoline, è possibile decorare senza tanti fronzoli alcune aree del nostro giardino, utilizzando piante assolutamente rustiche e senza troppe esigenze.

Favria, 26.04.2022   Giorgio Cortese

Buona giornata. La violenza verbale di certe persone è l’ultimo rifugio degli incapaci. Felice martedì.

Da Priacco in Russia per costruire strade, ricordi di famiglia.

Un filo antico mi lega all’Ucraina e alla Russia meridionale ascoltando le notizie di questi giorni sui vari telegiornali e quotidiani.

Le notizie sull’Ucraina e sul Donbass in questi ultimi tempi mi hanno fatto riaffiorare racconti che ascoltavo da bambino, da mia mamma.

Mia mamma mi raccontava quando, da piccola, usava per giocare dei grandi bigliettoni, i rubli dello Zar in corso prima della rivoluzione bolscevica del 1917.

Si perché i suoi nonni materni, i miei bisnonni erano stati in Russia, all’inizio del Novecento, per lavoro, anche con il futuro genero, mio nonno Carlo che era stato lì fino all’età di 16 anni e lì aveva imparato giovanissimo a guidare i vecchi camion Fiat che servivano per i lavori stradali.

Da Priacco, allora Comune, oggi frazione di Cuorgnè, i miei bisnonni materni Giovanni Reano e la moglie Antonia Revello, le sorelle Marietta Reano con il marito Michele Castelli, il fratello minore del bisnonno Giuseppe Reano con la moglie Giuseppina Mathieux si erano spinti fino a quelle terre in quanto Giuseppe Reano aveva preso in appalto dei tratti di strada e di ferrovia da costruire.

Parlo di quei luoghi dove proprio adesso c’è alta la tensione di una guerra tra Ucraina e Russia, il bacino minerario del Donbass.

Questi toponimi mi suonano famigliari anche se sono luoghi dove non sono mai stato. In questi luoghi sono nati  alcuni loro figli.

Nel 1901 a Taganrog, Russia nacque Giacomo, zio di mia mamma, nel 1903 Iole, figlia del prozio Giuseppe, a Mariupol, città portuale sul mare d’Azov del Donbass fondata sul sito di un vecchio villaggio cosacco Kalmius, chiamata per un periodo dai sovietici Zdanov in onore di un funzionario sovietico, dato che le autorità sovietiche spesso rinominavano le città in onore di leader comunisti.

A Juzovka, costruita come villaggio da cosacchi zaporoghi, deve questo nome di un gallese che fece costruire una acciaieria e scavare alcune miniere di carbone per sfruttare la ricchezza mineraria del Donbass, dal nome Hughes, russificato venne fuori il toponimo.  Poi divenne Stalino nel perido bolscevico e oggi Donetsk, nel Donbass,  qui nacque il cugino di mia nonna materna  Josef Castelli.

Il toponimo Donbass nasce verso la fine del XIX secolo, quando in tale area furono scoperti numerosi giacimenti di carbone e fu coniato questo termine, derivante dal nome del fiume Donec che vi scorre attraverso, per indicare questa nuova regione carbonifera nella sua interezza.

Riprendendo le vicissitudini  dei Reano, del ramo materno, questi si spinsero, poi fino in Georgia, nel Caucaso, a Tiflis, odierna Tiblisi e a Sarikamis.

Il nome Tbilisi deriva dall’antico georgiano T′bilisi, e successivamente da Tpili, a sua volta dall’antico georgiano.  Il nome T′bili o T′bilisi, letteralmente, “luogo caldo”, fu quindi dato alla città a causa delle numerose sorgenti termali sulfuree della zona. Fino al 1936, il nome della città in italiano e nella maggior parte delle altre lingue era Tiflis, mentre il nome georgiano era Tpilisi.

In quel tempo l’impero russo nel Caucaso verso il confine con l’impero ottomamo ave in corso la costruzione di una linea ferroviaria per Kars che includeva un terminale a Sarıkamıs e arrivava a 24 km dal confine. In questi luoghi avvenne durante la Prima Guerra Mondiale la battaglia di Sarıkamıs, combattuta fra le forze dell’Impero russo e dell’Impero ottomano dal 22 dicembre 1914 al 17 gennaio 1915, nota anche come offensiva di Enver.

Fu una delle principali battaglie della Campagna del Caucaso durante la prima guerra mondiale e si concluse con la vittoria dei russi.

Dai racconti in famiglia ricordo il narrare di lunghi e freddi inverni in case solitarie in mezzo alla steppa e una vita grama.

Quando arrivò la rivoluzione di ottobre in Russia nel 1917 la famiglia dovette abbandonare il lavoro e abitazioni che avevano in quel tempo.

A  Odessa, in Ucraina si imbarcarono per tornare a casa dopo un lungo e avventuroso viaggio.

Mi hanno narrato che ogni ora dovevano versare del denaro al battelliere.

Insieme a loro partì un ragazzo russo Sergio Mikailoff che a Priacco sposò poi Maria Castelli, figlia di Michele.

Prima della partenza ad Odessa, il fratello di mio bisnonno, Giuseppe Reano cambiò i rubli dello zar in oro presso un cambia valute al porto gestito da ebrei.

Invece i miei bisnonni si tennero il loro gruzzolo di biglietti di cartamoneta avendo l’amara sorpresa sbarcati a Genova che non valevano più nulla, erano solo più carta straccia!

Questo è stato il viaggio poiù lungo che avevano fatto come costruttori di strade. Prima avevano partecipato al lavoro nei cantieri del colle del Tenda nel gennaio 1890 e poi avevano lavorato, all’inizio nel 1898 al traforo del Sempione, una galleria ferroviaria che collega l’Italia, la Val d’Ossola e la Svizzera, la valle del Rodano. Un tunnel scavato sotto la montagna, un’imponente struttura che si trova lungo un antichissimo itinerario che da secoli è detto del Sempione dal nome di un piccolo paese, omonimo, che si trova a sud del passo in territorio svizzero. Tunnel che per i successivi 76 anni, è stata la più lunga galleria ferroviaria del mondo.

Questi ricordi mi fanno sentire vicino al popolo ucraino che si trova in sofferenza.

Chissà se ci saranno ancora i pronipoti di coloro che hanno conosciuto e lavorato con i miei antenati.

A loro va la mia   vicinanza e la speranza per una pace duratura.

Favria, 27.4.2022 Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno bisogna trovare in mezzo ai piccoli pensieri che danno fastidio la strada dei grandi pensieri che danno forza. Felice mercoledì.

Kaliningrad, un territorio russo che però non si trova in Russia.

Kaliningrad, in tedesco Konigsberg, in lituano Karaliaucius, per la precisione, la exclave di Kaliningrad, è un territorio russo che però non si trova in Russia, ed è la patria dell’ambra essendo il 90% del minerale del pianeta estratto qui. Adesso vi spiego il perché? Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale la gloriosa Konigsberg diventò una città sovietica con il nome di Kaliningrad in onore del rivoluzionario bolscevico Kalinin, stretto collaboratore di Stalin, morto del giugno 1946. Con la classica teoria escogitata a posteriori, fu lo stesso Stalin a formulare la tesi secondo cui la regione di Kalinin era stata da sempre terra slava. Di lì a poco iniziò il trasferimento in massa nella regione di cittadini sovietici da ogni angolo dell’URSS. La sovietizzazione della regione comportò anche la cancellazione di gran parte degli edifici che testimoniavano sette secoli di presenza tedesca, fra cui decine di chiese cattoliche e luterane. Per qualche tempo i coloni sovietici convissero con la popolazione locale, ma tra il 1947 e il 1949 dalla regione di Kaliningrad furono espulsi oltre 200.000 tedeschi. L’enclave di Kaliningrad appartiene tutt’ora alla Federazione Russa.  Questo è il frutto amaro e meno noto, prodotto dagli accordi tra le grandi potenze alle conferenze di Jalta e Potsdam, un’anomalia storica e geografica in piena Europa che dura tuttora e che anzi adesso è uno dei bastioni dell’Orso Russo nello lo scacchiere della Nato. Prima del 1946 la città si chiamava Konigsberg, capoluogo della Prussia orientale, ed era una città di primaria importanza storica per i tedeschi: fondata dai cavalieri teutoni nel 1255, guidati da Ottocaro II re di Boemia, ed in onore del quale assunse il nome Konigsberg. Dopo la distruzione ad opera dei Prussi o Prussiani, popolazioni baltiche, pagane, abitanti quei luoghi che nel 1263 la distrussero nella loro rivolta, la città venne ricostruita sul luogo attuale ed elevata a città nel 1286.

Königsberg entrò a far parte nel 1340 nella della Lega anseatica e divenne residenza del gran maestro dell’Ordine Teutonico nel 1457. In seguito fu capitale dei duchi di Prussia, i cui re vi furono incoronati dal 1701. Nel 1544 il duca Alberto di Brandeburgo fondò l’università Albertina. Fu per secoli uno dei più importanti centri politici e culturali della Prussia e in seguito dell’impero tedesco. Qui nacquero o lavorarono alcune personalità significative della cultura tedesca e mondiale, primo fra tutti il filosofo Immanuel Kant, ma anche lo scrittore E. Hoffmann e molti altri. Venne occupata dai Russi nel 1758 e dai Francesi di G. Murat nel 1807 e poi nel 1813 si ribellò a Napoleone I. In età moderna, grazie alle comunicazioni ferroviarie tra Russia e Prussia, diventò il massimo centro per l’importazione dei prodotti cerealicoli dalla Russia.

Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, città in quanto parte del sistema difensivo tedesco nella Prussia Orientale, fu il primo obiettivo dell’armata sovietica venne assalita il 27 gennaio 1945, capitolò soltanto dopo accanita resistenza il 9 aprile.

Oggi la exclave di Kaliningrad, è un territorio russo che però non si trova in Russia se non attraverso il corridoio di Suwalki.   La  regione di Suwałki, terra di confine a cavallo di Polonia e Lituania, una sinuosa frontiera di 104 chilometri divide l’estremità nordorientale del voivodato di Podlachia dall’ultimo lembo meridionale dell’antica Suduva lituana. Chiuso a nord-ovest dall’oblast, provincia di Kaliningrad russa, a sud-est dalla Bielorussia, questo corridoio largo 65,5 chilometri che prende il nome da una cittadina polacca di 69 mila abitanti è l’unica via terrestre d’accesso dall’Unione Europea alle tre repubbliche baltiche. In queste foreste primordiali di pini, ontani, lecci e betulle, con centinaia di laghi e paludi, uniti da un dedalo di vie d’acqua è il tallone d’Achille della Nato che taglia fuori le repubbliche Baltiche. La guerra, dopo Kiev, potrebbe spostarsi qui.

Favria, 28.04.2022 Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita quotidiana, quando abbiamo una meta anche il deserto diventa strada. Felice giovedì.

La parola allibito, esterrefatto, senza livore.

Quando diciamo che siamo sbigottiti, vuole dire  che siamo allibiti. Ho cercato il significato di “allibito” nel dizionario e ho trovato: Esterrefatto, sbigottito, assalito da un intenso ed improvviso stupore. Ma “stupore” vuol dire grande meraviglia e si può provare meraviglia come un sentimento gradevole. La  parola allibito  parola deriva  dal lemma latino livere, essere livido. Allibito è uno  stupore atterrito, che si dipinge sul volto con un colore livido, terreo. Insomma se sono allibito voglio significare turbamenti profondi che lasciano attoniti, basiti , una sorta di  sorpresa incredula, spaventata, preoccupata. Se allibito vuole dire provare uno stupefatto livore, anche la parola esterrefatto, che significa atterrito, spaventato, stupito è molto simile. Esterrefatto deriva dal lemma latino exterrere atterrire, che a sua volta è composto da ex rafforzativo e terrere spaventare, e facere fare. Quando siamo esterrefatti, siamo in primis atterriti, spaventati, anche se oggi  l’esterrefatto è diventato sinonimo di stupito, direte si è attenuata, ricordiamo che i sentimenti del  terrore e quella dello stupore sono attigui. Il livore è invece il sentimento di invidia, rancore, deriva dal latino livor, livido. Un sentimento intenso segna  che il corpo colorando il volto. E quando il volto viene trasfigurato dall’astio, tinto di scuro, simbolicamente violaceo o verdastro, allora è esploso il livore.  Si tratta di una rancore rabbioso, biliosa, alimentato  da un’invidia che consuma,  un  sentimento  spregevole e bestiale, una brutta malattia da cui bisogna guarire subito, se no il primo a rimetterci è chi prova livore. Mi fermo qui se do chi mi legge da allibito può rimanere basito.

Favria, 29.04.2022  Giorgio Cortese

Buona giornata. Se ogni giorno cerco di tenere il viso rivolto verso il sole così le ombre cadranno alle mie spalle. Felice venerdì.

Il punteggio del tennis

Il punteggio del tennis non appare immediatamente semplice da comprendere, forse anche in ragione dei punti su base 15, 30, 40, ai quali siamo poco abituati.   L’origine di tale particolarità potrebbe risalire al Medioevo. Infatti, sebbene il gioco del tennis sia nato ufficialmente in Inghilterra nel 1887 col primo torneo svoltosi a Wimbledon. Il primo riferimento a questo sistema lo si individua in un testo di Carlo di Valois-Orleans del 1435 che fa riferimento al “quarante cinque” che ha dato origine al moderno 40. Le prime teorie sul 15 risalgono al 1555, ma è difficile ritrovare un momento esatto a cui collegare questa teoria. Nel  Medioevo esistevano già giochi simili anche in Italia, pallacorda, e in Francia detto,  jeu de paume. In Francia la sala del jeu de paume, è anche la famosa sala nella quale a Parigi il 20 giugno 1789 si radunarono i deputati del Terzo Stato, ai quali era stato impedito di entrare nella sala in cui normalmente si riunivano. Qui essi prestarono giuramento, detto appunto serment du jeu de paume, giuramento della pallacorda, di non separarsi prima di aver dato una Costituzione alla Francia.  Tornando al punteggio del tennis una  possibile spiegazione  dei punti è quella delle “cacce”, segni che venivano fatti sul campo da gioco ogni volta che la palla si fermava: quindici cacce formavano un punto, per cui il primo punto era quindici, il secondo trenta e il terzo quarantacinque. Nel Settecento il quarantacinque si sarebbe trasformato in quaranta per ragioni di più facile dizione. Secondo un’altra teoria è probabile che nel Medioevo fossero in palio delle monete per ogni giocata: il primo e il secondo punto valevano quindici centesimi, il terzo invece dieci. Al riguardo una vecchia filastrocca francese  veniva detto: quinze, trente e quarante. L’origine del regolamento del Tennis ha le sue origini in Galles dove Walter Clopton Wingfield stabilì un primo regolamento nel 1875 dando al gioco il nome di sphairistike; l’anno successivo incominciò a diffondersi anche negli Stati Uniti. La regolamentazione definitiva del tennis è del 1888,quando si costituì l’associazione tennistica inglese. In Italia il tennis fu introdotto intorno al 1880 in Liguria. Mentre nel 1894 fu fondata la Federazione italiana, ma rimase sempre uno sport d’élite almeno fino al dopoguerra.

Favria, 30.04.2022Giorgio Cortese

Buona giornata. Tutti nasciamo come originali ma poi molti muoiono come fotocopie. Felice sabato