LA VALSOANA DIJ MARÈT, Parìi : La montagna perduta di Marino Pasqualone

Un sole malato e quel vento che soffia ossessivo altalenando brividi e tepore, ed alza urlando bagliori di neve sulle creste più alte delle montagne che chiudono l’orizzonte: e ti viene da pensare che se almeno l’inverno facesse fino in fondo la sua parte, sferzante e gelida, forse tutto sarebbe più facile.
E se non avessi visto, appena un momento fa, quella luce gialla di primula accendersi nel turbinio impazzito delle foglie secche, il tuo passo sul sentiero sarebbe forse meno incerto e timoroso.
Ed ora non avresti già voglia di tornare indietro, lasciare perdere tutto, annullare definitivamente questa assurda pazzia che ti porta ancora e sempre ai confini del nulla. Ma invece sei già lì, dove fino a pochi anni fa erano rimasti soltanto due tronchi marci e verdastri di muffa mentre il resto del ponte era precipitato nel ruscello sottostante, ed oggi invece una nuova passerella di legno ti porta facilmente dall’altra parte del piccolo ed incassato vallone del Rio Bigio.
Il rumore dell’acqua, monotono nella sua cantilena rimasta immutata nei secoli, alimenta la tua ossessione in modo sempre più insostenibile, ma con pochi passi sei già oltre il confine di un mondo perduto.
Un mondo di cui a quasi nessuno in realtà sembra importare più nulla, anche perché è molto più facile far finta che non sia mai esistito, decretandone l’oblio con una colpevole indifferenza, mentre il sentiero ridisegnato da poco sull’erta boscosa guida invece sicuro i tuoi passi verso quei simulacri di case naufragate da tempo tra l’edera ed i rovi.
E qui, sotto queste rupi incombenti, in questo villaggio alpino diventato un “non-luogo” di cui pare sacrilego anche pronunciarne il solo nome, capisci all’improvviso, come in tanti, troppi, altri villaggi delle nostre valli, che i destini di una civiltà secolare si sono incrociati con un’altra e sono collassati, e di questo titanico scontro non sono restate altro che macerie.
Da qui, come da cento altri villaggi diventati fantasmi di se stessi, un giorno i montanari se ne sono andati precipitosamente, lasciando dietro di loro le case ed i loro poveri arredi, i miseri campi ed i prati obliqui, forse con una promessa di ritorno che non sarebbe quasi mai stata mantenuta.
Anche se, in realtà, nel cuore di molti di loro si annidava già allora la certezza che quello sarebbe stato l’addio definitivo ad una civiltà alpina morente, e che quelle case sarebbero diventate in fretta null’altro che rifugio per ghiri e serpenti, mentre dalle finestre e porte spalancate dal vento le foglie d’autunno avrebbero presto trovato riposo tra i muri anneriti e nelle stalle vuote.
E poi sarebbero inevitabilmente crollate ad una ad una, e quella fuga era l’unico modo per salvarsi senza essere travolti anch’essi sotto a quei cumuli di macerie.
Ma oggi, quando passando tra quei simulacri di case sentirete il loro grido silenzioso ferirvi le orecchie, proverete forse un terrore ancestrale e capirete la vostra totale inadeguatezza a misurarvi con qualcosa che non conoscete affatto, ma che turba le vostre granitiche certezze e vi fa vacillare.
Senza le strade asfaltate e le auto ipertecnologiche, senza i computer ed i cellulari, senza i discorsi inutili ed autoreferenziali a cui siete assuefatti da sempre vi sentire come perduti. E cadrete in ginocchio davanti ad una casa senza più tetto né finestre, davanti ad una fontana senza più acqua, di fronte ad una porta divelta che non riesce più a celare il buio inquietante di una cucina annerita dal fumo.
E mentre scende la sera, dal bosco incombente l’artiglio del buio ferirà le vostre residue sicurezze, devastandole spietatamente con la grandine del dubbio.
Forse… qualcosa si poteva fare… forse… qualcosa si potrebbe ancora fare… forse.
Ma è ormai troppo tardi, qui come altrove, per fare qualunque cosa che non sia rispettare questo inquietante silenzio di voci e di vita, ed è quindi più facile chiudere gli occhi e credere che tutto quello che avete visto sia stato tutto solo un brutto sogno.
Parìi, Rubèl, Artà, Cup, Butifinèra, Stavëir, e tanti altri villaggi pontesi che ai più non dicono nulla, suoni disarticolati in un dialetto “francoprovenzale” che peraltro, da quando è assurto a dignità di “lingua” minoritaria, quasi più nessun ragazzo impara a parlare, in realtà non esistono e non sono mai esistite.
Basta tornare a valle e dimenticare.
Ci penserà il tempo a cancellare ogni traccia di quel mondo alpino che è stato da troppi rinnegato e tradito, e di cui stiamo perdendo ogni segno concreto e la stessa consapevolezza che sia mai davvero esistito.
C’è un’intera civiltà agonizzante nei boschi dietro alle nostre case, però lasciamo che ad occuparsene siano soltanto i pochi studiosi di archeologia preindustriale alpina e qualche solitario e nostalgico “archiviatore” di ricordi, perché in fondo essa ci fa paura.
Ma dovremo pur in qualche modo trovare almeno il coraggio di affrontare il nostro passato, seppellirne i resti, onorarne la memoria.
E forse ritrovare proprio in esso le ragioni e la speranza per dare davvero un futuro degno d’essere vissuto a queste valli e montagne sempre più silenziose e vuote che ci circondano da ogni lato.
Quando questo avverrà quella, e solamente quella, sarà davvero una giornata “storica” per le nostre terre alte.
Perché, io credo, ricordare sempre quando ancora in cento luoghi delle nostre valli c’erano i prati è forse il primo necessario passo da compiere per farli ritornare, un giorno, a fiorire di nuovo.
testo e immagine di Marino Pasqualone

Parìi
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