da Torino a san Besso passando per Cogne tratto da “L’articolato sistema di valori del pensionato torinese”

Mi piace condividere un post particolarmente simpatico tratto dal sitoL’articolato sistema di valori del pensionato torinese”  che mi è stato segnalato poiche coinvolge la valle Soana con un interessante articolo relativo ad una ascensione al Santuario di San Besso con partenza da Torino e ritorno a … porta Susa, attraverso un itinerario assai insolito! Il simpatico racconto è stato scritto con un linguaggio a metà  tra la lingua italiana ed il dialetto Torinese e potrebbe presentare qualche problema di interpretazione ma sono confidente che ne varrà la pena. Ancora un sentito grazie ai simpatici autori che mi permetterei di invitare a san Besso in un giorno piu propizio, il 10 Agosto oppure il Dicembre!

E allora, siam rimasti che io, il Doro e l’altro coscritto di Sassi eravamo lì, attaccati a una riva da qualche parte per la valle Soana, in mezzo all’urissi con delle stisse d’acqua grandi come delle secchiate e con il pacioc che ci arrivava alle caviglie. Vai a sapere come abbiam fatto a non rimanere stronati da qualche lampo o a piantare uno sghione nella pauta e prendere l’andi giù per la montagna. D’ogni modo, quando che il temporale si è pasiato eravamo più morti che vivi. A me erano caduti i salami e il barachin della giardiniera: il vento li aveva staccati via e non avevo fatto in tempo a chiapparli. Quello di Sassi tremava come una foglia e batteva i denti, che come al solito non si capiva se stesse male sul serio o facesse solo cine e per sicurezza due patele gliele abbiamo mollate comunque. Il vento gli aveva tirato in faccia una pigna da mezzo chilo che gli aveva centrato in pieno l’unico occhio buono, e andava avanti a tastoni con gli occhi pesti e burinfi che sembrava un babi.
Il Doro era più che altro ferito nell’orgoglio, perché mentre correvamo gli era venuto via anche l’ultimo pezzo di braghe, ed era lì tutto magonato che si parava con l’elmetto africano non dico dove. Aveva anche il sagrin perché prima di partire aveva contato alla Gemma, la sua mezza fiamma dell’epoca, che andava a scalare il monte Rosa e che noi due gli venivamo dietro per portargli le piccozze e il zaino, come quelli che vanno sull’Imalaia e si portano dietro i serpa; e adesso la roba di tornare giù in mutande e pieno di pacioc gli dava proprio i nervi. Ha attaccato che visto che eravamo lì tanto valeva fare ancora due passi e arrivare almeno a San Besso, che così non eravamo venuti su per niente; e che meracu al santuario c’era anche una bancarella dove che poteva comperarsi un paio di braghe, che se al ritorno lo pescavano i civic che andava in moto per Torino tutto patanuto bene che andasse lo portavano a Collegno. Noi gli abbiam detto se era venuto cutu, che due minuti prima per poco non rubattavamo giù per la montagna, e che l’unica roba da fare era tornare a casa di corsa come dei cani senza balle; ma il Doro lo sappiamo tutti come è fatto, quando che gli vengono le fisse fa il diavolo a quattro e deve per forza tirare dritto. Ci ha detto di aspettarlo lì e mentre che saliva lo sentivamo tavanare in lontananza che eravamo dei giuda e era l’ultima volta che ci portava in giro sulla Bestia a gratis. Non ci restava tanta roba da fare: intanto che aspettavamo, ci siam stesi lì in un posto dove non c’era tanto pacioc e abbiamo attaccato a fare un sognetto.
Quando che abbiamo aperto gli occhi quello di Sassi è saltato su a fare dei cri, e urlava che forza di prender delle patele negli occhi non ci vedeva quasi più e che l’avevamo rovinato, e chi glielo diceva alla sua morosa che già prima lo sopportava appena. In verità non era lui che era venuto borgno: era che il sognetto era durato un po’ più del previsto, perché si capisce che in montagna senza tanti rumori si riposa meglio, e il sole era belle che sceso. Non sapevamo se essere più sagrinati per il Doro, che a quell’ora lì avrebbe già avuto il tempo di essere tornato, andato su un’altra volta e ritornato di nuovo; o per noi, perché il Doro era l’unico che aveva dato da mente al don Callisto quando che ci aveva spiegato il sentiero per andare avanti e indietro da San Besso a Campiglia Soana, dove che c’era la Bestia parcheggiata, e l’urissi aveva riempito tutta la montagna di pacioc e portato via la pista che avevamo fatto nell’erba.
Per una volta quello di Sassi ha tirato fuori un’idea svicia: ha detto che alle serali gli avevano mostrato come che si conoscono i punti cardinali, che bisogna guardare la parte degli alberi dove cresce il muschio; che se guardavamo gli alberi arrivavamo dritti dritti giù a Campiglia e lì potevamo chiamare se c’era qualcheduno con delle pile o addirittura i cani, che ci aiutasse a ritrovare il Doro. A me ‘sti trucchi dei boiscaut non mi han mai convinto più che tanto, ma non avevamo tanta scelta e abbiamo attaccato a guardare tutti gli alberi dov’è che avevano il muschio, e intanto spiotassavamo a destra e a sinistra come dei ciucatun cercando di non prendere un lembo addosso a qualche roc. Allora, mi fa, sicuro come l’oro che di là c’è l’est; qui la valle va da nord a sud, quindi noi per venir giù dobbiamo prendere dall’altra parte, che è l’ovest. Io avevo sempre più dubbi perché vedevo che dove mi portava lui si rampicava sempre più in su, mentre che per tornare indietro dalla montagna io come prima roba sarei andato in giù. Però, com’è come non è, quello di Sassi era tanto più istruito di noi, che persino il maestro a scuola era rimasto tanto sagrinato quando che aveva mollato lì per andare ad aiutare il padre nei cantieri; e pensavo che delle volte poteva averci ragione lui, che io a fare ‘sti calcoli andavo subito in confusione.
E infatti prima sì, siam saliti tanto, ma così tanto che dopo mi sono andate via le unghie dei piedi, e oramai era tutto buio e battevamo i denti dal freddo e dalla fame; tra l’altro quello di Sassi, forza di camminare coi mocassini della festa, aveva i piedi tutti frusti e a un bel momento ho dovuto portarlo a paticole io, fortuna che era magro come un chiodo. Però poi, quando che siamo arrivati alla fine di ‘sta salita che non finiva mai, abbiam visto che in effetti giù sotto di noi c’eran proprio le lucine del paese, con la chiesetta e le case coi tetti di lose. Ci si è slargato il cuore, soprattutto a quello di Sassi che ha attaccato a dire che aveva ragione lui, che quando che voleva era proprio sviciu e che quando c’erano ‘ste situazioni delicate l’uomo istruito veniva sempre fuori e le sbrogliava. E’ saltato giù e si è messo a correre verso il paese, e io dietro a lui, che avevo già fatto conto di finire congelato e che dopo mi nevicasse sopra e che mi ritrovassero poi dopo chissà quanti secoli tutto secco, come poi è capitato con quell’uomo delle caverne che han trovato su per il Trentino e dopo se lo son litigato coi Striaci.
Non era ancora tanto tardi perché nel paese c’era una pioletta aperta, che abbiamo subito puntato per chiedere una coperta e una roba calda, e poi una mano per ritrovare il nostro amico. Quello di Sassi, come ha visto l’oste, si è messo a contargli tutta la storia in dialetto, per mettere a loro agio i muntagnin che magari non avevano una parlata tanto forbita. Niente: ci ha guardati come uno stravirà ed è stato zitto. Io, che quando c’era la guerra avevo passato un bel po’ di tempo da mio barba a Castelnuovo Nigra, ho provato a ripetergli la roba che aveva detto l’altro con quel po’ che mi ricordavo del dialetto delle montagne del Canavese. Niente: ha sgranato ancora di più gli occhi che sembrava avesse visto la madonna di Oropa. Alla fine, stanchi e stufi di trigare con i dialetti, abbiam fatto che contargliela in italiano, senza tante cerimonie. Il buon uomo ha fatto un sorrisone e ci ha chiamato scusa, che a Cogne non si vedevano tanti forestieri e che non erano tanto domestici con le lingue.
Avrò avuto di sicuro gli occhi iniettati di sangue quando mi sono girato per guardare quello di Sassi; ma lui, che aveva già capito tutto, si era portato avanti e aveva attaccato a dire che non era colpa sua, che sono robe che succedono quando uno gira per la montagna. E praticamente, mentre che andavamo in giro come due cutu a tastare gli alberi per sentire il muschio, avevamo preso il versante sbagliato ed eravamo scesi giù in val d’Aosta. Proprio due asu: a Cogne ci sarà della gente che ride ancora adesso. L’oste poi era proprio una persona graziosa; ha distuppato una grappa che aveva lì nella stagera dei liquori e ci ha messo addosso due coperte, che dobbiamo proprio avergli fatto pena. Dopo, quando ci siam messi davanti al fuoco per fare due parole, ci ha detto che di furastè lì in paese non ne passavano mai, e che combinazione in una sera sola eravamo arrivati noi due e prima ancora un altro mendic, uno che girava in mutande e con un elmetto coloniale in testa, tutto coperto di pacioc, sicuramente ubriaco o matto; che si erano sbaruati tutti perché era nel dopocena e c’erano ancora le masnà a giocare fuori, e avevano fatto venire i carabinieri fin giù da Aosta, che se lo prendessero loro e ne facessero quel che volevano; se n’erano andati giusto un’oretta prima che arrivassimo noi, e l’oste sperava che l’avessero chiuso in qualche cella e avessero tirato via la chiave.
Cosa dovevamo fare? Abbiam preso la prima corriera della mattina e ci siam passati il giorno in questura ad Aosta, finché non ci han ridato il Doro con la raccomandazione che se lo chiappavano un’altra volta lo mandavano a spaccare le pietre. Al pomeriggio siamo andati da un rigattiere a scambiare l’elmetto dell’Eritrea con un paio di braghe vecchie da far mettere al Doro e la sera tardi eravamo finalmente a porta Susa, che a me veniva quasi da baciare per terra e quello di Sassi l’ha fatto veramente. Il Doro ha ringraziato e ha detto che non voleva nessuno e che ritornava a casa da solo; il giorno dopo è andato a riprendersi la Bestia in autostop e c’è voluto un bel po’ di tempo perché gli sbollisse la roba di aver dato via l’elmetto, che ci teneva tanto e gli ricordava di suo nonno buon’anima e della sua gamba di legno e della sua scimmietta ammaestrata che aveva portato dall’Eritrea e che si chiamava Giacomo. A me mia moglie aveva belle fatto dire un rosario, e mia suocera, che era subito venuta a confortare l’inconsolabile, quando mi ha visto ha fatto una faccia tutta magonata, che non ho mai capito se fosse per il sagrin che fossi morto o per il sagrin che non fossi morto.

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