Condoglianze! – Uno strano viaggio – Donare fa stare bene e aiuta a fare del bene! -Res Gestae Favriesi: da vigoroso, a Gagliardi, dando il nome anche ad una danza, la gagliarda di Giorgio Cortese

Condoglianze!
Appresa la triste notizia, è con dolore che mi stringo ai famigliari in questo periodo così difficile. La perdita di una persona che conosco è la perdita anche di me stesso, la perdita di un mondo, la perdita di ricordi che se ne vanno via con Lui. La morte è come una porta, che si apre spesso nella mia vita portandomi via delle persone care. Penso chi la attraversa non deve più soffrire, ma soffre chi ci è stato vicino fino alla fine. Eppure il dolore lascia ben presto il posto alla dolcezza del ricordo che porterò sempre nel mio cuore, Questo mi da sempre la forza di vivere al meglio la mia vita, è così facendo onoro coloro che ho perduto. Oggi il freddo di questo lungo inverno, si fa sentire ancora più pungente, i brividi solcano la pelle porto nell’animo, con mestizia, questa ferale notizia e cerco di consolarmi che in realtà i morti non sono scomparsi, non mi hanno lasciato, ma mi aspettano dove si trovano. Sono lì, e continuano a confortarmi ed aiutarmi. Quando morirò tornerò da loro, tornerò dai miei cari, dai miei affetti, dagli amici che mi hanno lasciato troppo presto, da tutti coloro ai quali ho voluto tanto bene, e sarò felice senza più temere nulla. Ciao Giovanni mi mancheranno i Tuoi discorsi e la Tua grande umanità.
Favria, 3.02.2015 Giorgio Cortese

Uno strano viaggio
Il viaggio era cominciato dall’ingresso di casa al mattino presto di una domenica mattina, prima del sorgere del sole. Sapevo che sarebbe stato difficile, ma mai avrei pensato che così pochi di noi ce l’avrebbero fatta. I primi a lasciare la compagnia furono i tacchi. Arrivati al primo incrocio, senza dire nulla, s’alzarono l’un l’altro, vale a dire alzarono i tacchi, e non li vidi più, e si portarono dietro un grosso peso. Fu in ogni caso un peccato perderli così, in fondo erano pur sempre persone di un certo spessore. A seguire il loro esempio, dopo molti chilometri, furono le suole. Tuttavia la loro dipartita fu salutata da molti con un certo sollievo. Infatti, manifestavano, con insolita costanza, per delle personalità così piatte, una forte tendenza a calpestare l’altrui parere o volontà. Ad ogni modo al loro allontanarsi, l’atmosfera tra i membri di questa inedita spedizione, sembrò farsi molto più distesa. Dico sembrò, perché purtroppo gli eventi dovevano volgere al peggio nel giro di qualche ora. Il repentino abbandono delle suole permise ad altri di mettersi in mostra, anche se sotto una cattiva luce. Le suolette, della cui presenza quasi non mi ero accorto, cominciarono in breve ad ottenere l’attenzione generale. Ma questo solo delle loro insistenti lamentele che a ritmo incessante essi volgevano ora ad uno, ora ad un altro, tutte di questo tenore: “rallentiamo, il terreno è troppo accidentato, usciranno delle vesciche” oppure: “c’è troppo umidità e questa sera avremo di quei reumatismi…” e così via. Poi quando mi offri di aiutarli, mi guardano con aria schifata e mi risposero:: “poca confidenza ed si allontani con quelle sporche manacce! Ce la caviamo benissimo da suole.” Ma c’è poco da meravigliarsi, questi tipi dell’interno, leccapiedi patentati, vivono con la puzza sotto al naso. Ma, com’era prevedibile, non resistettero che poco, pochissimo tempo in quella situazione avversa e logorate dalla fatica e dallo stress psicologico, uscirono dal gruppo e sedutesi su un verde prato, dissero: “Solo per cinque minuti, poi vi raggiungiamo”. Furono le ultime parole che udi da loro. Con la mia strampalata comitiva avevo già perduto diversi elementi. Cominciò allora a serpeggiare tra noi un sentimento nuovo. dapprima subdolamente, poi in modo sempre più manifesto, il timore di non riuscire nell’impresa ci assalì uno ad uno. Tuttavia, a dispetto delle previsioni più nefaste, il percorso continuò e non succedette nulla. La comitiva continuava a camminare incessantemente per chilometri e chilometri, senza avvertire la benché minima fatica. Col tempo imparai a conoscere a fondo tutti gli altri membri, ognuno con le sue piccole manie, coi loro veniali difettucci, ma tutti dotati di grandi virtù. A stringere rapporti tenaci, ma non solo con me, furono per primi i lacci. Sull’aspetto esteriore non avevano nulla da invidiare con il loro fisico asciutto e longilineo, tutti pelle e nervi, e non un filo di grasso. Ma quello che veramente mi colpiva, era il loro profilo psicologico. Rare volte in vita mia ho incontrato personalità più contorte, durante questo lungo cammino, non disdegnavo di parlare con loro, i signori lacci del più e del meno ed ogni volta le loro fantastiche argomentazioni mi portavano da una parte, poi dall’altra, poi di nuovo da questa, costringendomi a complicati esercizi di concentrazione, intrecciando parole, frasi, locuzioni, in un turbine di lemmi, per poi arrivare a alla fine a delle conclusioni tanto semplici, anzi direi lineari, che mi facevano esclamare: “come ho fatto a non arrivarci da solo”. La cosa più stupefacente, in ogni modo, è come questi incredibili oratori riuscissero, nonostante i ragionamenti così dannatamente arzigogolati, a non smarrire mai il filo del discorso. Fu quindi per me un durissimo colpo, quando mi accorsi delle prime avvisaglie della crisi che li stava per cogliere. Inizialmente si manifestò con improvvise interruzioni nei loro lunghi discorsi, che poi, altrettanto repentinamente, riprendevano come se nulla fosse accaduto. Quasi nessuno se ne rese conto, almeno in un primo momento, tanto brevi erano queste pause. Ma col passare del tempo il fenomeno si faceva sempre più frequente e soprattutto più preoccupante. Alla lunga i loro lunghi intrecci cominciarono a risentirne sensibilmente. Nonostante continuassero a mostrarsi dei brillanti oratori, a volte le loro argomentazioni perdevano di mordente e non era più così inebriante nello starli ad ascoltare nelle lunghe ore di cammino. A poco a poco persero i legami che così fortemente avevano costruito in quel viaggio. La brutta situazione si protrasse fino a quando essi stessi, resisi conto dell’insostenibilità delle circostanze, si sciolsero definitivamente in un pianto a dirotto, che lasciò tutti con un groppo in gola. Era il preludio al peggio, poco dopo, infatti, si unirono ad un gruppo di passanti e ci abbandonarono definitivamente. Ilmio viaggio, comunque, già volgeva al termine. Superata la paura di non farcela, vinta la tentazione di fermarmi o addirittura di tornare indietro, ma continuavo a camminare di buona lena, verso la meta ormai in vista. Appariva chiaro che tutti erano in buona condizione, anche se le tomaie erano senza un velo di dubbio, quelle più in forma. A dispetto delle difficoltà incontrate, di carattere sia fisico sia psicologico, esse si mantennero sempre lucide, impermeabili a qualsiasi turba. Erano loro i veri leader della strana compagnia che stava ormai per compiere l’impresa. La parola fine, però, non era ancora stata scritta. Un ultimo triste avvenimento doveva mettermi a dura prova, non tanto nel fisico, quanto nello spirito. Quei valorosi prodi che erano le tomaie, che per lunghi chilometri avevano sopportato le ingiurie del tempo senza batter ciglio, cedettero a poche centinaia di metri dall’arrivo del portone di casa. Straziate, lacerate, caddero improvvisamente al suolo e non vi fu speranza di recuperarle. Il colpo fu fatale al nostro gruppo, che perdeva la sua vera identità. Se eravamo prontamente riconoscibili a tutti, era senza dubbio grazie a loro. Non ai simpatici tacchi, non alle prepotenti suole, non alle altezzose suolette, non ai fragili, geniali lacci, e neanche a me. Già, io… Anch’io mi fermai a quel punto, a riempire di silenzio l’incolmabile vuoto lasciato da quei dolorosi addio. Solo molto tempo dopo seppi, e non so quanto prestare fede a questa voce dal fiabesco sapore di leggenda popolare, che gli unici superstiti di quell’insolito gruppo, portarono a termine l’impresa. Mai integratisi nel gruppo, da tutti visti un po’ come degli estranei, i calzini riuscirono lì dove gli altri avevano fallito. Non era d’altra parte mistero ad alcuno che fossero gli unici veramente in gamba. Alla fine di questa breve storia mancano due protagonisti: l’estremità dei miei arti inferiori, i piedi. Questi sono lontani dalla testa, conoscono il suolo, le pietre, l’aspro e lo sdrucciolo, sono tutto l’equilibrio. Reggono l’intero peso, sanno correre, sanno saltare e non è colpa loro se più in alto dello scheletro non ci sono ali. Queste mie estremità sono necessarie spesso umiliate con il termine ironico “ragionare coi piedi””, sono invece un capolavoro di “tecnica”, dato che riescono a sostenere un peso così notevole com’è quello del mio corpo, 120 kg abbondanti, su una superficie così ridotta, per di più spesso in una situazione di movimento. Gli arti inferiori sono miti non sanno accusare come le mani e non impugnano neppure le armi. Senza di loro l’homo erectus non avrebbe incominciato a dominare l’orizzonte, a perlustrarlo, a comprenderlo e grazie a loro ha iniziato a levare il capo verso il cielo, cioè verso l’infinito. Sono convinto che come per piedi, realtà modesta che rivela la sua preziosità proprio quando si paralizza e ci blocca nella fissità, noi non badiamo alle mille persone o cose quotidiane che ci permettono di vivere, pur rimanendo nascoste e quasi inavvertite. Un proverbio arabo, ad esempio, dice: “Che cosa c’è di più ovvio dell’aria? Eppure guai a non respirarla!”
Buona passeggiata
Favria, 8.02.2015 Giorgio Cortese

Donare il sangue è un atto di generosità nei confronti dell’altro e di noi stessi oltre che un atto di salvaguardia della salute. Non manchiamo al prelievo del 13 febbraio, venerd’ a Favria andiamo a donare dalle ore 8 alle ore 11, doniamolo.

Donare fa stare bene e aiuta a fare del bene!
Voglio ricordare che la solidarietà non è un concetto astratto o una cosa strana. La solidarietà è la risposta del mio modo di pensare e di aiutare chi mi è vicino. Donare sangue è solidarietà. Donare sangue è salute. Chi dona infatti, sta bene e poi il donatore è un cittadino che considera la salute non come fine a se stessa, ma come una risorsa per una vita più ricca, più piena, un impegno per una convivenza umana positiva. Il donatore sta bene, ed è in salute, non solo perché non ha malattie, ma perché pensa positivo ed ha scelto di essere veramente solidale attuando un atto immediato “la donazione” che afferma che la salute un diritto di tutti, a cui tutti possono contribuire. Venite alla Fidas di Favria, venerdi 13 febbraio ore 8 – 11,00, perché il ruolo della Fidas va ben oltre quello di sensibilizzare sul problema del sangue e della sua raccolta. La FIDAS ha un ruolo di controllo e di tutela della salute del donatore e del ricevente. Il sangue è un po’ come uno specchio in cui si riflette ciò che funziona e ciò che non funziona del nostro corpo. Il sangue è una sentinella della nostra salute… Il sangue è un tessuto liquido che rappresenta circa l’8% del nostro corpo; è responsabile di numerose funzioni vitali. Il sangue si compone di una parte liquida, detto plasma, e da globuli rossi, bianchi e piastrine. Il plasma è la parte liquida del sangue e trasporta le sostanze nutritive; i globuli rossi si occupano di trasportare l’ossigeno in base a particolari sostanze presenti sulla loro superficie, il sangue si differenzia nei 4 tipi fondamentali: gruppi A, B, AB, O, che, a loro volta, possono essere positivi o negativi.
A proposito, Tu che mi leggi sai a quale gruppo sanguigno appartieni? Saperlo potrebbe essere utile alla Tua salute! Non tutti possono donare sangue; naturalmente ci sono dei vincoli. Non lo può fare chi è addetto a lavori pericolosi, chi ha donato sangue nei 3 mesi precedenti se uomo, 6 mesi se donna; chi ha subito trasfusioni di sangue; chi non pesa 50 Kg. Il sangue prelevato è pochissimo: una quantità di 450 cc. Dite la verità: non vi fidate, oppure avete paura di svenire e di fare una figuraccia; se seguite però i consigli del medico e dopo il prelievo vi fate un bel succo di frutta per ripristinarvi i liquidi e gli zuccheri, non succede nulla. Se avete ancora qualche paura, sappiate che si tratta di paura irrazionale… e allora CORAGGIO, vieni alla Fida di Favria- Torino, , cortile interno del Comune venerdì 13 febbraio ore 8 – 11,00 Ti aspettiamo!!!
Favria, 9.2.2014 Giorgio Cortese

Donare il sangue facendo del bene per stare bene

Res Gestae Favriesi: da vigoroso, a Gagliardi, dando il nome anche ad una danza, la gagliarda.
Il cognome Gagliardi deriva da una cognominizzazione del nome personale del capostipite. Questo cognome è decisamente diffuso in tutta Italia e l’origine va ricercata nel nome medievale Gagliardo, arrivato in Italia attraverso l’italianizzazione del provenzale galhart, e francese gaillard. Ma a sua volta deriva dall’antico tedesco gailhard, che, composto dagli elementi geil, vigoroso, energico e hard, forte, duro, e può essere tradotto come molto vigoroso, d’indole energica e gagliarda. Secondo altre fonti il termine geil significava letteralmente gaio, gioioso e, seguendo questa interpretazione, il nome Gagliardo può essere tradotto come molto vivace, esuberante. La sua diffusione è avvenuta in Italia con la calata degli angiolini in Italia con Carlo I d’Angiò. Ma questa parola che dal nome di un avo ha dato origine al cognome Gagliardi e Gagliardo, ha dato anche il nome ad una danza: la gagliarda. La gagliarda o gaillarde in lingua francese fu una danza rinascimentale molto popolare in tutta Europa nel corso del XVI secolo. Tale danza era così in voga allora che veniva citata nei manuali di danza di Inghilterra, Francia, Spagna, Germania ed Italia. Come danza, la gagliarda è improvvisata, con ballerini che combinano figure di passi che occupano una o più misure di musica. In una misura, una gagliarda ha in genere cinque passi, in francese il passo di base era chiamato cinq pas e in Italia “cinque passi”. A volte questo è scritto in fonti inglese come sinkapace. Questi passi sono: destra, sinistra, destra, sinistra, cadenza. La gagliarda è una danza atletica, caratterizzata da salti, saltelli e altre figure simili. La caratteristica principale che definisce un passo di gagliarda è che gli ultimi due tempi sono composti da un grande salto che porta ad atterrare con una gamba davanti all’altra. Questo salto è chiamato cadenza e l’atterraggio finale è chiamata posizione. Le fonti descrivono generalmente schemi di movimento a partire con il piede sinistro, poi ripetuto con il destro. Alcuni tipi di gagliarda possono durare anche il doppio del tempo, o più, comportando 11 passi o 17 e così via. La gagliarda era un ballo favorito della regina Elisabetta I e anche se è piuttosto una danza vigorosa. Pensate che nel 1589 quando la regina Elisabetta I, aveva intorno ai 55 anni, John Stanhope valletto della regina disse: “La regina danza sei o sette gagliarde in una mattinata, oltre alla musica ed al canto è il suo esercizio preferito.” Una curiosità, nelle composizioni musicali relative alla gagliarda, pare siano state scritte ed eseguite molto tempo dopo che la danza era già caduta in disuso presso il grande pubblico. La seconda curiosità è che nelle composizioni musicali, la gagliarda ricoprì spesso il ruolo di dopo danza scritto in 6, e il distintivo sesto battito della frase si sente ancora oggi nell’inno nazionale Britannico: “God Save the Queen. Terza ed ultima curiosità in certe regioni italiane si dice 2peso gagliardo” per indicare un peso che supera abbondantemente la misura
Favria, 10.2.2015 Giorgio COrtese

L’esperienza mi ricorda sempre che bisogna, qualche volta, chiudere un occhio, ma che non bisogna mai chiuderli tutt’e due.