Testimonianza inedita sull’unica donna pontese deportata in Germania a cura di Elena Vittolo e Marino Tarizzo

Oggi, 18 gennaio 2024, abbiamo l’occasione di raccogliere una testimonianza inedita

sull’unica donna pontese deportata in Germania, una ragazza di 17 anni, Monteu Saulat Natalina. Ci parlerà di lei la signora Elena Vittolo, di Pont Canavese.

M.T. Buongiorno Elena. Per quale occasione, circostanza lei ha memoria di Natalina?

E.V. Io devo i ricordi che ho di Natalina al fatto che lei era coetanea di mia mamma, mamma Palma, che viveva come Natalina a Faiallo. Ovviamente le due ragazze hanno frequentato la scuola di Pianseretto insieme. Poi mia mamma nel 1942, in seguito a un incidente, mentre rientrava dal lavoro alla Manifattura, ha perso un arto. E questo ha comportato per lei mesi di ospedale. Quando è tornata a casa, alla fine del 1942 e per alcuni mesi del 1943, Natalina, che era sua amica (e che aveva cominciato ad andare a scuola di cucito a Oltresoana dalla sarta che era allora l’emblema delle maestre sarte di Pont, la signora Aurelia) passava a trovarla. Così si è rinsaldata quella che era già stata un’amicizia infantile. Natalina era figlia unica, il cui padre era stato, pare, convinto ad andare a lavorare in Germania con la promessa truffaldina di un buon stipendio, mentre in realtà fu destinato ai lavori forzati. Aveva un minimo di opportunità di scrivere a casa, ma ovviamente non poteva raccontare ciò che viveva e ciò che vedeva attorno a sé. Di Natalina so quello che mi ha raccontato mia mamma, che peraltro me ne ha parlato solo quando già era in casa di riposo e, cominciando a perdere la memoria recente, riandava ad avvenimenti lontani nel tempo. Ha iniziato a parlarmi di Natalina in un giorno particolare. Ero andata a trovarla e, come mi ha visto entrare, mi ha chiamata “Nene” che era il nome che lei e mia nonna usavano per me quando io ero proprio piccola. Quel giorno mi disse: “Sei andata a trovare mia madre?” Io la guardai soltanto (la nonna era già deceduta) e lei aggiunse “Eh, sì, perché doveva andarci anche Natalina”. Allora capii che stava rivivendo un altro momento e ho cercato di assecondare il suo discorso. Ho sviato il discorso da nonna e mentre cercavo di abbozzare qualcosa su Natalina, lei disse ancora: “Eh, sì, povera Natalina”. Siccome non me ne aveva mai parlato ho cercato di sviluppare il discorso sulla sua amica, ricorrendo a un commento banale sulla Natalina che era stata una bella ragazza. “Sì, è una bella ragazza” lei mi corresse.

M.T. Era tornata a quel tempo.

E.V. Era tornata a quel tempo e precisò: “È una bella ragazza, io la vedevo quasi tutti i giorni quando veniva a trovarmi e poi non l’ho più vista per tanto tempo” “E come mai non l’hai più vista, avevate litigato?” le chiesi. “No, no, sai, lei è partita. La sua voglia di ridere e scherzare le ha giocato un brutto tiro”. Allora l’ho lasciata parlare. E lei mi ha raccontato che Natalina scendeva dall’Aurelia insieme ad altre tre ragazze della zona facendo al ritorno l’ultimo tratto di strada da sola in quanto era la più lontana. Poi mi ha raccontato che Natalina aveva conosciuto un ragazzo che faceva parte di un gruppo di partigiani che si erano stabiliti sotto alla borgata del Cantelletto di Faiallo (sulla strada per Frassinetto) spostati verso la cava della Pietra Bianca, oggi non più attiva ma che ancora c’è. Lì utilizzavano un paio di baracche per nascondersi. Mia mamma aggiunse che non ricordava più il nome del giovane partigiano né se l’incontro con Natalina si fosse in seguito conclamato in matrimonio. Però, dopo questo vuoto di memoria, aggiunse che Mineto, un vicino di casa di mia mamma, la aveva raccontato che Natalina era stata fermata al posto di blocco di Oltresoana, che lei aveva risposto quasi con scherno e quindi era stata condotta a Cuorgnè, alla vecchia caserma sede di un comando repubblichino.

M.T. Si ricorda in quale periodo ciò avvenne?

E.V. Da quello che ho potuto ricostruire i posti di blocco a Pont sono apparsi alla fine del 1943, dopo l’armistizio, quando i ragazzi militari, tra cui mio padre, erano tornati per rifugiarsi sulle montagne. E ovviamente i punti di passaggio come Oltresoana erano controllati. Per inciso, all’incirca quando fu fermata Natalina, furono fermate pure altre due ragazze e anche loro portate a Cuorgnè, ma poiché loro lavoravano in Manifattura furono presto liberate. Da quel che ho ricostruito, anche da un’ulteriore fonte (mia zia), avrebbe dovuto essere un venerdì, poiché il sabato ci sarebbe stata una festa in una cappella di un borgo dell’alta val Verdassa, da uno dei quali, Monteu, era originaria la famiglia di Natalina. A quella festa Natalina, insieme a quattro-cinque sue amiche, aveva organizzato di andarci.

Al posto di blocco le ragazze erano arrivate ridendo e scherzando e all’interrogatorio risposero che tornavano a casa, che la casa era in montagna e alla domanda cosa ci andavano a fare in montagna Natalina pare che rispose, un po’ a presa in giro, che andavano a trovare dei bei ragazzi che erano partigiani. I componenti del posto di blocco, che per quanto mi risulta erano repubblichini e non tedeschi, ne furono allarmati. Inoltre, da notizie che ho poi appreso, pare che uno di questi fosse un tipo che conosceva già Natalina, che avesse provato a corteggiata e che lei l’avesse respinto.

M.T. Sta di fatto che la prendono e la portano a Cuorgné.

E.V. Hanno preso solo lei! E sì che tutte le ragazze del gruppo avevano partecipato alle risa e all’atmosfera scherzosa. E questo forse potrebbe confermare come ci fosse di mezzo un rancore personale.

Intanto la situazione era questa: il papà non c’era, la mamma non aveva molta salute e il sequestro della figlia l’aveva distrutta. La mamma ha comunque provato a scendere a Cuorgnè, insieme a dei vicini, senza riuscire a far liberare la figlia. Natalina l’hanno trattenuta a Cuorgnè per otto-dieci giorni, poi l’hanno inviata in Germania.

M.T. Secondo le sue memorie questo quando è avvenuto?

E.V. Dovrebbe essere o fine 1943 o inizio 1944 e, se ci ricolleghiamo alla festa del borgo di montagna, forse più probabilmente fine dell’autunno o inizio della primavera. Alla data precisa non sono riuscita a risalire, anche perché il posto di blocco in Oltresoana è durato fino al 1944 inoltrato. E quella era una zona frequentata da partigiani e da donne partigiane, come Maria Panier, come mia mamma, per quel poco che riusciva a fare con la stampella, e che con il suo zaino che non portava zucchero ma armi, scampò a un destino tragico grazie alla sorte.

M.T. Si sa dove l’hanno portata?

E.V. No, non lo si sa, o perlomeno mamma non me l’ha mai detto. Anche se è da tempo che vorrei fare una ricerca su un sito tedesco dove mi è stato detto che ci sono gli elenchi dei deportati.

Comunque fu sicuramente un campo dove venivano portate le ragazze giovani perché è noto che su di lei vennero fatti degli “esperimenti” decisamente tragici, pare per renderla sterile o comunque in quella sfera. Posso dire, sia su memoria di mia madre che di mia zia, che nei primi tempi della deportazione poteva ancora scrivere a suo padre, che era ai lavori forzati non troppo distante da lei, questo senza mai poterlo incontrare.

M.T. Con la liberazione dai campi Natalina tornò a casa. Sa quando avvenne e in quali condizioni era?

E.V. Quando è finita la guerra e hanno liberato i lager è tornata.  È tornata molto tardi, quasi sicuramente alla fine del 1946, quale giro abbia fatto, dove sia finita non si sa. Mia mamma è andata parecchie volte a trovarla dopo il suo ritorno, ma Natalina si è sempre rifiutata di parlarle di cosa le era successo. Quando vedeva entrare mia mamma le chiedeva come stava con la sua gamba, come stavano altri suoi parenti, però se mia mamma provava a farsi raccontare dell’internamento Natalina piangeva e basta.

M.T. Era tipico di quasi tutti i deportati il non voler parlare di quelle loro sofferenze.

E.V. Sì, non ne volevano parlare. Ciò che so, e questo mia mamma me lo disse già quand’io ero giovane, è che per Natalina chiamarono a consulto il dottor Carlo Aimone (medico stimato dell’epoca n.d.r.) che  andò a casa a visitarla. Lei aveva dei dolori terribili e il dottore non poté che prescriverle dei calmanti, peraltro scarsamente efficaci.

M.T. Si è parlato anche di cicatrici.

E.V. Sì, mamma ha detto che ha visto un paio di volte che le medicavano le cicatrici, cicatrici che non guarivano. Le ricordava sul ventre. E poi dei lividi che non si riassorbivano su una spalla, come se le avessero messo delle cinghie per  immobilizzarla. Il 13 agosto 1947 quando è morta non aveva ancora compiuto ventun anni. Questo è quanto. È sepolta nel cimitero di Pont. La mamma di Natalina aveva un soprannome che non ricordo più, il papà era Domenico e di entrambi non ho più avuto notizie.

M.T. Le risulta che ci siano parenti in vita?

E.V. Natalina era figlia unica, il padre era figlio unico, della madre non ho notizie. Che io sappia Natalina non aveva nessun altro parente. E, come ho già premesso, i ricordi di mia madre mi sono stati raccontati a sprazzi, recuperati nella memoria lontana che io non potevo sollecitare, ma solo accogliere quando a lei venivano spontanei, e dar loro un logica temporale.

M.T. Grazie Elena per questa sua preziosa testimonianza, siamo proprio nei dintorni del Giorno della Memoria e speriamo che questi ricordi ci aiutino a riflettere e a capire che queste cose non debbono più succedere.

E.V. Non dovrebbero più succedere, purtroppo non sono sicura che non succederanno più.

Testimonianza raccolta da Marino Tarizzo