25 APRILE, il coraggio di respingere l’indifferenza e di sfidare il futuro. – Evviva gli Orsi. – Il pifferaio magico – La legge della stupidità – Tedeschi, germani o crucchi! – Il cinghiale, preda di dei e imperatori… LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

25 APRILE, il coraggio di respingere l’indifferenza e di sfidare il futuro.

Questa data è importante perché ci ricorda la Liberazione della nostra amata Patria dal governo fascista e dall’occupazione nazi-fascista che  hanno rappresentato un momento storico travagliato, il male allo stato puro! Oggi, vogliamo ricordare tutti gli antifascisti: ebrei ed italiani morti per la libertà. Il movimento di liberazione è iniziato da parte dei  giovani: uomini e donne che da  veri patrioti dal 1943 si batterono a costo di tante sacrifici umani per concorrere alla liberazione dell’Italia con il concorso degli Alleati. Fu una lotta di liberazione contro lo straniero e una dolorosa guerra civile in cui i partigiani furono di vitale importanza. Quei giovani, allora, non girarono la faccia dall’altra parte, respinsero l’indifferenza, la rassegnazione ripresero in mano il loro destino e il loro futuro. E’ doveroso ricordare gli scioperi nelle fabbriche del 1943 e del 1944, la resistenza armata alla dittatura nazi fascista sulle montagne e nelle città,  prezioso contributo delle donne e di tutta la popolazione. E’ doveroso ogni anno, ricordare la Resistenza la quale è stata una vicenda straordinaria, forse la più bella e significativa della storia d’Italia; una vicenda che ha colpito anche per la sua complessità, perché la lotta armata si coniugò con la resistenza non armata, nelle sue mille forme e manifestazioni, perché,  per la prima volta nella storia, si trovarono a reagire alla dittatura fascista e poi alla occupazione tedesca, persone di varie ideologie, di varie professioni e mestieri, uomini e donne uniti nella stessa ansia di libertà e di democrazia. In tutta la Resistenza operarono insieme: comunisti, socialisti, cattolici, liberali, monarchici e molti cittadini semplicemente contrari al fascismo e ansiosi di libertà. La Resistenza fu un insieme di atti e di comportamenti, armati e non, diretti a contrastare la prepotenza fascista, a liberare il Paese dalla dittatura e dall’occupazione tedesca, a preparare un futuro di democrazia. La Liberazione fu atto di coraggio come quello dei circa 600.000 militari che, dopo l’8 settembre, rifiutarono di aderire all’invito dei tedeschi e dei repubblichini a collaborare e in effetti, furono trattati, molti, non come prigionieri di guerra, ma come schiavi, alcuni finirono nei lager e la maggior parte non fece più ritorno a casa. Oggi, celebriamo il coraggio dei resistenti di allora, un complesso di azioni e comportamenti a volte anche eroici, la resistenza non armata. Oggi onoriamo tutti coloro che rifiutarono la guerra e contribuirono alla liberazione nei mille modi che la storia ci ricorda: dalle donne che, non solo combatterono con le armi, ma affrontarono il pericolosissimo mestiere di staffetta o furono amorevoli soccorritrici di prigionieri e feriti, dei contadini che spesso aiutarono i partigiani ben sapendo che se li avessero scoperti tedeschi e fascisti li avrebbero fucilati e avrebbero incendiate le loro case; il coraggio dei sacerdoti che cercarono di difendere le popolazioni dalle violenze e dalle  brutalità, pagando spesso con la loro vita. Oggi onoriamo, il coraggio degli scioperanti del 1943 e 1944, consapevoli dei gravi rischi cui andavano incontro. Oggi onoriamo, il coraggio dei  giovani renitenti alla leva, che, al richiamo della R.S.I., si trasformarono in “sbandati” per sottrarsi all’arresto ed alle peggiori conseguenze e, molti finirono poi per aderire alle bande partigiane che intanto si erano formate sulle montagne oppure operavano nelle città. Oggi ricordiamo il coraggio di chi nel 1943 intraprese e condusse la resistenza armata, ben conoscendo i propri limiti di preparazione e di esperienza militare e ben conoscendo l’enorme disparità di mezzi, strumenti ed uomini rispetto ad un esercito attrezzato e organizzato come quello tedesco. Eppure, quei combattenti,  che spesso pagarono il loro coraggio con la morte,  non esitarono ad affrontare i rischi, con la ferma volontà di ottenere la liberazione del Paese, a qualunque costo ed a qualunque prezzo. Carissimi, oggi ricordiamo il coraggio di chi si è battuto ieri per la libertà anche sacrificando la propria vita, ma oggi voglio ricordare che la dittatura fascista  è nata non solo con le grandi adunate da migliaia di persone. È nata dall’indifferenza delle persone che hanno lasciato fare ai fascisti permettendo loro di prendere il potere. Antonio Gramsci affermava di odiare gli indifferenti ed aveva ragione. I fascisti, impauriti dalle sue idee, lo chiusero in un carcere fino alla morte. Oggi, dobbiamo sempre vigilare perché i totalitarismi stanno prendendo piede e fondano le loro fortune sull’indifferenza e sulla sfiducia delle persone verso le istituzioni. Oggi, dobbiamo tutti vigilare e avere fiducia nel futuro condannando sempre la violenza e la prepotenza. Oggi, dobbiamo diffidare di chi vuole alzare i muri, di chi istiga all’odio, di chi cerca di mettere in contrapposizione le persone e cerca di mettere in un ghetto i diversi. Oggi dobbiamo essere attenti al disgustoso rigurgito  di ideologie che hanno solo portato alla rovina la nostra amata patria. Dobbiamo sorvegliare e non essere indifferenti senza illuderci che il ritorno di certe ideologie si sgonfino da sole, purtroppo cento anni fa tanti italiani la pensavano così e poi abbiamo visto come è andata a finire. Oggi i virus di questa società sono l’indifferenza e il negazionismo. Oggi più che mai dobbiamo ricordare ad un Paese smemorato, che troppo spesso preferisce dimenticare o rifiuta di conoscere anziché esserne orgoglioso, come accade, invece, in altri Paesi a riguardo delle pagine più straordinarie della propria storia. Da questa Resistenza nasce non solo un ricordo, ma viene un grande insegnamento, di cui dovremmo fare tesoro: il coraggio delle scelte, degli italiani di allora, armati o non armati, ma con la forza dell’esempio che trascina più di tante parole. Se negli scioperanti, così come in tutti i combattenti per la libertà, gli internati militari, le donne, i contadini, i sacerdoti, ci fosse stato un calcolo sui rischi, la Resistenza non ci sarebbe stata, il nostro Paese si sarebbe coperto di disonore ed a questo avremmo aggiunto il discredito di essere stati liberati da altri. Ma, attenzione, quel coraggio che non è fatto di spregiudicatezza e di sterile ardimento, ma di consapevolezza e di volontà politica, dev’essere per noi un simbolo ed un incitamento. Viviamo in tempi difficili e duri, dopo la pandemia abbiamo una guerra in Europa e l’economia è in crisi con il clima che peggiora di giorno in giorno. Insomma non viviamo in un periodo roseo, ma ne abbiamo viste tante, in questo dopoguerra, dagli attacchi alla Resistenza e alla Costituzione, alle iniziative e manifestazioni neofasciste, ai tentativi di golpe, alle stragi di cittadini inermi, fino al terrorismo. E siamo riusciti a vincere le difficoltà, a superarle con fatica, ma ritrovando ogni volta la solidarietà, la volontà di libertà e di democrazia, l’impegno collettivo. Oggi, nell’affrontare l’ennesima sfida che colpisce intere generazioni e soprattutto i giovani, dobbiamo riferirci a quegli esempi, richiamarci alle scelte ed al coraggio di chi seppe resistere, ai combattenti per la libertà, ai valori che li ispiravano e che poi sono stati trasfusi in una Costituzione molto avanzata, ma troppo esposta ad attacchi, insidie e pericoli. Nelle peggiori difficoltà, nei momenti più difficili, dobbiamo pensare a quegli uomini, a quelle donne che, a partire dal marzo 1943, ebbero il coraggio di riprendere in mano il loro destino e il loro futuro, assumendo le proprie responsabilità e considerando l’impegno civile e l’obiettivo finale superiori di gran lunga ai rischi che potevano correre. In loro nome dobbiamo respingere l’indifferenza, la rassegnazione, la “distrazione” che ancora permea troppi cittadini del nostro Paese e ad esse contrapporre la volontà di riscatto, per uscire dalla degenerazione economica, sociale e politica in cui versa il nostro Paese. Dobbiamo anche ricordare che la Resistenza non è nata solo da una sterile protesta contro i fascisti e i tedeschi, ma è stato coraggioso impegno, sforzo di volontà per compiere scelte decisive e vincenti. Oggi, XXV Aprile, giorno della liberazione dobbiamo celebrare quanto avvenne allora, ma anche sapere guardare al futuro, con il coraggio e il senso di responsabilità di chi si rende conto di avere un grande debito nei confronti di coloro che si sono impegnati per la nostra libertà, e un forte dovere verso quanti, da noi, si aspettano di ricevere sicurezza, libertà, uguaglianza e democrazia. Lo dobbiamo soprattutto ai giovani, che si trovano a vivere in una società ingiusta ed hanno il diritto di aspirare ad un presente e ad un futuro migliore di quello attuale e, infine, più degno di essere vissuto. Concludo con il pubblico invito all’Amministrazione comunale di togliere la cittadinanza onoraria a Mussolini, concessa a suo tempo e di dedicare una via alle staffette partigiane, donne che hanno dato un grandissimo contributo per la liberazione,  pagando molte volte con la loro vita. W l’Italia evviva il XXV Aprile

Favria, 25.04.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita nessuno libera nessuno, nessuno si libera da solo, ci si libera insieme. Felice martedì e buona festa della Liberazione.

Buona giornata. Ogni giorno, in Italia, migliaia di persone sopravvivono grazie a un gesto così semplice ma così importante. Non indugiamo, perché “certe cose” non accadono solo agli altri. Gli “altri” siamo anche noi. Viene a donare il sangue VENERDI’ 5 MAGGIO, cortile interno comune di favria ore 8- 11,20. Avvisa per prenotare. Grazie se fai passa parola

Evviva gli Orsi.

Gli orsi sono fatti della stessa polvere nostra, respirano la stessa aria e bevono la stessa acqua. Le giornate degli orsi sono scaldate dallo stesso sole, la loro esistenza è vissuta sotto lo stesso cielo, la loro vita è regolata dallo stesso battito di vita, alimentata nel nostro stesso pianeta. Gli orsi, come tutte le cose belle, non conoscono confini o nazioni, hanno dato i nomi alle stelle, Orsa Maggiore, Orsa Minore, e dormono con i nostri figli, sotto forma di peluche. L’orsetto che hanno i bambini Teddy Bear deriva da un episodio accaduto al Presidente degli Stati Uniti Theodore Roosevelt, soprannominato “Teddy”, che come passatempo andava a caccia grossa. Nel 1902, durante una battuta di caccia all’orso, Roosevelt si rifiutò di sparare a un esemplare cucciolo di orso bruno. L’orso era stato braccato dai cani, ferito e legato a un albero dagli assistenti del presidente, pronto per essere ucciso. Roosevelt si indignò, dicendo che sparare a un orso in quelle condizioni non sarebbe stato sportivo ma ordinò che l’animale fosse ucciso per non farlo ulteriormente soffrire. La scelta di Roosevelt fu particolarmente apprezzata perché in quella battuta di caccia, come pare accadesse spesso al presidente, lui non riuscì poi ad abbattere nessun orso, tornandosene a casa senza alcun trofeo. La notizia giunse ai quotidiani, che soprannominarono l’orso “Teddy Bear”. Il giorno successivo, il 16 novembre, un disegnatore satirico Berryman, pubblicò sulla prima pagina di un giornale nazionale americano una vignetta che mostrava Roosevelt nell’atto di volgere le spalle all’orsetto legato con un gesto di rifiuto. I lettori si innamorarono dell’orsetto della vignett. Gradualmente, gli orsetti di Berryman divennero sempre più “piccoli, rotondi e carini”, contribuendo a creare lo stereotipo dell’orsacchiotto. Il 29 dicembre, lo stesso Roosevelt scrisse a Berryman dicendo “abbiamo trovato tutti molto gradevoli i suoi disegni di orsetti” e da li divennero popolari nel mondo. Gli orsi non sono nè buoni né cattivi, ma sono animali selvatici, che non attaccano se non provocati. L’orso è più forte e veloce di noi, nuota benissimo, ha udito e olfatto sopraffini. Ma non è aggressivo, men che meno un killer: è persino un po’ miope, ecco perché si alza in piedi, per guardare meglio! Gli orsi abitavano i nostri territori prima di noi, attraversavano boschi e montagne, superavano i fiumi per vivere nella natura allontanandosi sempre di più da ogni forma di rumore e civiltà umana. Ma noi esseri umani siamo più instancabili degli orsi e ogni volta cerchiamo di scacciarli ogni volta dal suo habitat. I veri esseri pericolosi dotati di perfidia siamo noi esseri umani, mi domando se è più pericoloso girare di notte in certi quartieri della grandi città o camminare su strada dove i boschi vicini sono frequentati dagli orsi. Nella nostra civiltà tante favole e storie sono legate all’orso e quasi mai in senso negativo. In Italia la mappa dei toponimi legati all’orso ha due grandi concentrazioni nella Alpi orientali e nell’Appennino, corrispondenti in modo preciso a dove viveva questo grande mammifero. Sebbene gran parte dei toponimi sia neutra si trovano comunque spesso varianti dalla connotazione positiva o negativa, un’eredità della complessa tra gli esseri umani e questo grande carnivoro. I toponimi sugli orsi suggeriscono un’associazione leggermente meno negativa rispetto al lupo. Solo il 9% di essi contiene un esplicito riferimento alla cattura o all’uccisione. Analogamente al lupo, il nome Orsara indica il luogo di caccia agli orsi e ricorre 53 volte in tutta Italia, mentre Mazzalorsa compare 4 volte in Puglia e il peggiorativo Orsaccia solo una volta. È interessante notare che i termini dannosi si riferiscano sempre all’orsa, forse percepita come più pericolosa dei maschi perché le femmine possono diventare molto aggressive nel difendere i loro cuccioli. Solo il 2% dei nomi complessivi, invece, contiene un riferimento ai cuccioli di orso, tutti nell’Italia nord-occidentale, già una volta come adesso purtroppo amore o compassione non erano evidentemente sentimenti molto comuni verso questi animali. La  diffusione dei toponimi legati a orsi  in Italia dimostra il valore culturale di questo grande carnivoro nel nostro Paese, molti cognomi come Orso, Orsino, Ursino, Orsini, Orsato e Urso derivano da questo grande animale. Ricordiamoci che l’orso  è un animale selvatico e fa di mestiere l’Orso.   Noi esseri umani dovremmo, invece, ragionare, anche con un po’ di buon senso. Ricordiamoci  che gli orsi aiutano noi umani a farci sentire umili, e ci aiutano a vedere il mondo dalla giusta prospettiva. Dobbiamo tutelare la natura e i suoi monarchi per noi stessi e per i sogni dei nostri bambini e nipoti bambini. Dovremmo combattere per queste cose, come se la nostra vita dipendesse da ciò, perché è così.

Favria,  26.04.2023   Giorgio Cortese

Buona giornata. Soltanto una vita vissuta per gli altri è una vita che vale la penna di vivere. Felice mercoledì.

Esiste dentro di noi la gioia di aiutare. Basta ascoltarla. Lo scopo della vita di noi essere umani è quello di accendere una luce di speranza nei nostri simili anche donando il sangue. Ti aspettiamo a FAVRIA VENERDI’ 5 MAGGIO  2023, cortile interno del Comune dalle ore 8 alle ore 11,20. Abbiamo bisogno anche di Te. Dona il sangue, dona la vita! Attenzione, per evitare assembramenti è necessario sempre prenotare la vostra donazione. Portare sempre dietro documento identità. a Grazie per la vostra collaborazione. Cell.  3331714827- grazie se fate passa parole e divulgate il messaggio

Il pifferaio magico

È una favola che non inizia con il canonico “c’era una volta” e non è ambientata in un “reame lontano”, ma in un luogo reale e in un tempo preciso. Non ci sono streghe, né draghi o orchi, neanche fate o lupi cattivi. Una favola che ancora oggi incuriosisce filologi e letterati per la dovizia di particolari e la trama così diversa dalla tradizione favolistica: “Il pifferaio magico”. Dove, in questo racconto dagli oscuri significati, termina l’immaginazione e comincia la realtà? Come andarono realmente le cose? Chi era il misterioso pifferaio? Che fine fecero i bambini che incantò con il suo flauto? Perché il racconto originale parlava di bambini, che solo in una versione successiva furono sostituiti dai topi. Sono risposte da cercare in un viaggio a ritroso nel tempo, in quel Medioevo lontano e misterioso in cui le piaghe sociali si susseguivano: epidemie, pedofilia, miseria e immigrazione: mostri peggiori dei draghi, delle streghe e degli orchi.  La versione più diffusa del pifferaio magico cominciò a circolare poco tempo dopo i fatti narrati, con molti particolari e persino date, a differenza di altre favole famose. A renderla immortale furono poi i fratelli Grimm, ma anche altri autori come Robert Browning e Johann Wolfgang von Goethe scrissero del misterioso pifferaio. L’invasione dei topi di Hamelin Tutto iniziò nell’anno 1284, per alcune versioni nel 1316, quando la città di Hamelin, nella Bassa Sassonia, Germania, si ritrovò invasa dai topi. La popolazione provò ogni genere di rimedio, ma i topi aumentavano a dismisura, spuntando da ogni casa, fienile, bottega e mulino, consumando scorte e portando infezioni. Un giorno, nella cittadina arrivò un pifferaio dall’aspetto bizzarro, con un alto capello e vestito con un abito multicolore. Costui promise al borgomastro di liberare Hamelin dai topi in cambio di un adeguato compenso di ben 1.000 piastre d’argento. Dopo aver ottenuto l’assenso alla sua richiesta, l’uomo prese il suo piffero e iniziò a suonare. Subito, attirati dalle sue note, i topi uscirono dai loro anfratti e presero a seguirlo, sempre più numerosi, a frotte. Con quel seguito nero e peloso, il pifferaio uscì di città e arrivò fino al fiume Weser, dove i topi, come ipnotizzati dal suo flauto, si buttarono tutti in acqua, annegando. La popolazione di Hamelin esultò e festeggiò la liberazione dai ratti. A parte sorrisi e ringraziamenti, però, il pifferaio non ricevette alcun compenso perché nessuno volle versare la sua quota al borgomastro che aveva promesso la ricompensa. L’uomo lasciò la città, scuro in volto e rimuginando propositi di vendetta. Trascorse qualche giorno e venne la festività dei Santi Pietro e Paolo, giorno in cui gli adulti si recarono in chiesa per la cerimonia religiosa, e fu in quella occasione che riapparve il pifferaio, o secondo altre versioni fu all’alba, quando tutti dormivano. Questa volta indossava un abito verde e percorreva le vie della città suonando il piffero. Dietro di lui, questa volta, camminavano i bambini, ammaliati da quelle note: una fila sempre più numerosa di bambini. Tutti i bambini di Hamelin, 130, seguivano il pifferaio danzando finché questi non si fermò davanti all’antro di una caverna, dove entrarono tutti, a parte tre, prima che la caverna si chiudesse alle loro spalle. I tre piccoli che si salvarono, uno zoppo, uno cieco e uno sordo, che essendosi attardati non avevano raggiunto in tempo la grotta, in un’altra versione a salvarsi fu solo il bambino zoppo,  rientrarono in città per raccontare ciò che era accaduto, gettando l’intero villaggio nella disperazione. Così termina la favola. Ma è davvero solo un racconto per bambini insonni? O invece, come ritengono diversi studiosi, potrebbe trattarsi di un fatto di cronaca romanzato e tramandato di generazione in generazione? Questa ipotesi sarebbe confermata da tracce concrete rimaste nel corso dei secoli? “Nell’anno 1556, 272 anni dopo che il mago condusse 130 bambini fuori della città, questa porta fu eretta”. Così recita l’iscrizione su una pietra della vecchia porta di Hamelin, oggi conservata nel museo cittadino. Molte altre incisioni, riferite alla favola del pifferaio magico, sono disseminate su antichi palazzi e monumenti di quella città. Ancora oggi, poi, è in vigore una sorta di consuetudine che vieta di suonare e cantare in una vecchia stradina di Hamelin. La più antica testimonianza dei fatti narrati nella favola risale al XIV secolo e si trovava sulla vetrata di una vecchia chiesa di Hamelin, distrutta intorno al 1600. Esiste però un acquerello del 1592 che raffigura la vetrata: rappresenta l’immagine di un uomo in abiti colorati e circondato da bambini vestiti di bianco. Il primo testo scritto che cita la leggenda del pifferaio risale al 1384 e parla del luogo in cui sarebbero stati portati i bambini, che gli studiosi pensano possa trattarsi dell’odierna cittadina di Coppenbrugge, nella Bassa Sassonia. Testo che conferma anche la data in cui sarebbero accaduti i fatti narrati dalla favola, ossia il 26 Giugno del 1284.  Si tratta di un’allegoria che  rappresentava la peste? Ma se davvero, come molti filologi ritengono, dietro quel racconto ci sia un fatto di cronaca avvenuto in una data precisa, ancora oggi non è chiaro di quale tragico evento possa essere stato protagonista il misterioso pifferaio comparso e scomparso lasciando dietro di sé lutti e disperazione. Per alcuni potrebbe trattarsi della peste, trasmessa proprio dalle pulci dei topi. Nel Medioevo, la peste era un incubo che non risparmiava nessuno, nemmeno i bambini. Va però considerato che la grande epidemia di peste colpì l’Europa nel 1348, quindi più di mezzo secolo dopo quel 1284 in cui è ambientata la favola. L’ipotesi della peste resterebbe però in piedi se, come ritengono alcuni studiosi, la data riportata dalla favola sarebbe di comodo. Un falso dovuto alla superstizione del Medioevo, quando riferire la data precisa dell’epidemia poteva non solo “chiamare” la peste, ma portare all’accusa di untore. Secondo altri, invece, il pifferaio rappresenterebbe i monatti, quelle figure incaricate di portare i morti fuori dalla città, munite di flauti e con vestiti sgargianti in modo da essere riconosciuti ed evitati dalla popolazione per evitare il contagio. Altri invece ritengono che il pifferaio in realtà simboleggiasse la stessa morte per peste, giunta in città a portare via i bambini: in tal caso il ballo dei piccoli nel seguire il pifferaio sarebbe l’allegoria della celebre “danza macabra”, la raffigurazione della danza tra uomini e scheletri durante la peste nera, simbolo della morte che colpisce ogni ceto sociale. Ma neanche l’ipotesi della peste convince appieno, perché i topi, che sarebbero la causa principale della peste, compaiono in seguito, non prima del 1565. Come se fossero stati aggiunti successivamente, per attribuire alla favola una morale, quella di mantenere le promesse e pagare i debiti. In ragione di questo cambiamento sono state così avanzate molte altre teorie. Qualcuno ritiene che i bambini siano morti dopo essere stati arruolati in qualche tragica avventura, forse addirittura la tristemente nota crociata dei fanciulli del 1212. Altri, basandosi sul fatto che nella favola i bambini danzassero nel seguire il pifferaio, sostengono invece che tutto abbia avuto origine da un’epidemia del morbo di Sydenham, conosciuto anche come “Ballo di San Vito”. Si tratta di una malattia caratterizzata da contrazioni, spasmi e movimenti involontari, che colpisce soprattutto i ragazzi tra i 5 e i 15 anni. Altri ancora pensano che la favola nasconda un episodio di pedofilia, con protagonista un barone della regione che avrebbe fatto sparire un gran numero di bambini. A queste teorie si aggiunge un’altra ipotesi, basata su fatti storici, cioè la colonizzazione di nuove terre nell’Europa dell’est, che avrebbe coinvolto soprattutto i giovanissimi. Infatti, nella seconda metà del XIII secolo il vescovo Bruno di Olmutz si impegnò attivamente nella costruzione di borghi e villaggi in Moravia, attuale Repubblica Ceca, in Polonia e nelle zone Baltiche, da poco conquistate dai tedeschi. Ad avvalorare questa ipotesi ci sarebbe il grande aumento demografico registratosi in quei territori fra XIII-XIV secolo. L’ipotesi della migrazione è sostenuta da un gruppo di docenti di onomastica dell’università di Lipsia: essi affermano che il vescovo di Olmutz avrebbe incaricato alcuni uomini di reclutare giovani coloni, per colonizzare le nuove terre a Est. Tutto ciò sarebbe provato da alcuni documenti, secondo i quali Hamelin nella seconda metà del XIII secolo soffriva di un drammatico sovrappopolamento. Inoltre, diversi villaggi e cittadine ubicate nell’Est della Germania presentano ancora oggi cognomi e toponimi uguali a quelli diffusi nella regione di Hamelin. Se l’ipotesi della migrazione fosse valida, il pifferaio della favola non solo rappresenterebbe quei reclutatori di giovani coloni, ma avrebbe anche caratteristiche positive: infatti, nel Medioevo la sovrappopolazione era  spesso un dramma per i piccoli centri e chi liberava da questo flagello era visto come un benefattore. E se la verità fosse un’altra ancora? Se la figura del pifferaio non fosse un’allegoria, ma celasse l’identità di un personaggio davvero esistito? È ciò che emerge da un saggio di Walter Isaacs del 1912, dove si cita l’esistenza di un pittore e musicista girovago del XII secolo: Jacob Kreutzer. Il quale aveva fama di straordinario ritrattista, al punto da essere molto richiesto dalle facoltose famiglie. Kreutzer, però, aveva una particolarità alquanto singolare, per non dire inquietante: non chiedeva mai compensi in denaro per i suoi lavori. I committenti dovevano dargli in cambio tre bambini dai dieci anni in giù. I piccoli erano spesso trovatelli, o comprati in famiglie poverissime dai ricchi clienti di Kreutzer. L’aspetto più inquietante, che richiama in modo macabro la favola del pifferaio magico, riguarda la melodia che il pittore suonava col suo flauto mentre era seguito dai bambini che gli erano stati affidati. Sulla personalità di questo misterioso pittore sono state fatte varie ipotesi: un “mostro” come Gilles de Rais? Un  bieco commerciante di schiavi? Un uomo incaricato di fornire bambini a famiglie nobili senza discendenti? Un iniziato di qualche setta sacrificale? O forse una figura mai esistita a cui il Medioevo ha attribuito un’aura magica, come il celebre dottor Faust o il Mago Merlino. Walter Isaacs era comunque era convinto che fu proprio Jacob Kreutzer a ispirare il misterioso pifferaio di Hamelin. Dopo tanti secoli, nella città attuale Hamelin tutto ancora parla del pifferaio magico, con strade, piazze, alberghi e negozi, che rievocano ogni domenica l’antica favola che non smette di esercitare il suo fascino sinistro e che ha dato fama imperitura alla vivace località di 60.000 abitanti situata nella Bassa Sassonia. Secondo una versione alternativa, la favola del pifferaio magico avrebbe un lieto fine, con l’uomo che, pagato dai cittadini di Hamelin, restituisce i bambini alla città. Vi è tuttavia anche un finale differente e meno conosciuto: il pifferaio e i bambini, dopo essere entrati nella caverna, avrebbero camminato a lungo sottoterra, sbucando infine in Transilvania. Questa versione deriverebbe dall’esistenza di una comunità sassone nei Carpazi, risalente ai decenni successivi all’invasione mongola dell’Est Europa (XIII secolo). Coloni tedeschi furono incoraggiati dai re ungheresi a raggiungere l’Est, dopo lo spopolamento per le guerre mongole. I sassoni di Transilvania abitarono questi luoghi per molti secoli, prima come sudditi dell’Ungheria, poi dell’Austria, fino alla Seconda guerra mondiale con il ritorno in Germania, dopo l’annessione di quelle terre alla Romania. Davvero la favola del pifferaio magico sarebbe l’allegoria di questa colonizzazione tedesca nei Carpazi? In realtà, molti filologi sono scettici, in quanto il finale alternativo della favola riguardante la Transilvania sarebbe frutto di tradizioni molto successive al racconto.

Favria,  27.04.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita le piccole opportunità sono spesso l’inizio di grandi imprese. Felice giovedì.

La legge della stupidità

Recentemente ho riletto “Le leggi fondamentali della stupidità umana”, di Carlo M. Cipolla. L’opera, apparsa per la prima volta nel 1976, sembra diventare sempre più attuale. Il merito non è tanto dell’autore, peraltro ammirevole, quanto dell’argomento: la stupidità sta conoscendo un momento di grande splendore. Soprattutto grazie ai social, che hanno convinto molti stupidi di essere menti brillanti, e di dover condividere il proprio genio. Ma andiamo con ordine. Carlo M. Cipolla, vissuto tra il 1922 e il 2000, è stato un importante storico dell’economia, ha insegnato a Berkeley in California, alla Normale di Pisa, a Firenze, Venezia, Torino e nella sua città, Pavia. Il libretto originale è apparso in inglese: “The Basic Laws of Human Stupidity”. Nell’introduzione, parlando degli stupidi, l’autore scriveva, con rassegnata ammirazione: “Si tratta di un gruppo non organizzato, non facente parte di alcun ordinamento, che non ha capo, né presidente, né statuto, ma che riesce tuttavia a operare in perfetta sintonia, come se fosse guidato da una mano invisibile”. Quali leggi fondamentali regolano quest’affascinante manifestazione dello spirito umano? La prima: “Sempre e inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero di stupidi in circolazione”. Voi potreste obiettare: alcuni leader politici sono consapevoli del numero di stupidi in circolazione, ma hanno interesse elettorale a sfruttarli. Certo. Ma, così facendo,  anneggiano la democrazia, si qualificano come stupidi e vanno ad aumentare il numero totale. Seconda legge della stupidità. “Le
probabilità che una persona sia stupida è indipendente da qualsiasi altra caratteristica della stessa persona”. Verissimo. Ci sono professionisti, artisti e sportivi di talento che, quando meno te l’aspetti, fanno qualcosa di stupido. Un esempio recente? Gli sberleffi in mondovisione dei giocatori argentini verso gli olandesi appena sconfitti ai rigori, nei quarti di finale in Qatar. Le leggi della stupidità sono cinque, vi lascio scoprire le altre da soli e magare da regalare ad un persona stupida, tanto penserà che si parli di qualcun altro.

Favria,  28.04.023  Giorgio Cortese

Buona giornata. La vita sicuramente non è facile per nessuno, ma possiamo renderla meno difficile se continuiamo a coltivare i nostri sogni. Felice venerdì.

Tedeschi, germani o crucchi!

Nella lingua italiana, gli abitanti della Germania, diversamente da altri popoli, non prendono il nome dalla località in cui abitano, come ad esempio francesi e spagnoli. Il termine “tedesco” deriva dal germanico antico theod che vuol dire “popolo”. Questo termine divenne poi in latino thiodisk e theodiscus in epoca medievale, indicando non il popolo germanico ma la lingua volgare parlata dai Germani che vivevano nei territori compresi tra Reno, Danubio e Mar Baltico. La parola apparve per la prima volta nel 786 in alcuni documenti. In quei luoghi vi erano principalmente due lingue: il latino e il theodiscus, parlato il primo dalla nobiltà e dal clero, il secondo dal resto della popolazione. Nel corso dei secoli il termine si trasformò poi nell’italiano “tedesco”, con riferimento prima all’idioma del popolo e poi a coloro che lo parlavano. L’origine invece del termine dispregiativo “crucco” per indicare i tedeschi, ebbe origine in guerra. Nacque probabilmente durante il primo conflitto mondiale, quando i prigionieri austroungarici di origine slave, gridavano “Kruh”, che in croato significa “pane” e per questo furono soprannominati “crucchi”. Solo nella Seconda guerra mondiale il termine sprezzante fu affibbiato ai soldati tedeschi dagli italiani, prima da quelli che combattevano in Russia, poi dai partigiani.

Favria, 29.04.2023  Giorgio Cortese

Le grandi persone mostrano la loro grandezza dal modo con cui trattano gli altri, i meschini beh, lasciamo perdere. Felice sabato

Il cinghiale, preda di dei e imperatori

Temuti per la loro ferocia e per i danni che provocavano nelle campagne, i cinghiali divennero per gli antichi romani un ambito trofeo di caccia. Un mito greco racconta che Artemide mandò un cinghiale mostruoso a devastare la città di Calidone, in Etolia. La vendicativa divinità della caccia voleva punire la negligenza del re Eneo, che aveva dimenticato di fare un sacrificio in suo onore. Diversi eroi tentarono di uccidere la belva, ma a riuscirci fu solo l’abile cacciatrice Atalanta con l’aiuto di Meleagro, figlio dello smemorato sovrano. Nella mitologia classica ci sono molte altre storie che hanno dei cinghiali per protagonisti. Erodoto, per esempio, racconta di un cinghiale che imperversava nelle campagne della Lidia. Per fermarlo,  Creso inviò suo figlio Atis, che secondo un sogno profetico del sovrano sarebbe stato ucciso da una punta di ferro. Creso lasciò andare tranquillamente il figlio a caccia, sicuro che le zanne del cinghiale non avrebbero potuto nuocergli. Ma uno degli altri partecipanti alla battuta, cercando di colpire l’animale con la sua lancia, trafisse per errore Atis e lo uccise, avverando così il sogno del monarca. Queste storie evidenziano l’importanza del cinghiale nell’immaginario collettivo dell’antichità. A quel tempo le colonie di cinghiali erano molto numerose e si muovevano liberamente, portando scompiglio ovunque andassero. I cinghiali possono essere animali aggressivi e pericolosi: i maschi raggiungono lunghezze anche superiori a 1,60 metri e pesano fino a novanta chili. Hanno le zanne affilate e non esitano a caricare quando si sentono in pericolo, investendo tutto ciò che si trova sul loro cammino. Per questo nelle comunità rurali la caccia al cinghiale era considerata sia un mezzo di difesa, sia un modo di procurarsi del cibo. Ma era anche un’opportunità per dimostrare forza e coraggio, le qualità virili per antonomasia. Questo spiega perché molti imperatori romani ci tenevano a partecipare personalmente alla caccia al cinghiale. In alcune immagini si può vedere Augusto intento a trafiggerne uno. Marco Aurelio cacciava volentieri questi suini selvatici, e Diocleziano amava ripetere: «Io non faccio che ammazzare cinghiali, ma la carne se la mangiano gli altri». Per cacciare i cinghiali si formavano squadre composte da uomini e cani. Secondo Oppiano, bisognava stare molto attenti alle zanne di questi animali perché si diceva che contenessero fuoco: toccandole, si rischiava di riportare gravi ustioni, anche se l’animale era già morto. Una volta abbattuto, il cinghiale veniva trasportato da due persone, legato a un tronco: un’immagine che si ritrova in molti mosaici che raffigurano scene di caccia. Il suino selvatico veniva consumato in banchetti come quello descritto nel Satyricon di Petronio, in cui il ricco liberto Trimalcione offre ai suoi ospiti una femmina di cinghiale con un succulento contorno e con dei «cinghialetti di pasta dura» appesi alle mammelle, quasi che stesse allattando. Probabilmente la carne dell’animale si poteva trovare con facilità nelle macellerie, anche se non era economica. Si può immaginare che i romani delle classi agiate apprezzassero particolarmente le salsicce e i prosciutti di suino selvatico. Si sa che il cinghiale era la carne preferita degli imperatori Caracalla, Massimino e Aureliano. I cinghiali erano usati anche negli spettacoli circensi. In questi casi venivano catturati con delle reti e tenuti in vita fino al momento in cui erano costretti a comparire in scena. Nell’arena si battevano contro orsi e cacciatori addestrati. Alcuni di loro finirono per conquistare l’affetto del pubblico, che gli dava soprannomi come Polinice o Solone. Tito Calpurnio Siculo, in epoca neroniana, usò dei cinghiali africani in uno spettacolo simile. Per i decennalia di Settimio Severo ne furono cacciati sessanta e Probo ne fece liberare mille nel circo, insieme a molti altri animali, per celebrare la sua vittoria contro i germani e i blemmi. Marziale racconta che, durante i giochi di apertura del Colosseo nell’80 d.C., una lancia trafisse “la femmina gravida di un cinghiale» e un piccolo balzò fuori «dalla ferita della sventurata madre”. Il cinghiale era parte integrante della vita quotidiana dell’antichità, nel ruolo di vittima dell’attività venatoria, di divertimento nei giochi o di prelibatezza in tavola. Simbolo di coraggio, era onorato anche dai legionari che lo raffiguravano sui loro emblemi, come quello della legio XX Valeria Victrix

Favria, 30.04.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno apriamo il nostro animo alla gioia, non rimaniamo prigionieri dell’invidia. Felice domenica

Buona giornata. Ogni giorno, in Italia, migliaia di persone sopravvivono grazie a un gesto così semplice ma così importante. Non indugiamo, perché “certe cose” non accadono solo agli altri. Gli “altri” siamo anche noi. Viene a donare il sangue VENERDI’ 5 MAGGIO, cortile interno comune di favria ore 8- 11,20. Avvisa per prenotare. Grazie se fai passa parola