Auguri. – La piemontese acqua di Cologna. – Pellegrino e peregrino. – La presa di Vattelapesca. – La Festa della dodicesima notte. – La Befana vien di notte. – Fesse brusè ij eui con le siole ‘dij’aotri – Ciana e indovinalo grillo. – Alba invernale… LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Auguri. Erano diverse settimane che volevo farlo. Sedermi con calma al tavolo che chiamo impropriamente

scrivania e scrivere di questi giorni, per condividere con voi il mio desiderio di cominciare l’anno. Di voltare pagina, in un certo senso. Come succede ogni volta ogni 1 gennaio. Il 2023 è iniziato mentre sto scrivendo. E spero che non vi dispiacerà se questa lettera di inizio anno sarà più personale del solito, perché sono davvero diversi giorni che sto pensando di scriverla, e volevo farlo con la calma che amo faccia parte di me. Quello che voglio scrivere è di non fare inutili promesse di buoni propositi, ma prendere coscienza del cambiamento che voglio essere. Ritengo che devo provare da oggi ad agire, in silenzio con calma ma consapevolmente. Da oggi ho una pagina bianca tutta da riempire. Ha in sé il bello dell’intonso, del nuovo, delle mille possibilità che si dispiegano davanti quando ho la sensazione di avere tempo. Quella percezione che pervade tutta la vita quando avevo vent’anni, e che quasi alla soglia dei sessantacinque deve fare i conti con una congiunzione necessaria. Quello che è stato, che ben conosco e che non posso più modificare, e quello che sarà, che non conosco ancora e che ho il desiderio di poter pianificare. Ogni volta che termina un anno e ne inizia uno nuovo mi pervade una briciola di nostalgia per tutte quelle cose che avrei voluto fare, e che non ho fatto. Capita anche a voi? Ma poi c’è il buon proposito di “fare di più” o “fare meglio” e tutto sembra possibile. In realtà più che un proposito, mi piace che sia un progetto. E nei miei c’è sempre una cosa al primo posto. Vivere ogni istante del mio anno avendone piena consapevolezza. Non sono perfetto, questo ne sono consapevole, tuttavia amo il bello, la lentezza, la concretezza delle cose fatte per viverle davvero, e non semplicemente per dire che le ho fatte, guardandole in una fotografia sui social.
Favria, 1.01.2023 Giorgio  Cortese

Buona giornata. Ogni giorno non conta la destinazione, ma il viaggio.  Auguro a tutti di  godersi ogni giorno di questa avventura chiamata “vita”. Felice domenica e anno nuovo!

La piemontese acqua di Cologna.

Forse pochi sanno che l’acqua di Cologna, in francese ed inglese “eau de Cologne”in spagnolo”, agua de Colonia ed in tedesco “Kolnisches Wasser”, noto profumo, consistente in una soluzione alcoolica di olî essenziali: di bergamotto, di lavanda, di garofani, di rosmarino, di origano, di fiori d’arancio, di limone è di origine piemontese, meglio di Domodossola. L’origine dell’acqua di Colonia è legata al nome di Giovanni Maria Farina, nato a Santa Maria Maggiore nel 1685, il quale, stabilitosi a Colonia, vi fondò col cognato un negozio di merci varie, fra cui prese un posto notevole e poi esclusivo l’aqua admirabilis.  L’acqua di Colonia, adoperata allora soprattutto come medicinale, si divulgò rapidamente. Risale al 1742 il nome francese di eau de Cologne, da cui il russo odekolonj. Se il Farina stesso abbia inventato la ricetta o se l’abbia ricevuta da altri, non è ben certo. Secondo una leggenda, gliel’avrebbe data un ufficiale inglese reduce dalle Indie. Ma documenti antichi conservati a S. Maria Maggiore (Domodossola) additano come probabile inventore di essa Gian Paolo Feminis, del fu Gian Antonio, nato a Crana verso il 1670, merciaio ambulante. Ai lauti guadagni della sua invenzione il Feminis fece partecipare il paese nativo; morendo, egli avrebbe lasciato la ricetta a un Giovanni Antonio Farina, di cui nulla si sa, e da quest’ultimo essa sarebbe passata a Giovanni Maria Farina. Morendo celibe nel 1766, Giovanni Maria Farina lasciò erede l’omonimo nipote e figlioccio, da cui discendono i Farina gegenüber dem JülichsPlatz, che hanno ereditato il segreto di fabbricazione e difendono accanitamente il loro diritto contro gl’innumerevoli contraffattori. (Nel 1794 v’erano a Colonia 15 ditte che fabbricavano acqua di Colonia, di cui 4 col nome di Farina; nel 1865 le ditte Farina erano ben 39!).

Favria, 2.01.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita quotidiana la paura del peggio è più forte del nostro desiderio del meglio.  Felice Lunedì.

Vivi con quelli che possono renderti migliore e che tu puoi rendere migliori. C’è un vantaggio reciproco, viva la vita se doni la vita. Ti aspettiamo  a FAVRIA  MERCOLEDI’ 18 GENNAIO  2023, cortile interno del Comune dalle ore 8 alle ore 11,20. Abbiamo bisogno anche di Te. Dona il sangue, dona la vita! Attenzione, per evitare assembramenti è necessario sempre prenotare la vostra donazione. Portare sempre dietro documento identità. a Grazie per la vostra collaborazione. Cell.  3331714827- grazie se fate passa parole e divulgate il messaggio

Pellegrino e peregrino.

La parola pellegrino significa straniero, una persona errante o chi compie  un viaggio in luoghi sacri, Il lemma deriva dalla parola latina peregrinus straniero, composto di per al di là ager campo. Anticamente per i latini indicava una persona che vagava al di la dei loro campi, uno straniero, presumibilmente un viaggiatore umile. Forse viaggiava per cercare fortuna o  per giungere a qualche santuario. Nell’Antica Roma peregrinus era anche un termine tecnico per indicare un cittadino di uno Stato alleato con Roma, e protetto da foedus o hospitium. Questa prerogativa in età imperiale  venne estesa a qualsiasi cittadino libero non romano, latino e italico. Oggi di pellegrini in cammino non ce ne sono più, e allora è pellegrino un cuore o un sogno che non trova asilo. Diversa la parola peregrino, parola sorella di pellegrino. Il lemma peregrino è stato recuperato dal latino nel Trecento, secondo altri nel Cinquecento  e mentre il pellegrino descrive il viandante, il lemma peregrino è un aggettivo con un significato piuttosto sottile. Oggi il si dice peregrino per indicare il singolare, il bizzarro. Ad una domanda pungente può fare nascere un’idea peregrina e audace, proprio come una persona che arriva da lontano con una borsa carica di bizzarrie. La nostra vita è un continuo pellegrinaggio un cammino nient’altro che io verso me stesso.

Favria, 3.01.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. Se vogliamo sapere come saremo domani, osserviamo i nostri pensi di oggi. Felice martedì.

La presa di Vattelapesca.

La locuzione Vattelapesca che sta per vattelo a pescare è una espressione frequente nell’uso familiare che esprime incertezza ed equivale all’avverbio chissà, ma anche alla proposizione và a trovarlo, a indivinarlo oppure và a saperlo, modo di dire che abbiamo sentinto e usato. Probabilmente nata in Toscana tra il XVIII e il XIX secolo, la sua prima attestazione risale al 1850, in un testo di Giuseppe Giusti. Costrutti simili si trovano però sino dall’antichità,  il poeta romano Terenzio infatti scriveva “abi cito ac suspende te”, frase aulica  che tradotta in italiano vuole dire in maniera poco elegante, vai ad impiccarti. L’etimologia di Vattelapesca  ci parla di pescare, ma non ha a che fare  con i pesci ma è sinonimo di  trovare, scovare. Infatti, si suole dire dove sarà? Vattelapesca, per intendere scoprilo e trovalo se ci riesci.  Se ci pensiamo bene la pesca è un’attività  aleatoria per antonomasia, la pesca di beneficenza è letteralmente una lotteria, che si confronta non con una realtà sicura come una caccia, ma con un impenetrabile specchio d’acqua infrugabile, davanti a cui si può solo brancolare con una lenza, senza sapere che cosa verrà su. Espressioni simili si trovano anche in altre lingue: in tedesco ad esempio si usa dire weiss del kukuck, ovvero lo sa il cucù, mentre in inglese si dice goodness knows, che è simile al nostro solo Dio lo sa.   Ho scritto su Vattelapesca per collegarmi ad un episodio veramente avvenuto nel 1917 dopo la disfatta di Caporetto, episodio letto su una vecchia Domenica del Corriere recentemente acquistata. Ad un Alpino interbato, un austriaco annunziava i successi dell’impoero asburgico per fiaccargli il morale: “Oggi è caduta Udine!…”. “I nostri aviatori hanno distrutto e vresa al suolo Venezia”. Il giorno dopo gli disse che le truppe  austroungariche erano entrate vittoriose  a Verona e Milano stava per cadere…” E così di seguito altre notizie catastrofiche per l’esercito italiano. L’alpino prigioniero tentennava nel morale e il timore ed il dubbio si facevano strada nel suo animo, quando alfine gli balenò una buona ideale che poteva sincerarlo sulle verità delle affermazioni dell’austriaco. L’Alpino gli chiese: “E Vattelapesca è caduta?” l’austriaco gli rispose senza tentennamento: “Si anche quel paese è sotto il saldo possesso delle vittoriose armate imperiali!”. Da quel giorno l’Alpino prigioniero dormì tranquillo sulle sorti della Patria.  Una curiosità finale in Corsica,  Bastia, Vattelapesca non è un luogo fittizio ma una via il perché del toponimo mah, vattelapesca!

Favria, 4.01.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. Se vogliamo sapere come sarai domani, osserva i tuoi pensieri di oggi. Felice mercoledì. 

La Festa della dodicesima notte

La festa dell’Epifania anticamente era una festa romana agreste legata ai cicli stagionali e dedicata alla Dea Diana, dea lunare della vegetazione. Per sapere quando sarebbe passata la vecchia signora bisognava partire dal 25 dicembre e contare 12 giorni, la strega sarebbe arrivata la dodicesima notte. In realtà la dodicesima notte era una tradizione dei popoli nordici le cui feste invernali iniziavano il giorno del solstizio d’inverno; arrivata la dodicesima notte,  che non corrispondeva al 6 gennaio, si celebrava la morte e il ritorno della natura. La dodicesima notte fu un assorbimento cristiano che decise di considerare i dodici giorni a partire dal Natale, mutando il significato originario in chiave cristiana. Nelle antiche credenze si pensava che nella dodicesima notte la Dea lunare Diana volasse insieme ad altre donne per i campi per rendere fertile la terra. Questo fatto era normale considerando che questi 12 giorni erano decisivi per la semina.  La terra  era ormai rinsecchita e pronta a morire, ma sarebbe rinata proprio come la luna presieduta da Diana che rinasceva ogni mese nel suo ciclo vita/morte. Quest’usanza come altre non piacquero alle istituzioni ecclesiastiche che iniziarono le persecuzioni. La prima dea ad essere mistificata fu dunque la Dea Diana.  Iniziò Reginone di PrUm, un abate che intorno all’800 scrisse il Canon episcopi. Questo testo doveva essere un`istruzione per i vescovi da adottare contro le donne che avessero pregato la dea Diana. Il culto di Diana, che rappresentava la luna che rinasce, era connesso al culto agreste dei romani in qualità di dea della fertilità. Nel contesto agreste la vecchia vestita di stracci rappresentava infatti madre terra che ormai stanca di tutte le energie elargite durante l’intero anno, giungeva in inverno, per morire e rinascere in primavera. Con i suoi simboli neri e luttuosi, vecchia e rinsecchita come un’anziana saggia era pronta a soccombere. Prima di perire però passava nei campi per distribuire i doni per il nuovo anno, come i semi che sarebbero serviti per i nuovi raccolti.  L’uso di regalare il carbone ai bambini cattivi è solo un’estrapolazione cristiana in quanto erano i popoli celti che per tradizione si scambiavano pezzetti di carbone come segno augurale di un anno fortunato. Fu la Chiesa a trasformare il carbone in una punizione per i bambini cattivi. La cenere e il carbone infatti erano prodotti ignei estremamente simbolici e importanti per i celti poiché venivano custoditi nel grembo della madre terra dove si nascondeva il sole pronto a risorgere con una nuova alba primaverile. La notte e il buio infine erano indicativi del lungo inverno in cui sarebbe giunta la vecchia madreterra ormai stanca. I doni alimentari erano originariamente costituiti da frutta secca, noci, nocciole, legumi secchi e castagne erano i doni che sarebbero stati donati da madre natura per l’anno appena entrato. Raccolti da donne e bambini erano una garanzia di sopravvivenza per superare l’inverno. La calza, lavoro delle donne, ebbe origine da alcune divinità femminili pagane, a cui spettava governare il passaggio dall’anno vecchio al nuovo. In particolare dalla ninfa Egeria il cui simbolo era proprio la calza. Pare infatti che i romani appendessero una calza nella grotta della dea che sarebbe stata riempita di doni alimentari, profezie e buoni auspici. Essendo inoltre la calza un oggetto legato ai piedi, è interessante l’interpretazione simbolica del cammino appena fatto nell’anno ormai trascorso. Si può concludere dunque che la vecchia befana non sia altro che un’immagine derivata dalla fusione di antichi riti pagani e simbologie cristiano-cattoliche. 

Ma piú di ogni altra cosa la vecchia strega sulla scopa ci ricorda la natura femminile di madre terra che arrivata alla fine del suo ciclo, sotto le sembianze di una vecchia ormai logora, è ormai pronta a morire per rinascere in un nuovo anno e in un nuovo florido ciclo stagionale. Per queste ragioni ed altre, la vecchia strega non è affatto da temere, quello che è da temere è solo l’ignoranza delle cose. Conoscendo le peripezie storiche di questa tradizione e approfondendo il passato, certe figure come la dea Diana o la madreterra non possono che destare ammirazione.

Favria, 5.01.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita quotidiana se non decidiamo noi su cosa fare, qualcuno altro deciderà per noi. Felice giovedì.

La Befana vien di notte.

La Befana è una festa tutta italiana, legata agli antichi riti del raccolto e del passaggio dall’anno vecchio a quello nuovo. Un personaggio tipico del nostro folclore, probabilmente risalente ai riti propiziatori pagani del X-IV secolo a.C., successivamente ereditati e diffusi dai Romani. In Piemonte, è una festa molto sentita e ricca di tradizioni locali. Il 6 gennaio è la data che conclude ufficialmente le festività natalizie e, in molti casi, dà inizio alle celebrazioni del Carnevale, un periodo decisamente più allegro e gioioso. L’etimologia del termine Befana, secondo alcune teorie, deriverebbe da una corruzione del termine greco Epifania, ovvero “manifestazione”, in bifanìa e befanìa. Si credeva che, nelle dodici notti successive al solstizio d’inverno, misteriose figure femminili sorvolassero i campi ancora a riposo per propiziarne i futuri raccolti. Queste “donne volanti”, da cui sarebbe nato il mito della scopa, simbolo di pulizia e rinascita, erano guidate da Diana, dea della caccia e della vegetazione, e da Satia, una divinità minore a cui si riconduceva il concetto di sazietà. La vecchina vestita di poveri stracci, per alcuni rappresenterebbe l’anno vecchio, ormai consunto, mentre per altri la natura invernale, povera e poco generosa. Il fatto che la Befana sia stata assimilata a una strega dipende probabilmente da una contaminazione con Halloween o dalla condanna del Cristianesimo di tutta la simbologia pagana, accusata di influenze sataniche. L’usanza di consegnare regali, soprattutto ai più piccoli, deriverebbe dal culto della divinità romana di Strenia, da cui proviene il termine “strenna”, che simboleggiava il nuovo anno e veniva celebrata con i tradizionali scambi di doni augurali durante i Saturnali. Un’altra tradizione prevedeva che i membri delle famiglie più povere passassero di casa in casa per porgere gli auguri per il nuovo anno e in cambio ricevessero piccoli doni e cibi. Il carbone veniva inserito nelle calze o nelle scarpe insieme ai dolci, in ricordo del rinnovamento stagionale e, nella morale cattolica, il carbone e l’aglio diventarono la giusta punizione per i bambini che si erano comportati male durante l’anno precedente. Il Cristianesimo tentò di assimilare questa festa, associandola alla visita dei Re Magi a Gesù Bambino e da questo nacquero miti, storie e leggende tra sacro e profano. Nei racconti più tradizionali, la vecchina avrebbe incontrato i Re Magi, i quali avrebbero cercato di convincerla a visitare la Sacra Famiglia. La Befana però si sarebbe rifiutata e da allora, pentita per il suo gesto, vagherebbe nei cieli invernali per consegnare i regali ai bambini, provando ad espiare questa sua colpa. Nel 1928, il regime fascista introdusse la festività della Befana fascista, durante la quale venivano distribuiti regali ai bambini delle classi sociali più povere e, dopo la caduta di Mussolini, questa ricorrenza continuò a essere celebrata nella sola Repubblica Sociale Italiana. Più recentemente, sono innumerevoli gli eventi dedicati alla Befana: a volte viene rappresentata da un figurante che si cala dal campanile della piazza di un paese, mentre in altre occasioni sono vecchiettine travestite per distribuire regali ai bambini nelle vie di borghi e città. In alcuni paesi del Piemonte esiste  un’antichissima tradizione dalle origini decisamente misteriose, presumibilmente celtiche. I ragazzi del paese portano in giro due grandi fantocci, il vecc e la vegia, costruiti con paglia e legno, accompagnati dal suono incessante dei campanacci. La sera del 5 gennaio, i due fantocci vengono condannati al rogo e bruciati su un  grande falò che riscalda e rischiara il buio della gelida notte invernale, al suono del corno e degli immancabili campanacci. I fuochi propiziatori, anticamente, venivano accesi proprio per favorire il raccolto e allontanare le avversità, e questo potrebbe essere il motivo principale da cui ha avuto origine questo rito. Un’altra tradizione, molto radicata è la preparazione della “fugassa”, una focaccia  tonda tipica dell’Epifania, la cui forma ricorda una margherita. Nell’impasto della “fugassa” vengono inserite due fave, una bianca e una nera: chi troverà la fava bianca dovrà pagare la focaccia, mentre chi troverà quella nera, dovrà pagare il vino per accompagnarla. In alcune zone, la fava bianca viene sostituita dalla figura di un piccolo re e chi lo troverà, sarà re per tutta la giornata, una tradizione simile alla Galette de Rois francese. Sicuramente la “fugassa” è più antica del panettone,  un dolce ricco e goloso.

Favria. 06.01.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. I Magi seguono fedelmente quella luce che li pervade interiormente e incontrano il Signore. In questo percorso dei Re d’Oriente è simboleggiato il destino di ogni essere umano, la nostra vita è un camminare, illuminati dalle luci che rischiarano la strada. Felice venerdì.

Fesse brusè ij eui con le siole ‘dij’aotri

E’ risaputo che tagliare le cipolle irrita gli occhi, li fa lacrimare e provoca fastidio. Il disagio viene sopportato perché le cipolle fanno bene alla salute e rende i piatti gustosi. Ma se noi andiamo in cucina e piangiamo per causa delle sue cipolle, bè c’è qualcosa che non va. Questo modo di dire vuole spiegare che i ficcanaso che si interessano degli affari degli altri si bruciano gli occhi con le cipolle degli altri. Purtroppo la gente mette il becco dappertutto, purtroppo come esseri umani non discendiamo dalle scimmie bensì dalle gallina, senza offesa alle galline.

Favria, 7.01.2023  Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno viviamo per i nostri sentimenti che possono essere umili. ma ogni sentimento a cui facciamo torto è una stella che segniamo. Felice sabato

Ciana e indovinalo grillo

Il termine ciána è in questo dialogo riconoscibile comefiorentinismo o comunque come termine di uso toscano, ma di cui si è un po’ perso il senso.

Il dizionario etimologico italiano lo definisce sostantivo femminile con il significato di donna del volgo fiorentino e, per estensione, donna sciatta e di modi plebei, ma anche scarpa vecchia usata come ciabatta. Da ciána i derivati: al maschile ciáno, ma anche cianáio, cianáta e cianío nel senso di schiamazzo di gente plebea, strepito sconveniente tipico delle ciane.

Diversa l’accezione data da Stefano Rosi Galli nel suo “Vohabolario del Vernaholo Fiorentino e del Dialetto Toscano di ieri e di oggi”, che definisce il termine sia un pettegolezzo sia una persona chiacchierona: “Quando il termine incarna una persona, rappresenta la figura tipicamente toscana della donna boccalona, chiacchierona, che prima di venire a sapere una cosa, l’ha già spifferata […] Anche gli abiti e lo stile che adotta sono caratteristici: sciatta, ciabattona”. E aggiunge che un tempo le era stata dedicata una festa di quartiere, la “Festa della Ciana” il 16 agosto, in via di Camaldoli, insieme alla festa di San Rocco, ovviamente nel quartiere di San Frediano.

Insomma la storia delle parole è sempre affascinante perché dare un nome a cose e persone non è solo un modo di chiamarle, ma porta con sé un mondo lontano che, conoscendone le vicende e gli accadimenti, diviene più familiare.

E che dire poi dei modi di dire?

Un altro grande della letteratura italiana, parliamo di Alessandro Manzoni; pare proprio che dopo aver sciacquato suoi panni in Arno, il nostro a dimostrazione tangibile, ne facesse poi uso nel suo immortale romanzo storico: “I promessi sposi”. Proprio Renzo, sulla via per Bergamo, usa in una frase un modo di dire toscano: “Se non che si rammentava poi anche, in confuso, d’aver, dopo la partenza dello spadaio, continuato a cicalare; con chi, indovinala grillo; di cosa, la memoria, per quanto venisse esaminata, non lo sapeva dire. Indovinala grillo?” E cosa significa, da cosa deriva? Lo usiamo ancora? A me non è capitato da tempo di sentire questa espressione che concentra in due parole il significato più esteso di non sapere come andranno le cose o come andrà a finire. Secondo una storiella tradizionale  toscana si fa risalire il detto a Ferdinando, il figlio di Cosimo II de’ Medici: pare che un giorno il giovane Ferdinando volendo fare un dispetto a mastro Grillo, nome del giullare di corte, si fosse chinato a raccogliere qualcosa e poi rivolto al giullare avesse chiesto di indovinare cosa fosse dicendo: “Indovinala Grillo!” E fin qui tutto ben collimerebbe con il detto e il suo significato, ma la storiella continua riportando le parole del giullare medesimo che pare avesse profferito, commiserando se stesso: “Povero Grillo, in che mani sei finito!”, indovinando, per il rotto della cuffia, altro detto che vi racconterò la prossima volta, che di fatto il giovane stringesse nella mano proprio un grillo! Ma, come tutti i modi di dire la cui storia si perde nel tempo, non mancano altre versioni.

La Treccani lega l’espressione ad un antico gioco di ragazzi oggi non più praticato consistente nel trarre pronostici dai movimenti di un grillo su una specie di circolo disegnato con parecchi numeri, di cui ciascuno con un preciso significato, e usata per dire che non si sa proprio come sarà, come riuscirà qualche cosa, o come stia realmente un fatto.

Un opuscolo stampato a Padova nel secondo decennio dell’Ottocento portava il titolo “Indovinala grillo” e dava indicazioni per predire il futuro, cosa che fa presumere che il detto potrebbe derivare dal gioco.

Ma non è finita qui. Il “Vocabolario italiano della lingua parlata” di Giuseppe Rigutini e Pietro Fanfani, del 1875, riporta la storiella del medico Grillo, sinonimo di medico incapace perché teneva in tasca tante ricette diverse e, quando andava da un malato, ne pigliava una a casaccio dicendo tra sé: “Indovinala, Grillo”.

Tante parole, tante storie. Alla prossima!

Favria, 8.01.2023 Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno se decidiamo di non avere paura, nulla ha più potere contro di noi. Felice domenica

Alba invernale.

Dopo la gelida e opprimente notte, ecco la radiosa alba sempre carica di vita, ripiena ogni giorno di promesse a volte mantenute a volte volate via nel gelido cielo invernale, tra le bianche nuvole trasportate lontano dal vento. L’alba ha una sua misteriosa grandezza che si compone d’un residuo di sogno e d’un principio di pensiero quando appena alzato la contemplo dalla finestra e vedo in lontananza le cime innevate dei monti che svettano con alte imponenti verso il cielo, e nella campagna i campi si conservano ancora tracce della candida neve. Ecco l’alba si sta spogliando del vestito rosa e il sole tondo dal colore ancora rosso irraggia il mondo. Nella mia ignoranza ritengo che mi fa bene il godimento di guardare l’alba e di riflettere anche  su di una foto che  ha fermato quell’attimo di godimento interiore, un momento semplice nello stare a contatto con la natura, migliora il buon umore e mi accresce l’ottimismo verso la giornata che deve iniziare. Per me è un medicamento senza alcuna contro indicazione che anzi migliora la mia salute mentale e anche fisica. E si cara Alba , permettimi se ti chiamo come una persona, Ti sono ogni giorno grato  per ciò che mi dai,  perché mi basta uno sguardo oltre il confine fra gli alberi all’orizzonte ed il cielo  dove troneggia il sole nascente per  ricordami sempre quanto sei bella vita e assaporarne tutta la sua bellezza di esistere. Davanti all’alba rifletto che il rieri ormai passato è un sogno, il domani una visione di speranza, ma il vivere bene oggi rende ogni giorno una serena felicità!

Favria,   9.01.2023

Buona giornata. Il mio sogno è che nel 2023 regni la pace in ogni casa, in ogni strada, in ogni contrada, in ogni nazione. Felice lunedì