E fanno 90! Auguri Alpini di Favria – Morire di mobile vulgus! – Il rientro dall’alpeggio. – La riconoscenza merce rara oggigiorno. – Res gestae favriesi da burlèr a borlare. – L’amicizia
E fanno 90! Auguri Alpini di Favria.
Oggi è il giorno in cui cade l’anniversario della fondazioni del Gruppo Alpini di Favria nel lontano 1924. Oggi dopo novantanni, il miglior modo di essere alpino è quello di esprimere la propria alpinità. Novantanni fa i nostri nonni hanno fondato questo gruppo, cento anni fa era in corso la Grande Guerra. Ecco noi siamo Alpini, né giovani né vecchi, né progressisti né conservatori, ma solo sempre attuali, fedeli alle radici delle memorie gloriose del passato, proprio perché con queste possiamo capire il futuro, questo è il segreto dell’Alpinità. Novantanni di storia dove tutti ci sentiamo uniti da una virtuale cordata. Ma per noi alpini la cordata non è la corda, siamo noi con la nostra passione che siamo uniti con quella corda con quelli che ci hanno preceduto e con quelli che verranno.
W gli Alpini
Favria, 10.10.2014 Giorgio Cortese
Scriveva Henrik Ibsen che: “La minoranza ha sempre ragione!” Ritengo che chi è al Governo, dovrebbe ricordarsi che forse non sempre è vera questa frase, ma spesso forse ha un fondo di verità e dovrebbero usare il dimenticato ma sempre utile buonsenso. Democrazia è anche il dialogo e ascolto tra maggioranze e minoranze
Morire di mobile vulgus!
Il lemma mobbing è nato per descrivere comportamenti animali nel campo del comportamento degli animali e venne coniato agli inizi degli anni settanta del XX secolo dall’etologo Konrad Lorenz per descrivere un particolare comportamento aggressivo tra individui della stessa specie, con l’obbiettivo di escludere un membro del gruppo. In etologia, particolarmente in ornitologia, mobbing indica anche il comportamento di gruppi di uccelli di piccola taglia nell’atto di respingere un rapace loro predatore. Successivamente un medico svedese nel 1972 P. Heinemann lo utilizzò il termine, come sinonimo di bullismo. Negli anni ’80 uno psicologo, anche lui svedese, H. Leymann, definì il mobbing nel significato attuale, come una comunicazione ostile, amorale, diretta in maniera sistematica da parte di uno o più individui generalmente contro un singolo individuo. Questo lemma è un gerundio sostantivato inglese derivato da “mob”, inventato nel 1688 dall’espressione latina “mobile vulgus”, che significa “gentaglia mobile”, ovvero una folla grande e disordinata”, soprattutto dedita al vandalismo e alle sommosse, corrispondeva all’equivalente all’italiano “plebaglia”. Oggi questo lemma indica la spregevole e abbietta condotta di essere umani che si comportano peggio delle bestie con vessazioni e violenze psicologiche su dei colleghi di lavoro, e molto spesso umiliano la persona presa di mira, escludendola e rimproverandola per qualsiasi cosa pur di demoralizzarla. Sono storie che molto spesso leggiamo con maggiore frequenza nei giornali, storie di ordinaria violenza.
Il fenomeno del mobbing un tempo trascurato, adesso, viene segnalato con crescente attenzione per la imponenza che ha assunto e con la preoccupazione di approntare, per l’appunto, validi strumenti di prevenzione e di difesa per chi presta la propria opera in un contesto in continua evoluzione. Leggendo dell’ennesima morte di un essere umano per mobbing non posso rimanere in silenzio ma domandarmi se per gli istigatori di questa tragedia la dignità se n’è sia andata definitivamente ma forse non è mai non è mai esistita, persone che nel loro animo è solo passato l’aratro dell’imbecillità lasciando un desolante vuoto di valori, che per invidia o per noia rovinano la vita di un altro essere umano, mi auguro che la voce della coscienza anche se sottile che forse cercheranno di soffocarla li giudichi ogni giorno perché la voce della coscienza è così pura che è impossibile confonderla. Nella società veramente umana la sofferenza di qualcuno è sentita come sofferenza di tutti, così come accade per la gioia e la felicità, e forse è inutile spiegarlo a dei subumani!
Favria, 11.10.2014 Giorgio Cortese
Se nella vita non c ‘e’ la giustizia, non esiste allora non c’è la libertà.
Il rientro dall’alpeggio.
Il rientro dall´alpeggio è per i contadini una vera e propria festa che celebra il ritorno alla stalla del bestiame. In autunno, quanto si preannuncia il cambio di stagione e verso sera, come di mattina, la temperatura scende sensibilmente, le mucche hanno ormai consumato tutta l’erba nei boschi e pascoli di montagna e vengono ricondotte in paese. Ogni anno c’è una festosa allegria per le vie della Comunità dove passa il bestiame. I pastori si preparano a tornare a casa e per festeggiare abbelliscono le mucche. Dai ganci vengono staccati i campanacci più grandi che, fissati al collo delle mucche con la cintura di cuoio decorato, annunceranno a tutti, sonoramente, il loro rientro negli ayrali per la fine della stagione estiva. Con la discesa in pianura si compie un altro ciclo della vita dei contadini. Sciamano le mucche per le vie di Favria in una lunga colonna senza fine di continuità, le mucche che scendono dall’alpeggio. Questo festoso corteo di animali e uomini e donne che li accompagnano rallegrano il tardo pomeriggio di sabato 4 ottobre, con il loro lento squillare dei bronzei e colorati campanacci. L’anima più segreta del Canavese emerge per il breve tempo in cui transitano le mucche con i gioiosi campanacci ed evocano un mondo ormai passato. Certo il mondo contadino, quella civiltà dalla quale noi tutti abbiamo le nostre comuni radici ci separa, ormai, non poco tempo e non poche cose, ma le culture pregresse, in noi esseri umani per fortuna, sono tenaci, tardano a scomparire, e sopravvivono finchè ci sarà anche questo evento: la transumanza. Purtroppo la globalizzazione tenta di livellare tutto, anche le nostre tradizioni e radici e con loro salta in aria l’apparato dei valori condivisi. Oggi le passate identità si disfano e si perdono pezzi di storia, anno dopo anno che univa le coscienze in una morale di fraterna condivisione, quel senso di rispetto che dovrebbe unire tutti noi umani.
Favria 12.10.2014 Giorgio Cortese
Se nella vita voglio conoscere la vera natura di certi esseri umani devo prima dargli un grande potere.
La riconoscenza merce rara oggigiorno.
Un recente episodio mi ha fatto ricordare che è vero quel proverbio che la riconoscenza invecchi presto. Purtroppo questo lemma, presente sì nei vocabolari della lingua italiana, è sfortunatamente assente, nella stragrande maggioranza dei casi, nella realtà quotidiana. Parto con una breve spiegazione del concetto, la riconoscenza configura quel sentimento di gratitudine nei confronti di chi ci ha fatto del bene. Alla semplicità di questa definizione corrisponde una difficoltà nell’applicarla e rendere pratico nella quotidianità di tutti i giorni questo naturale concetto. Ma io personalmente, interrogandomi, mi chiedo: “Ma è davvero così difficile saper ripagare, senza bisogno di un vantaggio, il bene che un altro è in grado di farmi?“. La mia ingenuità porta il mio animo a rispondere con un no, ma poi mi guardo attorno, osservo la quotidianità dei gesti delle persone e mi rendo conto di una cosa, la riconoscenza nella maggior parte dei casi non esiste, è divenuta una merce molto rara, molte volte è frutto di un miraggio quanto mai lontano. La totale mancanza di riconoscenza alla lunga sfocia nell’ingratitudine e, potrebbe essere vista anche come una specie di prepotenza, quella prepotenza esercitata da persone che si credono, con i loro comportamenti, di essere più forti, di dimostrarsi superiori rispetto al sottoscritto. Certe persone cosi poene del loro ego e che hanno divorato la loro stessa coscienza sono anche capaci di dimostrarsi arroganti pensando così facendo di dimostrare la loro forza; la cosa mi fa sorridere, con gli attributi si nasce e non si acquisiscono crescendo! Questo loro atteggiamento, invece dimostra proprio la cosa opposta e cioè una grande insicurezza poichè non capiscono neanchè quello che richiedono alle persone e mancano di coerenza. Solo gli stupidi usano la forza fisica o verbale poichè è la via più mediocre e facile da seguire. Si sa che l’’ingratitudine è un modo come un altro per pagare i debiti, ed è il preferito perché costa meno. Secondo un adagio popolare la paternità della riconoscenza appartiene all’egoismo, mentre la maternità appartiene all’ingratitudine, forse per questo che la riconoscenza è così rara e preziosa. Personalmente mi sento di condannare l’ingratitudine da qualsiasi parte essa arrivi perché è bello donare tutto me stesso, ma al contempo è bello anche ricevere un piccolo gesto, un piccolo segnale. Ma certe persone possono essere così ingrate e nella vita? Voglio sperare, nella mia ingenuità, che il mondo sia fatto di persone oneste e sincere che siano in grado di apprezzare e rispettare che cosa può fare il prossimo. Personalmente ho imparato che non devo mai aspettarmi nulla dagli altri soprattutto da quelle persone che fino a poco tempo prima mi elogiavano, da un momento all’altro buttano giù la maschera rivelando tutta la loro mediocrità, invidia e risentimento. Questo accade quando le persone non sono se stesse e vogliono assomigliare ad un altro magari più bravo di loro, pensando così di ottenere qualche genere di risultato da quest’ultimo. Nella vita quotidiana, non bisogna compiacere tutti per essere accettati, chi si comporta in questo modo dimostra non solo di non avere personalità ma anche scarsissima autostima. Ma il bene va generosamente esercitato ogni giorno nella mia vita, a ben guardare, personalmente ne ricevo quotidianamente. Non solo per la calda carezza del sole, il cielo azzurro che basta guardarlo! Ma anche negli occhi delle persone che incontro, nei loro sorrisi. Il Ricambiare un sorriso è anche questo il bene elargito generosamente, e la mancata risposta suscita lo stesso sdegno di un figlio ingrato. Un cuore nobile non è mai scontato!
Favria 13.10.2014 Giorgio Cortese
Le parole sono delle grandi azioni, attraverso di esse possiamo dare ad altri la felicità o una grande amarezza
Res gestae favriesi da burlèr a borlare.
Nelle nostre campagna canavesane sono sempre più rari, ma capita di vederne ancora qualche sparuto manufatto di burlèr. Parlo delle fascine dello stelo delle piante del mai. Il verbo borlare deriva dal germanico borl che indicava all’origine on oggetto tonteggiante ed anche spingere qualcosa. Le fascine dgli steli di mais avevano infatti una circoferenza tondeggiante e venivano rotalitti per il campo, per iissarli gli uni contro le altre per assume l’asspetto del burlèr. Questo antico verbo è ancora in uso in alcuni dialetti, in toscana, nella forma borlare, borlà, nel milanese, che significa rotolare e cascare.
Favria 14.10.2014 Giorgio Cortese
Nella vita le parole più belle sono quelle non dette, il gesto più bello è quello non compiuto, e il cambiamento più bello è quello non voluto.
L’amicizia
L’amicizia è una fiamma che mai si spegnerà. essa è paragonabile al sole, alla luce che non si spegne mai. avere una vero e sincero amico è come possedere un tesoro che tu non vedi, ma che hai. a parole non si può dire che cos’è. è grande come l’infinito, vale più del bene che tu hai e che sogni di avere. Solo la vita può dire meglio di me, senza parole, cosa essa sia: se è illusione o se esiste… i valori basilari dell’amicizia sono la fiducia e l’onestà. Quando una persona, senza esitare, ti guarda negli occhi e può dire sì, di te mi fido!”, quella è vera amicizia. Penso che l’amica sia colei che ti sa capire, colei che se hai un problema ti aiuta, che crede in ciò che fai, dici e pensi, in ciò che sei, anche se tutto dimostra il contrario. Penso all’amicizia come ad un qualcosa di eterno, che non nasce e non muore, ma vive all’infinito dentro a ognuno di noi
Favria, 15.10.2014 Giorgio Cortese
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