Andiesse dosman vàl dondona! – La Masca – Frosone, frison, fringant. – Rivivere la storia. – S. Martino, dal mantello al termine cappella. – Dal cerchio al circo. – Forza e coraggio. – Celia e non celiaco – La secchia rapita…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Andiesse dosman vàl dondona!
Un conoscente mi ha così salutato prima di accomiatarsi. La frase mi ha incuriosito perché una

volta mio papà aveva salutato un parente che partiva dicendo “dosman!”, con il significato di dolcemente, piano piano. L’aggettivo dosman è omofono, parola greca che vuole dire che ha suono uguale, deriva dalla parola francese doucement, a sua volta dai lemma latini dulci e mente, dolcemente. Incamminarsi dolcemente incamminarsi, andiesse dal lemma piemontese andié o andè, che deriva dal latino ambitare, andare intorno, poi latino volgare andicare, da qui l’antico francese hanter, visitare, successivamente derivano il francese aller, spagnolo e provenzale anar, catalano e galiziano amblàr fino al romeno umbla. Non verrò a tediarvi per non essere tacciato di dosnant, dozzinante, chi paga la pigione, antica modalità di pagare i tributi nel Medioevo, dal latino duodicinam, dozzina, tasse calcolate sul sistema duodecimale, pagata su un dodicesimo, applicata al vino e all’avena. Tale tassa veniva detta in provenzale dozen, in antico francese douzaine, tassa dei dodici denari su vendita dei vini. E sì, le parole sono una fonte di significati, una vera sorgente, meglio un doss o adoss, una sorgente, dal latino volgare aqui ducium, che assorbe l’acqua, l’acquedotto! Finendo la frase dell’inizio la vàl dondona o dondon, è una regione immaginaria, che significa luoghi lontani. Perché dondonè in piemontese significa girovagare senza metà anche se in piemontese si dice dond, voce onomatopeica, per indicare luogo abitato da persone semplicii dove potrei andare a nascondermi. Meglio, antifurè, nascondermi, dal latino furare, rubare sotto gli occhi, pare di origine ebraica. Per anficè, illudermi della burla, dal francese en ficher, farsi burla a sua volta dal latino volgare figicare, agganciare, qui riferito alla pazienza che vi ho rubato nel leggermi.Buona vita,

Favria,  7.11.2021  Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita quotidiana l’invidia si alimenta tra gli esseri viventi e si paca alla morte. Felice domenica.

La Masca

Personaggi misteriosi popolano le terre del Canavese, segnano riti, credenze, superstizioni e ne infestano le notti. Una volta in Canavese come in tutto il Piemonte, fino alla prima metà del secolo scorso, la responsabilità di ogni fatto fisico o naturale, più o meno traumatico, era della Masca. Una volta vedevano le Masche coloro che nel pieno della notte tornavano dall’osteria, gli ubriachi, i malati di esaurimento nervoso, i denutriti, gli ingenui, i bigotti. Le Masche erano il male, sapevano leggere, lavoravano di fisica e distribuivano il malocchio. La Masca era una figura prevalentemente femminile che operava i suoi sortilegi su parenti, compaesani o semplici viandanti che per qualche motivo urtavano la sua suscettibilità, accendono invidia o gelosia. In realtà le Masche era delle donne asociali, bizzarre o segnate dal fisico che venivano avvolte in quell’aura di mistero e timore che cresceva di racconto in racconto nel corso delle vijà, le veglie che riunivano le famiglie nel tepore della stalla durante l’inverno, dove i bambini ascoltavano i loro vecchi che perpetuavano questa tradizione. Ancora oggi, se si ha la pazienza di seguire il lento fluire dei ricordi di alcuni anziani, si possono ascoltare sensazionali storie di Masche con le dovute variazioni sul tema. Nei racconti la Masca opera quasi sempre di notte o all’imbrunire, quando la comunità si ferma e ognuno resta isolato in seno alla propria famiglia o solo lungo la strada buia in preda a paura e immaginazione. Gatto, serpente, capra e pipistrello gatto sono alcune delle sembianze assunte dalle Masche, che possono presentarsi improvvisamente davanti al viandante notturno lungo i sentieri di campagna. Seconde questi racconti le Masche traevano il loro potere da un libro misterioso e segreto: il Libro del Comando. Allora, in un’epoca di scarsa alfabetizzazione, il possesso di un tomo, magari avuto in eredità e di cui non si era nemmeno in grado di decifrarne i segni, destava sospetto e paura.

Favria,  8.11.2021  Giorgio Cortese

Buona giornata. Il mondo sarebbe un posto migliore, se uno dei cinque sensi fosse stato quello dell’ironia. Felice lunedì

Frosone, frison, fringant.

In inverno molte specie di uccelli italiani devono adattarsi alla mancanza di risorse alimentari, alle difficoltà di poter superare le temperature gelide della notte, quando il termometro scende molti gradi sotto lo zero. In quel momento gli uccelli cercano qualsiasi risorsa possa offrire il territorio ed è in quel momento che una specie in particolare trova il modo di primeggiare andando a selezionare semi e granaglie che per molti sarebbero inaccessibili, parlo del  frosone, Coccothraustes coccothraustes. Questo volatile lievemente più grande del fringuello deve il suo nome scientifico proprio alla sua abilità di rompere i semi più duri. Infatti il suo nome scientifico deriva dalle parole greche kokkos, seme e thrauo, rompere. Viene anche detto rosono o frusone. In italiano il nome frosone deriva dal tardo latino frisonis, della Frisa. Viene chiamato frison  appunto per i sui colori in riferimento alle stoffe anticamente prodotte in questa regione della penisola Anatolica, oggi Turchia. In piemontese si dice appunto frison un tipo di stoffa in lana. Questo pennuto fa parte della famiglia dei fringuelli e da li in piemontese troviamo la voce fringant, vivace, svelto o disinvolto che è il modo di agire quando si posa per terra  con tipica la camminata eretta e saltellante. La parola piemontese  fringant deriva dalla voce onomatopieca fring, andatura e canto dei fringuelli, secondo altri dal latino  frumare, consumare e gioire vista la carattersita di spaccare i semi  di questi pennuti. l frosone è il più grande dei nostri fringuelli. Il suo becco, massiccio e appuntito, è così forte che può rompere i noccioli di ciliegia.  Il suo becco così robusto è un vero tritatutto. Pensate che riesce ad aprire persino noccioli molto duri come quelli del bagolaro, del ciliegio selvatico e i frutti del tasso a lui molto graditi, esercitando con il suo becco una forza non indifferente di 30-50 kg. la testa, l’addome e il ventre sono rosso bruno chiaro, il collo è grigio e il posteriore è un caldo marrone scuro e la gola è nera,  barra alare bianca. La femmina e il giovane hanno una colorazione meno contrastata. I giovani hanno una macchia gialla sulla gola. In inverno lo si vede certe mattine nel parco sui rami più alti. Mi fermo perché  non vorrei fare una  friponada,  birboneria, nel continuare a scrivere di questo simpatico pennuto.

Favria, 9.11.2021  Giorgio Cortese

Buona giornata. Novembre certi giorni mi pare simile ad un punto interrogativo a matita, detesto il grigio sdraiato sui tetti ma aspetto con ottimismo la primavera. Felice martedì.

Rivivere la storia.

Il libro del signor PierAntonio Opezzo, già distribuito dal Comitato San Grato di Favria in occasione della ricorrenza Ognissanti all’ingresso dell’androne del cimitero, vicino alla millenaria chiesa, è più che un libro di storia su Favria, è un viaggio della memoria con gli occhi del ricordo dell’autore. Il libro sarà ufficialmente presentato sabato 13 novembre alle ore 16,00 nella Biblioteca Comunale in corso Matteotti 8 con il Patrocinio del Comune di Favria dal Comitato San Grato e Unitre Rivarolo Canavese, Favria, Feletto. In questo libro ripercorriamo con l’autore luoghi e monumenti Favriesi, ci sembra di rivivere con lui le domeniche estive a spasso con il nonno gustando un gelato e osservando con i suoi occhi luoghi e monumenti che adesso distrattamente osserviamo. Il titolo “Il Feudo di Favria” è già evocativo e ricorda subito la peculiarità del territorio Favriese, feudo prima del Monferrato e poi dei Savoia. Con questo libro l’autore con la sua memoria illumina una luce che illumina la strada del futuro della nostra Comunità. Leggendo questo libro mi viene in mente una frase di Cesare Pavese nel suo libro “Il mestiere di vivere”: “Quando un popolo non ha più un senso vitale del suo passato, si spegne. Si diventa creatori anche noi quando si ha un passato. La giovinezza dei popoli è una ricca vecchiaia.” Ed è vero, leggendo questo libro affiorano ricordi che mantengono vivo il passato, nella vita di oggi, sempre più frenetica chi non ricorda non vive. La memoria oggi più che mai nell’era di internet, delle mail, sms, whatsapp, dei social è vitale e forza creatrice per il futuro. Grazie all’autore con il suo mattone di memoria che consegna alla nostra Comunità valori di conoscenza, di eredità culturale, un mirabile patrimonio che i favriesi che hanno soggiornato qui, e che riposano nel cimitero locale, hanno prodotto e custodito. Io non sono favriese di nascita ma di adozione e permettetemi di dire che i nostri antenati ci hanno lasciato, guardando la millenaria chiesa del cimitero, San Pietro Vecchio, oggi San Grato ci hanno lasciato uno scrigno di tradizioni per andare avanti ci permettono di non partire da zero, ma ne sono il valore aggiunto. Nel libro dell’autore il passato è simile ad una sorgente che alimenta il fiume del presente e ci spinge verso il futuro. Mi è piaciuta personalmente “Discours d’une dèputation des fleurs de Favria à Mademoiselle R. G” una delicatezza che ci deve fare riflettere oggi con sms e altri messaggi su cellulare sempre più sintetici e artificiali, senza lasciare trasparire tra le righe le passioni che allora ne erano parte principe. Con questo libro l’autore pone un mattone sul muro della storia della nostra Comunità, perché tutti noi, con il nostro agire e la brevità della nostra esistenza, siamo solo delle pennellate di pittura, ma solo con i mattoni, come questo libro, mattoni estrapolati da documenti che altrimenti starebbero fermi in qualche angolo di un archivio e mai condivisi, permette di edificare quel muro ideale dove tutto il quadro della Comunità risplende nella luce della storia e del ricordo. Sono i mattoni, i libri come quello dell’autore che permettono al muro del ricordo di rimanere di passare il testimone della memoria alle successive generazioni. Ogni giorno se ci pensiamo bene sprechiamo un sacco di tempo per rimediare alle cose che cerchiamo. Ogni giorno che passa le cose da ricordare aumentano: nomi, password, appuntamenti. Siamo bombardati da nuove informazioni ma il nostro cervello riesce a conservarne solo una minima parte: la memoria è sempre stata importante e il suo allenamento dovrebbe essere considerato formativo per il carattere. Con l’avvento della stampa diventò sempre meno importante ricordare ciò che la pagina stampata poteva ricordare al posto della memoria umana. Nel passato la memoria era il fondamento della cultura, ma gradualmente è stata soppiantata da un’infinità di supporti esterni. Se la memoria è il mezzo con cui conserviamo quello che consideriamo prezioso, essa è legata alla nostra transitorietà, bravo l’autore di fissare su carta questo spaccato di storia favriese per la nostra memoria.

Favria,  10.11.2021Giorgio Cortese

Buona giornata. A novembre comincio a rendermi conto di quanto sarà lungo l’inverno, ma poi finisce. Felice mercoledì

S. Martino, dal mantello al termine cappella.

Tutti sanno come San Martino, 316-397, ancora catecumeno e soldato romano,  trovandosi alle porte della città di Amiens insieme ai suoi commilitoni, incontrò un mendicante seminudo. Tutti conoscono il suo gesto: d’impulso tagliò in due il suo mantello militare e lo condivise con il poveraccio infreddolito. Si racconta che quella stessa notte Martino sognò Gesù avvolto nel lembo di mantello che aveva donato al povero. Gesù si presenta a lui e gli restituisce la parte che aveva condiviso. L’indomani, quando Martino si sveglia, trova il suo mantello di nuovo integro. Martino aveva allora all’incirca 18 anni. La parola mantello, in latino, era il nome della cappa. Ma trattandosi del mantello corto dei militari si parlava, al diminutivo, di cappella, cappa corta. Questa cappella venne conservata come insigne reliquia ed entrò a far parte della collezione di reliquie dei re Merovingi. I Franchi la portavano come stendardo in guerra, davanti alle truppe, fidando nella protezione del santo patrono. Da Carlomagno la cappa di san Martino venne inviata all’oratorio palatino di Aquisgrana, che da allora si chiamerà, in francese Aix la chapelle,  Aachen, in tedesc). Infatti, il termine latino, dal significare la reliquia del mantello di san Martino, passò per estensione ad indicare l’oratorio che la conteneva; le persone incaricate di conservare tale insigne reliquia vennero chiamate: “cappellani”! E fu così la chiesetta del palazzo reale di Carlomagno divenne una “cappella” in senso moderno. Il nome, in seguito, identificherà per ulteriore estensione tutte le chiesette e saranno chiamati cappellani tutti i sacerdoti ad esse preposti, anche se non avevano più nulla a che fare con il prodigioso indumento del santo vescovo di Tours. Dalla cappa di Martino prende nome, perfino, la dinastia reale francese dei “Capetingi”. Una vera e propria devota fissazione! Pezzetti del mantello di san Martino erano nel medioevo reliquie ambitissime, e parecchio diffuse, vere e proprie narrazioni reificate dell’esempio di carità del primo santo non martire dell’Occidente cristiano. Una volta la festa di San Martino era una sorta di capodanno contadino. Anticamente il periodo di penitenza e digiuno che precedeva il Natale, cominciava il 12 novembre e prendeva il nome di Quaresima di S. Martino, questo Santo è protettore dei sarti, osti, albergatori, mercanti, vignaioli e vendemmiatori.

Favria, 11.11.2021 Giorgio Cortese

Buona giornata. Certi momenti della vita vanno vissuti con una colonna sonora in sottofondo, abbiamo le cuffie, scegliete le colonne sonore della vostra vita. Felice giovedì.

Dal cerchio al circo.

La parola circo applicata allo spettacolo circense di età moderna viene preso in prestito dagli anfiteatri ovali della Roma antica, è diventa in seguito di uso universale, anche in relazione allo spazio scenico che contraddistingue il circo classico: una pista rotonda di circa 13 metri, creata per permettere un’esibizione armonica dei cavalli che ne costituiscono il fondamento. Tutto avvenne in età moderna nel 1770 quando un militare in pensione di nome Philip Astley creò uno spettacolo che metteva insieme acrobazie equestri e numeri di mimo in uno spazio circolare. Durante gli anni nell’esercito Astley aveva imparato il volteggio, un esercizio di equitazione in cui il cavaliere esegue acrobazie su un cavallo che si muove in cerchio, guidato tramite una corda da una persona posizionata al centro dell’arena.  La sua esperienza lo portò a concludere che il diametro ideale del circolo, sia dal punto di vista della sicurezza degli acrobati che della visibilità degli spettatori, era di 42 piedi, 13 metri, una misura che da allora è rimasta invariata. Gli gli spettacoli circensi hanno la loro origine in esibizioni popolari che molto probabilmente affondano le radici nella preistoria, quando miravano a ricreare i primi miti sorti intorno al fuoco. Durante il Medioevo e fino alla fine dell’Età moderna saltimbanchi, giullari e comici movimentavano con i loro spettacoli le strade e le piazze nei giorni di mercato e intrattenevano sovrani e uomini di corte. In questo contesto emersero figure come i danzatori su corda, antenati dei funamboli, i forzuti, gli acrobati, i giocolieri, i manipolatori di oggetti, i fachiri, i maghi e i domatori. Tutti questi personaggi sarebbero confluiti nello spettacolo del circo come lo conosciamo oggi. Philip Astley, un militare inglese che seppe trasformare in unoshow le sue doti di cavallerizzo. Nella seconda metà del XVIII secolo le esibizioni equestri erano molto popolari tra la nobiltà europea, e alcuni cavalieri provenienti dall’esercito si guadagnavano da vivere come istruttori di equitazione. Astley dopo essersi congedato dalle forze armate nel 1766, andò a lavorare in una scuola d’equitazione a Lambeth, la sua città natale. Due anni dopo comprò un modesto maneggio senza tetto nella zona meridionale di Londra, dove insegnava equitazione al mattino e organizzava mostre equestri nei pomeriggi estivi. Rendendosi conto che le esposizioni erano più redditizie del suo lavoro d’istruttore, nel 1769 decise di aprire una nuova sede con una maggiore capacità. La Astley’s Riding House era una struttura in legno con una pista circolare che facilitava al pubblico l’osservazione dello spettacolo e ai cavalieri l’esecuzione delle acrobazie, sempre accompagnate da una banda musicale. Una curiosa circostanza permise ad Astley di ampliare il repertorio delle attrazioni offerte nella sua arena. In quel periodo nei teatri con lo scopo di attirare la maggiore quantità di pubblico possibile, venivano proposti dei numeri circensi negli intervalli tra un atto e l’altro di una rappresentazione. Ma il drammaturgo David Garrick, figura di spicco del teatro inglese del XVIII secolo, era contrario al fatto che i palcoscenici fossero occupati da saltimbanchi. Approfittando di questa situazione, durante la stagione del 1770 Astley invitò gli acrobati esclusi dai teatri a unirsi a lui. In questo modo le pantomime, opere sceniche mute con personaggi ispirati alla commedia dell’arte, entrarono a far parte dei suoi spettacoli, e da esse sarebbe emerso uno degli elementi classici del circo, il pagliaccio.  Visto il successo di pubblico della Astley’sRiding House, una volta finita la stagione estiva Londra l’ex militare iniziò a viaggiare per il Paese con i suoi cavalli e i suoi artisti, era nato il circo come esibizione itinerante. Nel 1773 Astley presentò il suo spettacolo alla corte reale francese e nel 1782 aprì un circo a Parigi. Si esibì anche in Irlanda, in Belgio e a Belgrado. Durante la sua carriera fece inoltre costruire diciannove circhi permanenti in tutta Europa. Poi, nell’inverno del 1778, dotò il suo anfiteatro di una copertura integrale che gli permise di estendere la durata della stagione e di offrire spettacoli notturni. Ben presto emersero dei concorrenti. Nel 1772 un ex cavallerizzo di Astley di nome Charles Hughes mise in piedi la Hughes’ Riding School, a imitazione del centro creato dal suo maestro, diventandone così il grande rivale. Dopo un tour di otto anni nel continente, Hughe stornò a Londra e costruì una struttura fissa in mattoni e dotata di un teatro per valorizzare le pantomime. Il Royal Circus, così fu chiamato, fu il primo a incorporare il termine circo nel nome. L’evoluzione dello spettacolo circense sarebbe continuata per tutto il XIX secolo. All’inizio dell’ottocento furono in- trodotti gli animali esotici, prima gli elefanti e poi le tigri, i leoni  e le altre fiere.Nel 1825venne creato negli Stati Uniti il primo circo con la caratteristica forma di un tendone. Sorsero lì le tipiche compagnie che si spostavano in carovane con gli animali al seguito e si esibivano nelle periferie delle città. L’esempio più conosciuto fu il circo Barnum, fondato nel 1871 e definito dal suo creatore il più grande spettacolo del mondo.

Favria, 12.11.2021 Giorgio Cortese

Buona giornata. A volte viene voglia di dire che se abbiamo sete di giustizia, dobbiamo  bere alla fonte della pazienza. Felice venerdì.

Forza e coraggio.

L’Unione Sportiva Alessandria 1912 è la società calcistica di Alessandria, capoluogo dell’omonima provincia piemontese. La sua fondazione si fa risalire tradizionalmente al 1912, ma essa è da collegare alla precedente  nascita della sezione calcistica della società Forza e Coraggio. Già sul finire del XIX secolo il calcio era arrivato ad Alessandria, al riguardo vi sono notizie riguardanti un’amichevole del 1894 disputata da una squadra alessandrina contro una compagine genovese. Nel 1896 nacque l’Unione Pro Sport Alessandria, seguita nello stesso anno dalle squadre di football delle società ginniche Forza e Concordia, i cui atleti indossavano maglie grigio scure, e Forza e Coraggio dai colori sociali grigio perla-bianco. L’Unione Pro Sport partecipò tra il 1897 e il 1898 ad alcuni tornei amichevoli con squadre di Torino e Genova; nel 1897 vinse a Genova il “Concorso nazionale ginnico-Sezione gioco calcio”[5], e il15 marzo 1898 fu invitata a far parte della costituente della Federazione Italiana Football (F.I.F.), prese inizialmente parte alle eliminatorie del primo campionato ufficiale e, ritenutasi danneggiata a favore di Torinese e Genoa, preferì rientrare infine nell’orbita dei tornei organizzati dalla Federazione Italiana di Ginnastica. Per un anno nel 1911 la Forza e Coraggio giocasse con regolarità gare amichevoli: l’atto del 1912 avrebbe rappresentato un cambio di denominazione in onore della città d’origine, sulla scia della moda dell’epoca. In maglia biancazzurra, il Foot Ball Club partecipò al Campionato di Promozione del 1912-13, ottenendo subito un posto nella prima categoria del Campionato Nazionale dopo aver battuto la Vigor Torino per 3 a 0 nello spareggio giocato a Novara. Nello stesso anno, il magnate del ciclismo Giovanni Maino regalò ai giocatori undici maglie grigie come quelle della sua squadra, per il quale correva, tra gli altri, Costante Girardengo. La squadra disputò 13 stagioni in Serie A tra il 1929 e il 1960 e 20 in Serie B, l’ultima nel 1975. Questa società raggiunse inoltre una finale di Coppa Italia, nel 1936. Il periodo più fortunato per la squadra fu quello tra le due guerre, quando con Novara, Pro Vercelli e Casale diede vita al cosiddetto “quadrilatero piemontese”, fucina di grandi campioni e di importanti vittorie. Oltre alle vittorie di un campionato di Serie B, uno di Serie C e uno di Serie C2, conta nel suo palmares una Coppa Italia di Serie C, vinta nel1973, e una Coppa CONI, conquistata nel 1927. Tra i più celebri giocatori che hanno indossato la maglia grigia del sodalizio piemontese sono ricordati il Pallone d’Oro 1969 Gianni Rivera e i campioni del mondo Bertolini, Borel, Ferrari e Rava, oltre a Carlo Carcano E Adolfo  Baloncieri.

Favria,  13.11.2021  Giorgio Cortese.

Buona giornata. Finché c’è vita c’è speranza. Felice sabato.

Celia e non celiaco

Queste due parole possono apparire a prima vista simili ma sono due cose diverse la celia significa scherzo, burla e celiaco deriva dal greco koiliakòs, deriva da koilìa, cavità, ventre, a sua volta derivato da kòilos, cavo, caverna, in latino coelìacus. Ripartiamo da celia, oggi sinonimo di burla, ma Celia è un nome proprio dal latino Caelia, femminile di Caelius, nome di una gens romana, e l’origine della parola su basa sul termine caelum, cielo o paradiso, e può quindi significare celeste o del paradiso. Secondo altre fonti il lemma viene ricondotto dal greco kòilos, latinizzato poi in Celius. Celia assume in italiano il sinonimo di burla a Firenze nel VXII da un poema epicomico, scritto da Lorenzo Lippi “il Malmantile racquistato!  Lorenzo Lippi era pittore di corte di Claudia de’ Medici, moglie dell’arciduca Leopoldo V d’Austria. Il titolo è un riferimento alla Gerusalemme liberata del 1580 e alla Gerusalemme conquistata del 1593 di  Torquato Tasso. Il poema è, ricco di motti e proverbi fiorentini e della vivacità, comicità, malizia del parlare popolare tra cui il modo di dire celia, dal nome di una giovane popolana della commedia, per indicare la burla. La celia  dal suono dolce e aggraziato è divenuto il modo di indicare lo scherzo in modo garbato, come la ragazza divertente della commedia. La celiachia è invece  una malattia dovuta a intolleranza a una particolare frazione del glutine, la gliadina. È una delle cause più comuni di malassorbimento. Il paziente ha una totale intolleranza al glutine, che è una proteina contenuta in molti cibi, la quale dà atrofìa della mucosa intestinale, può anche dare dermatite erpetiforme di Duhring, che consiste in lesioni cutanee delle superfici estensorie degli arti, del tronco, dei glutei e della testa. L’unico trattamento efficace conosciuto è una permanente dieta priva di glutine. Queste due parole dal significato diverso, nella loro cavità  nascondo una comune origine. Che belle le parole che hanno dentro di loro sempre delle sorprese se esplorate. Le parole che compongono i libri sono come una grotta un po’ magica che ciascuno  di noi esplora con il suo lume interiore per cercare la conoscenza.

Favria, 14.11.2021   Giorgio Cortese

Buona giornata. Anche se il paura ha sempre più argomenti, ogni giorno io scelgo sempre la speranza. Felice domenica.

La secchia rapita

Cade il 15 novembre, un anniversario ricordato forse da pochi, quando a Zappolino, una piccola frazione del comune di Castello di Serravalle, in provincia di Bologna avvenne nel 1235 la battaglia conosciuta come la Battaglia della Secchia Rapita, resa famosa dal poema di Tassoni, non quello della cedrata, bensì Alessandro, poeta e letterato nato a Modena nel 1565 e ivi morto nel 1635. Il Tassoni scrisse di questo evento storico in modo eroicomico o tragicomico, come si direbbe oggi, in tempi niente affatto eroici, attribuendo a futili motivi lo scatenarsi della guerra. Ci basti citare alcuni dei versi più famosi del poema, a dire il tono dello scritto nel primo canto: “Il martello della maggior campana fé più che in fretta ognun saltar dal letto; diedesi a l’arma a chi balzò le scale chi corse alla finestra, e chi al pitale. Chi si mise una scarpa e una pianella, e chi una gamba sola avea calzata, chi si vestì a rovescio la gonnella chi cambiò la camicia con l’amata; fu chi prese per targa una padella e un secchio in testa in cambio di celata e chi con un roncone e la corazza corse bravando e minacciando in piazza.”.Tassoni, utilizzò la battaglia per descrivere le infinite e talvolta ridicole rivalità tra le città e i comuni italiani, spesso, nel corso della storia, preda di gelosie e antagonismi utili solo alla dispersione di energie e causa dell’incapacità ad approdare ad una politica comune e unitaria contro i poteri stranieri che spadroneggiavano sul nostro suolo patrio. Certo adesso c’è poco da ridere, ma ritengo che la risata abbia un altro valore terapeutico contro la crisi, la pandemia e lo strisciante campanilismo un male antico del nostro BelPaese. La battaglia si svolse tra la città di Modena e quella di Bologna per il possesso di alcuni territori e castelli di confine tra i due comuni e si inserisce nelle lotte fratricide tra guelfi e ghibellini del XII e del XIII secolo, nel contesto del più vasto conflitto tra Papato e Impero. Vi presero parte due eserciti agguerriti e un numero impressionante di soldati pare  quattromila cavalieri e oltre trentacinquemila  fanti e sul campo perirono oltre  duemila uomini. Tassoni con la Secchia rapita, fonda la propria opera sulla storia, ma si tratta di una storicità del tutto relativa. Il famigerato furto della secchia, ad esempio, avviene secoli dopo la conclusione del conflitto tra Modena e Bologna narrato dall’autore. Non solo, molti dei personaggi del poema corrispondono, più o meno chiaramente, a uomini storici, sì, ma del tempo di Tassoni. È questo il caso del Conte di Culagna, modellato sulla figura del conte Alessandro Brusantini, acerrimo nemico di Tassoni, protagonista di uno degli episodi più esilaranti della Secchia rapita. Inguaribile smargiasso, sciocco e pauroso così descritto: “filosofo, poeta e bacchettone; / ch’era fuor de’ perigli un Sacripante / ma ne’ perigli un pezzo di polmone! Il Conte di Culagna si invaghisce della guerriera modenese Renoppia, che intende conquistare. Prima però deve togliere di mezzo la moglie, avvelenandola. Versa allora nel piatto della consorte quello che egli crede essere un veleno mortale, e invece è un micidiale purgante. Purgante che egli stesso ingerisce, perché la moglie, avvertita dall’amante, che proprio il Conte di Culagna ha informato del diabolico piano, scambia i piatti. Il povero disgraziato esce di casa, in attesa degli effetti del veleno, ma proprio nel momento in cui inizia a fantasticare sul successo dell’impresa, ecco che il potentissimo purgante fa effetto. Tassoni irride il genere del poema eroico con la soluzione comica, arma formidabile contro l’autorità e la tradizione. Certo in giro  anche oggi c’è ben poco da ridere, ma è proprio in questi frangenti che la risata si rileva profondamente terapeutica.

Favria, 15.11.2021 Giorgio Cortese

Buona giornata, ogni giorno cerco di essere sempre me stesso, così nessuno potrà dire che lo faccio male. Felice lunedì.