TRA PRATI E… GHIACCIAI ! a cura di Marino Pasqualone

(da IL RISVEGLIO POPOLARE del 10 ottobre 2024)

Mentre son tutti intenti, dai giornali alle televisioni a reti unificate fino alle più note meteostar, alla sempre più lagnosa, e peraltro inconcludente, giaculatoria sul cambiamento climatico e sui ghiacciai che scompaiono, in pochi sembrano invece essersi accorti che il più evidente cambiamento paesaggistico e colturale (oltre che “culturale”) della montagna è stato, almeno sullo spopolato arco alpino occidentale, la quasi completa scomparsa dei prati adibiti a fienagione dal paesaggio montano.

Quantomeno di quelle immense praterie erbose che, per chi ha più di 50 anni, sono rimaste indelebilmente impresse nei ricordi della propria infanzia: distese di prati fioriti e profumati a giugno in attesa del primo taglio del fieno, poi la replica meno multicolore con il secondo taglio ad inizio agosto (l’ariorda), ed infine la verdeggiante erbetta di settembre, su cui sovente pascolavano fino alle prime brine autunnali le mucche scese dagli alpeggi.

Un potente segno di questo cambiamento epocale del paesaggio delle nostre montagne, soprattutto intorno a capoluoghi e borgate, l’abbiamo ad esempio guardando una cartolina, risalente agli anni cinquanta del Novecento, che arriva dalla valle di Ribordone: in essa è raffigurata Talosio (la principale frazione del Comune laterale alla valle dell’Orco), allora circondata da un’infinita distesa di prati, piccoli coltivi e pascoli, solo qua e là punteggiati da radi alberi di frassino, accuratamente “potati” per trarne fascine di legna e alimento per il bestiame, e da rari esemplari di abete.

Chi conosce quel tratto di valle sa che, affacciandosi oggi dal punto di scatto della fotografia di quella cartolina, ci si troverebbe davanti ad una selva impenetrabile di alberi e arbusti di ogni tipo, salvo pochi residui lembi di aree prative più o meno incolte, quando va bene ancora adibite episodicamente a pascolo, nei pressi delle abitazioni.

Lo stesso si potrebbe dire per altre decine di immagini d’antan, siano essere relative a Valprato Soana o Ingria, a Frassinetto o a Pont Canavese, ad Alpette come a Noasca: pur nella ripidezza dei versanti, immensi prati e zone terrazzate adibite ad orti e coltivi spiccano in quelle fotografie almeno fino agli anni cinquanta del Novecento, in cui i boschi appaiono relegati solo sulle pendici meno soleggiate delle montagne od a protezione degli abitati dalle valanghe invernali.

Anche se, va sottolineato, a Pont e nelle valli che da esso si dipartono verso le montagne del Gran Paradiso ad essere spariti negli ultimi decenni non sono solo stati gran parte dei prati, ma anche molti servizi importanti per gli abitanti, che un tempo c’erano ed oggi non ci sono più.

Come gli sportelli bancari chiusi in molti paesi, gli uffici postali aperti a giorni alterni, alcune corse dirette degli autobus come quella da Pont a Ivrea, la scuola guida sempre a Pont, una miriade di bar, ristoranti e negozi soprattutto non alimentari, la stessa ferrovia verso Rivarolo ancora sospesa in attesa di una elettrificazione che sembra scivolare verso un futuro sempre più lontano.

E mentre tutti trepidiamo giustamente per la prossima dipartita del ghiacciaio del Ciardoney o di Punta Basei, informati minuziosamente ed anche un po ossessivamente dai media di ogni centimetro perso ad ogni stagione, nelle estati roventi degli anni duemila, dal manto glaciale che copriva le nostre montagne (ma che nei millenni è già più volte arretrato e ricomparso, anche senza il pur sensibile attuale contributo delle attività umane), oggi quasi nessuno spende più una parola per le decine di villaggi ridotti a rovine nel silenzio delle rupi valligiane, per una montagna antropizzata e coltivata dalla plurisecolare civiltà alpina che in pochi decenni di abbandono si è dissolta più in fretta di quei ghiacci considerati falsamente “eterni”.

Ed a noi, in attesa che spuntino le pale eoliche sui crinali boscosi a decretare anche sulle nostre montagne l’alba dell’ineluttabile “transizione energetica”, non resta che guardare quelle vecchie cartoline raccolte in un cassetto, testimoni di un mondo che era di sicuro materialmente più povero di quello odierno, tagliato fuori dalle dinamiche dell’industrializzazione forzata dell’ultimo dopoguerra e per questo fatalmente destinato a soccombere.

Un piccolo mondo valligiano che, chissà perché, raschiando sul fondo del barile dei nostri ricordi ci appare però più vero e più intimamente connesso al territorio di quello spaesato ed anonimo in cui viviamo adesso, spesso fatto di slogan e di parole d’ordine piovute dall’alto e dal significato  a volte ambiguo, buone per tutte le latitudini ed altitudini.

Allora avevamo il verde dell’erba nei prati, oggi il “green” tecnodigitale che va bene per tutto, ma che, come un gelido algoritmo frutto di un’intelligenza artificiale, non arriverà mai a darci quelle emozioni capaci di scaldare davvero i nostri cuori.

                                                                                                                      Marino Pasqualone