Grazie donatori di sangue!
Quando c’è una festa associativa il primo saluto viene rivolto ai numerosi gruppi ospiti ed alle autorità civili in rappresentanza del Comune.
Ma qui voglio ringraziare i commercianti favriesi per la loro generosità, che ci hanno omaggiato con dei regali e buoni al nostro gruppo ma anche a quelli, pochi che non hanno dato nulla. Li ringrazio tutti, perché se non ci fossero i i negozi e le attività commerciali ed artigianali in Favria, la nostra Comunità non sarebbe viva ma solo un paese dormitorio. Grazie di cuore commercianti per il Vostro lavoro.
Voglio ringraziare tutti i donatori che fanno del bene facendolo bene, donando un semplice braccio ma compiendo un grandissimo atto di umiltà nel chinarsi verso altri esseri umani in difficoltà.
Grazie donatori per la vostra continua adesione ad una politica vincente di fare del bene, bene.
In questa festa è anche motivo di fare dei bilanci, come gruppo il bilancio non può essere che positivo.
Grazie donatori che dalla fondazione del Gruppo hanno donato in questi 30 anni circa 11.395 sacche un vero fiume gagliardo di solidarietà che onora Favria e tutta la Comunità in questo indispensabile gesto di amore, di solidarietà, di amicizia.
Dico “indispensabile” perché è la pura realtà.
Senza sangue non si vive, senza l’offerta del donatore molte persone sarebbero in pericolo di vita; non si potrebbero effettuare trapianti né eseguire grossi interventi chirurgici. Senza sangue molte sale operatorie rimarrebbero chiuse. Ma chi sono questi “meravigliosi portatori di vita” della nostra Comunità? Non portano sfavillanti divise, ne utilizzano costosi mezzi, ne lustrini colorati, ma sono delle semplici casalinghe, dei professionisti, agricoltori, studenti, artigiani, operai e commercianti e tutori delle forze dell’ordine.
Insomma tutte persone che hanno compreso la necessità di chi soffre e che hanno dedicato e dedicano qualche ora del loro tempo ad aiutarlo con il loro dono.
Grazie donatori
Attualmente la sezione ha 370 donatori attivi con una raccolta in questi primi 6 mesi di numero 245 sacche complessive. Vorrei raccoglierli tutti, gli attuali e chi per motivi di età e salute non può più donare raccoglierli tutti in un largo abbraccio e ringraziarli per la loro fedeltà all’ideale che hanno scelto e in cui credono.
A coloro che ci hanno lasciato va il mio e del Direttivo il ricordo riconoscente, e pertanto ci raccogliamo in un minuto di silenzio.
Grazie donatori!
Ai donatori attivi, il sincero augurio di buona salute per continuare nel loro gesto. A chi per motivi di età e di salute non può più donare la nostra eterna riconoscenza.
A chi non ha mai “provato” la bellezza e la soddisfazione che dà la donazione, l’invito ad unirsi a noi per concorrere a coprire tutte le esigenze dei nostri ospedali, ma soprattutto del povero più povero: l’ammalato.
Chiunque sia in buone condizioni di salute ed abbia un peso corporeo superiore a 50 Kg con un età compresa tra 18 anni, fino a 60 se alla prima donazione, 65 ed oltre a giudizio medico per il donatore periodico e che goda di buona salute.
Ricordo che, come da indicazioni del nostro Centro Trasfusionale di Riferimento (Banca del Sangue del Presidio Ospedaliero Molinette di Torino) viene applicata la procedura della Donazione differita. In sintesi, ai “Candidati Donatori” che si presentano al prelievo per la prima volta e che non hanno mai effettuato donazioni di sangue o emocomponenti, gli vengono effettuati esclusivamente degli esami. Successivamente, se sulla base degli esiti dei referti, se risulteranno idonei, potranno diventare “Donatori” e proseguire in questo importante percorso.
Infine un appello ai giovani invitandoVi a collegarVi col gruppo giovani dell’associazione tramite internet proprio per aumentare le loro conoscenze, per partecipare a eventi che uniscano ancora di più i donatori.
Avanti così, Donatrici e Donatori Fidas di Favria e a tutti, quindi, sono rivolte queste poche parole sicuri che ognuno troverà stimoli e certezze.
Prima di concludere ricordo che alla fine del 2018 scade il mandato del Direttivo Gruppo e anche del sottoscritto e sarei felice di vedere entrare nel Direttivo persone che abbiamo voglia di fare puro volontariato e perché un nuovo Presidente
Coraggio fatevi avanti. gRAZIE per quanto fate TUTTI ed evviva la Fidas adsp!
Favria, 10.06.2018 Giorgio Cortese
La vita non è’ fatta di cose incredibili, fantastiche. E’ fatta di piccole cose, ma quando non chiedo l’impossibile, quelle piccole cose si trasformano in realtà eccezionali.
Dimergolare con acrimonia
Dimergolare significa rimuove un chiodo agitandolo; scuotere, barcollare, tentennare, deriva dal latino demergulare, derivato da merga, forcone. Nella vita quotidiana ci sono centinaia di gesti minutissimi che compio senza dar loro un nome. Questo è uno di quelli, per esempio davanti ad un chiodo nel pollaio rimasto conficcato nel legno e, cerco di rimuoverlo con una pinza. Il movimento che faccio, specie se non mi importa molto di rovinare il materiale in cui è confitto, è il dimergolare. Una serie di movimenti da una parte all’altra, o circolari, che lo smuovono e gli allargano lo spazio perché possa essere divelto. Un movimento che ho naturalmente nelle mani, più che nelle parole. La parola come scritto prima deriva dal latino merga, forcone. Il tridente che una volta si usava per i covoni, si infilava le punte nel fascio di spighe, per poi per posarle si doveva posarlo si doveva scrollare il forcone, da qui nasce il lemma il dimergolare. Si dimergola il mestolo per girare la pasta, in cui si sono infilati degli spaghetti, oppure dimergolo le freccette lanciate contro il bersaglio. Questo scuotimento si accosta poi anche, il significato di tentennare, di barcollare. Se lo scaffale è stato montato male, una volta caricato di scatole dimergola pericolosamente ogni volta che qualcuno ci appoggia sopra qualcosa. Queste azioni si compiono, certe volte, con acromina, con asprezza astiosa, livore. Acromina, parola che deriva dal latino acrimonia, derivato di acer, acre. Il termine acrimonia non significa un sentimento lucido e pulito, anzi, è un’asprezza corrosiva, torbida di un astio grasso, mossa da un livore rabbioso e perfino rancoroso. Insomma, può toccare delle intensità di significato davvero incandescente. Una parola elegante che ha la sua sostanza in un richiamo, piano ed essenziale, all’acre, qualità gustativa e olfattiva. Tutta la passione di un sentimento positivo si raffredda senza perdere la potenza della descrizione. Se mi viene fatta una considerazione graffiante rispondo da subito nel chiedere del perché di tanta acrimonia. Ma certe persone continuano abbinandola al dimergolare, insomma mettono sempre il sito sulla piaga.
Favria 11.06.2018 Giorgio Cortese
Nella vita le piccole quotidiane opportunità sono spesso l’inizio di grandi imprese
Pietro, homo faber fortunae suae!
Di solito si usa questa frase latina per indicare che l’essere umano è l’artefice del proprio destino, a differenza di quello che comunemente viene definito il “fato”, responsabile delle decisioni della nostra vita. La fortuna viene definita come qualcosa di inaspettato, di imprevedibile, casuale, ma che è dalla nostra parte. Certo a questo si deve aggiungere il disegno di Dio, mi domando davvero se esiste la fortuna? O come disse Cesare, siamo noi a fabbricarla? Mi tocca dare ragione a quest’ultimo, perchè solo noi siamo in grado, col giusto impegno, di produrre qualcosa e ottenere dei risultati. Mi riferisco alle recente onorificenza avuta come Cavaliere della Repubblica Italiana avuta dal Rag. Pietro Tomaino classe 1951 che a soli 13 mesi , quando già camminava, venne colpito dalla poliomielite, a quei tempi malattia molto diffusa, che gli paralizzò entrambe le gambe , non dandogli più, da quel momento , la possibilità di camminare. Dalla natia Calabria i suoi genitori di umili origini emigrarono in Piemonte per cercare delle cure. Dopo la scuola primaria, Pietro dovette affrontare l’ennesima sfida, non poteva accedere alle iscrizioni per frequentare le scuole medie, poiché le strutture di allora non erano idonee a ricevere ragazzi portatori di handicap e la sua famiglia decisi di mandarlo nel collegio Don Orione “Piccolo Cottolengo Mutilatini”, a Milano, dove frequentò le medie e i primi tre anni delle superiori, conseguendo a giugno del 1969 il diploma professionale di Contabile d’Azienda. Durante il suo primo lavoro nel lontano 1969 come impiegato e, tra le varie mansioni c’era quella di fare le paghe dei dipendenti e questo lavoro lo affascinò particolarmente. Da questa passione Pietro decise di diventare Consulente del Lavoro, per poter un giorno avviare uno Studio tutto suo. Conseguendo con tenacia il diploma da ragioniere, frequentando dopo il lavoro in ufficio i corsi serali a Torino prendendo ogni giorno il treno da Favria per Torino rientrando a casa tutte le sere all’una di notte con l’ultima corsa delle ore 24,00. Nel 1972 consegue la maturità di Ragioniere e nel 1974 supera l’esame di consulente del lavoro iscrivendosi poi all’albo. Nello stesso anno inizia l’attività professionale presso la propria abitazione acquistando una macchina futuristica per allora, la OLIVETTI P203 a schede magnetiche, grazie al quale nell’ottobre del 1974 uscirono i primi cedolini meccanografici, con stupore dei clienti e la sua gioia nell’animo che gli ripagava tutti i sacrifici compiuti in quei anni. Sposa nel 1976 Angela che lo ha sempre poi sostenuto, creando un sodalizio sia nella vita privata che in quella lavorativa che dura da quarant’anni. Nel 2006 inaugura l’attuale sede in un palazzo storico a Rivarolo C.se da lui ristrutturato, composto da 5 piani di uffici, comprensivi di locali per archivio, sala riunioni e sala corsi: “un palazzo uffici” dove all’interno l’organico raggiunge le 20 unità e dove lavorano i figli Stefano del 1977, Davide del 1982 e Roberto nel 1985, nel 1998 gli nasce il quarto figlio Gianluca, che precedeva il suo primo traguardo: 25 anni di attività con un organico di dieci dipendenti. Pietro ha ricoperto altri incarichi come segretario nella cooperativa di garanzia CAG DEL CANAVESE fino al 2009 supportando in quel periodo più di 1.000 aziende del territorio. Nel 1999 venne chiamato a far parte del Lions Club Alto Canavese di Castellamonte dove tutt’ora è socio attivo e qui con questo club ha realizzato innumerevoli services quali la costruzione in Kenia di un laboratorio per bambini disabili, service che presentò a Roma nell’udienza del 29 aprile 2009 a Papa Benedetto. per questo e per l’intervento effettuato sempre nel 2009 a favore delle vittime del sisma dell’Aquila con contributi proficui verso case di cura, scuole ed enti morali ricevette nel 2012 da parte del “Lions Clubs International Fondation” la massima onorificenza “ Melvin Jones Fellow”. Nel 2000 fu chiamato a far parte della commissione restauri della parrocchia di Favria dove contribuì attivamente alla realizzazione del risanamento conservativo degli affreschi e delle parti storiche dell’intera parrocchia. Pietro è l’esempio di “Faber est suae quisque fortunae”, ovvero, ciascuno è artefice della sua fortuna. Sono persone come lui che scelgono al bivio, se con il loro ruolo che ricoprono possono migliorare o peggiorare le cose. A loro il compito di prendersi cura del territorio che abitano, in cui lavorano e producono. E se, come credo fortemente, l’Economia è l’arte di amministrare bene. Beh questo ne è l’esempio lampante. La vita di Pietro è stata in salita ha dovuto con caparbia volontà uscire dall’ombra della valle dove la poliomelite voleva confinarlo ed è risalito sulla vetta della vita senza mai dimenticare le persone che hanno bisogno facendo bene del bene. Personalmente mi onoro di essere suo amico.
Favria 12.06. 2018 Giorgio Cortese
Certe volte, giusto è giusto, anche se nessuno lo sta facendo. Sbagliato è sbagliato, anche se tutti lo stanno facendo.
L’eutrapelia con armonia.
Ho trovato queste due parole per esprime il concetto che se siamo tanto fortunati da trovare il tipo di vita che ci piace, dobbiamo anche trovare il coraggio di viverla. Per fare questo abbiamo bisogno dell’eutrapelia, la quale ci permette di comportarci piacevolmente e di divertirci con un certo garbo. La parola deriva dal greco antico, composta da eu bene e trepò volgere. Se il vivere in maniera civile con i nostri simili ha delle basi una queste è, appunto, l’eutrapelìa. Si tratta di una vera e propria qualità morale, per come è descritta nell’Etica di Aristotele e nell’opera incompiuta detta Convivio di Dante. Essa consiste nella capacità di vivere il divertimento in maniera controllata, specie in compagnia, e di porci con gli altri in maniera piacevole e lieti. Aristotele la pone come giusto mezzo fra boria e buffoneria, e Dante la rimarca come inclinazione a godere convivialmente con cordialità e affetto. Insomma una virtù che ha due caratteristiche, il sorriso e la misura. Certo la graffiante satira subito sembra che sia piacevole ma nella visione del vivere con i nostri simili è l’eutrapelìa ad assicurare alla lunga il più piacevole risultato. L’ eutrapelìa è la capacità di piacere e contentezza da ognu situazione con sano ottimismo. Solo cos’ si può raggiungere l’armonia, altra parola dal greco, derivante da armozein connettere, collegare. Dalla stessa radice ar, che indica unione, disposizione, comune anche le parole arte ed aritmetica. L’armonia nella musica, nelle parole, nei pensieri, nelle relazioni, e poi nei colori, e poi nei movimenti, nelle voci, nel vestire, nella calligrafia e nella linea, e in ogni altra sfaccettatura ormata di bellezza che la vita mi presenta. Ma armonia non è solo una concordia di emozioni, un’unità di intenti. L’armonia è l’incastro perfetto dela nostra società, fatta di travi, gli esseri umani che assemblati nello scafo completo della società, con unità di intenti, riusciamo insieme a moverci ed andare avanti nel mare tempestosos della vita quotidiana. In conclusione se insieme volgiamo al Bene, penso che ogno giorno dobbiamo allenare il muscolo morale dell’eutrapelìa per sapere trarre e offrire un piacere moderato, senza freddezza e insensibilità, una base solida su cui costruire la nostra vita quotidiana.
Favria, 13.06.2018 Giorgio Cortese
L’umiltà e la semplicità sono le due vere sorgenti della bellezza.
I libri
Che forza i i libri, il tempo li può deformare, li può distruggere, ma ecco la loro tenace resistenza ad opporsi a questi eventi, questa è la loro da forza. I libri soppravvivono sempre. I libri portano incise sulla carta le parole. Certo il libri sono fragili e possono essere censurati ma alla lunga la forza delle loro parole prevale. Chi legge libri ha la macchina del tempo perché leggendo si dilata il tempo del vivere. W i libei ed evviva la lettura!
Favria, 14.06.2018 Giorgio Cortese
Ogni mattina penso che la giornata che sto per iniziare non è un giorno qualunque ed i giorni che verranno dipenderanno da cosa faccio oggi
Lo strano incontro.
Una domenica mattina lo trovo davanti al mio abituale percorso, è a circa un metro di distanza e mi osserva con i suoi occhi neri. Mi precede ed ogni tanto si gira per vedere se lo seguo e non va via. E’ piccolo e nero ma non è Calimero, è un semplice merlo, con un becco giallo acceso il corpo nero come la notte. Lo guardo, e questo pennuto mi guarda fisso con gli occhietti scuri, mi sembra di conoscerli, mi squadra tutto, e chissà come mi vede, faccio un passo avanti e lui saltellando mi precede e questo strano accompagnatore mi guida per un bel tratto poi in un attimo vola via e scompare, vola libero tra le nuvole, lasciandomi in mente la sua immagine, la forma dei suoi occhi, che continuano a sembrarmi familiari. Probabilmente la prossima domenica, come è già successo, nella stessa via accadrà la stessa cosa: ci fisseremo, e poi in un momento volerà via lasciandomi sempre a pensare ai suoi occhietti scuri. E’ proprio vero che sulla tela della vita con le nostre mani dipingiamo i percorsi delle nostre ambizioni sfumandone i contorni e poi basta un semplice merlo con i suoi occhi scuri che mi ricorda che nella vita nonostante tutti i problemi che si deve convivere è immancabilmente bella.
Favria, 15.06.2018 Giorgio Cortese
L’amicizia è nelle bocche di tanti ma nell’animo di pochi.
Il declino dell’apartheid, 16 giugno 1976
Negli anni Settanta il Sudafrica razzista vive forti tensioni per via del regime di segregazione, la famigerata apartheid, a cui è sotto posta la popolazione di colore. La goccia che fa traboccare il vaso è il decreto del governo che impone come obbligatoria nelle scuole dei neri, alla pari dell’inglese, la lingua dei coloni boeri afrikaans, considerata simbolo di oppressione. Il 16 giugno 1976 una manifestazione pacifica di studenti ed insegnanti a Soweto, enorme area periferica di Johannesburg, abitata da africani, sfocia in un massacro. La polizia apre il fuoco e uccide molti dimostranti compreso un ragazzino nemmeno tredicenne, Henri Pieterson, il cui corpo esami diviene subito una icona della protesta. Seguono dici lunghi giorni di aspi scontri, con centinaia di morti, che coinvolgono tutto il Paese. La rivolta è soffocata nel sangue, ma per il prestigio internazionale del Sudafrica è un duro colpo che porta a sanzioni economiche nei sui riguardi. Su ouò dire che la rivolta di Soweto è l’inizio della fine per l’apartheid in quel Paese.
Favria 16.06.2018 Giorgio Cortese
Gli alberi sono il grande alfabeto di Dio. Con loro Egli Scrive, in verde brillante in tutto il mondo, i suoi pensieri sereni
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Gironi ed la crina e Girometa!
Gironi ed la crina era una tipica maschera piemontese nel teatro dei burattini, detto Gerolamo puntuto. La denominazione è dovuta al fatto che questa maschera è raffigurata come un nano che va in giro suonando il violone o il contrabbasso, strumenti detti scherzosamente crina poiché il suono assomiglia vagamente al grugnino di una scrofa, detta in piemontese crina. Deriva dal nome Gerolamo oltre a Gironi deriva anche Girometa o Girometta soprannome canzonatorio di un ritornello in una canzone scherzosa ed era anche la maschera piemontese moglie di Giromi ed la crina. Da li nasce una diffusa canzone piemontese diffusa nel XVII: “ La bella Girometta”, in cui si descrivono le varie parti del vestito della protagonista
Favria, 17.06.2018 Giorgio Cortese
Certi giorni bisogna scegliere il bersaglio dopo il tiro!
Batracomiomachia, la stupidità della guerra!
In questa calde sere le rane di un campo vicino hanno ripreso il loro gracchiare a cui rispondono delle rane di un altro campo. Questo concento mi ha fatto ricordare un libro che avevo letto da adolescente. la “Batracomiomachia” la guerra tra rane e topi, un breve poema di 303 versi di autore sconosciuto, sicuramente una persona colta che scrive e smitizza il poema epico. L’autore ha voluto divertirsi ma si è tradito come “ellenista” per la cura dei dettagli descrittivi che quasi sempre manca nell’epica omerica. Il topo “rapito” può richiamare l’Elena rapita o il rapimento di Europa da parte di Zeus, che la porta a Creta. Dopo questo preambolo. Nel racconto gli dei sono meno umanizzati, Atena infatti non prende le parti dei topi che le hanno rovinato una preziosa veste che si era fatta ricamare a credito e che ora non sa più come fare; né quella delle rane perché con il loro gracidare le disturbano il sonno! E conclude: “Lasciamo che si scannino, godiamoci lo spettacolo della battaglia”. Prima di iniziare i nomi che leggiamo ci sono giunti dalla traduzione di Leopardi, con nomi di sapore disneyano dei topi e delle rane: Gonfiagote, Rubabriciole, Rodipan, Laccamacine, Mangiaprosciutti, Leccapiatti, Montapignatte, Leccaluomo, Fangoso Sbucatore, Bietolaio, Moltivoce, Godipalude, Rubatocchi, Insidiapane, Porricolore, Fanghino, Rubamolliche, Mangiagrano, Foraprosciutti, Godilacqua, Giacinelfango, Scavaformaggio, Ecco penso che le rane vicino a casa nel loro gracchiare cantino di questa lontana ma sempre attuale storia, di quanto è stupida la guerra. La storia inizia con la sfortunata morte di Rubabriciole, figlio del re dei topi Rodipane che, uscito in esplorazione dello stagno in groppa ad una rana Gonfiagote, che spaventata da una biscia d’acqua scappa, ed il il topo viene mangiato. Inizia la guerra. Rodipane, incita il suo popolo alla vendetta per la morte del suo valoroso figlio, contro le rane, esseri immondi, metà pesci e metà animali terrestri, mangiafoglie mollicce, buone solo a disturbare il sonno degli abitanti dello stagno con il loro odioso gracidio! Guerra e morte alle viscide! Vendetta! L’esercito si prepara: per tutta la notte i topi rosicchiano, tagliano, legano, graffiano creando armi con lunghi aghi che diventano temibili spade, gusci di noci che diventano elmi, tappi di bottiglia che diventano scudi, un picciolo appuntito che diventa baionetta. Al mattino presto l’esercito dei roditori si mette in matcia verso lo stagno. “Guai a voi rane che avere ucciso Rubabriciole, figlio del nostro re Rodipane! La nostra collera esca vincitrice dalla guerra che vi dichiariamo!” Sulla palude cade il silenzio, la rana Godilacqua la più saggia e rispettata prova invano a convincere le rane ad onorare il morto e piangerlo con i topi “Pazze che siete! Tanti topi moriranno e ancora più rane non vedranno la luce dell’indomani. Lo stagno sarà avvelenato per molte estasi e non offrirà più ai sopravvissuti un luogo dove cantare e gracidare sereni.” Ma il popolo delle rane, fiero e sovreccitato grida “ scorra il sangue morte ai sozzoni” e Gonfiagote raduna il suo esercito e bardate di tutto punto le schiere si fronteggiano, si affrontano con canti di guerra e grida di intimidazione. E la battaglia delle rane e dei topi inizia efferata, spietata, il sangue scorre, i corpi cadono a terra esanimi, uno dopo l’altro nomi illustri dell’uno e dell’altro schieramento cadono in battaglia, finché Godilacqua interviene e chiede di poter sfidare il più valoroso dei topi a duello in modo da mettere fine alla battaglia delle rane e dei topi. Si fa avanti Scavacacio e il duello tra i due inizia “Oggi di noi due ne sopravviverà uno solo, ma ricorda che nessuno sopravvive veramente alla guerra”. Attorno a loro la battaglia si ferma, tutti li guardano senza dire una parola, ma l’esito del duello ha una fine inattesa per entrambi gli schieramenti: i due combattenti riescono a ferirsi mortalmente l’un l’altro e la guerra finisce. Ecco la battaglia delle rane e dei topi è finita. Ma chi ha vinto? Le rane tornano a casa convinte di aver vinto, i topi vanno a casa dicendo che giustizia è stata fatta. Stupidi gli uni e gli altri mentre sulla terra rimangono cadaveri, convinti di aver vinto, quando come Godilacqua la saggia aveva predetto, tutti hanno perso perché Zeus manda i granchi a sterminarli tutti. La battaglia delle rane e dei topi è la stupidità della guerra e l’ottusità di chi la combatte. La morale è che la guerra tutto distrugge e tutto spazza via. Una cuoriosità secondo Leopardi i topi erano i patrioti italiani, le rane i soldati pontifici e borbonici e i granchi gli austriaci. Oggi sarebbe divertente vedere chi sarebbero i topi ora e chi le rane e i granchi. Forse sarebbe utile riflettere, spostandoci nello stagno e dallo stagno osservare, prendere appunti e studiare, sentire le rane fare solo cra cra cra e guardare i topi sulla riva, senza un traghettatore e dovremmo arginare i granchi che organizzano taglienti chele per fare a pezzi e uccidere la democrazia. Sarebbe un insegnamento per tutti, ma nessuno ascolta la classicità, sono suoni troppi lontani o troppo vicini per essere uditi nel rumore della contemporaneità. Tutti presi dalle connessioni con gli smartphone per se ascoltare gli aedi che suonarono e cantarono ma i rapsodi devono ancora riportare i loro canti a noi dal V secolo a.C.
Favria, 18.06.2018 Giorgio Cortese
Una foto è un istante arrestato, il più forte, il più toccante, il più doloroso