I Mercedari. – 14 agosto 1480, i martiri di Otranto. – Ël Drapò a deuv vive. Inno del Piemonte. – I lifeguards americani . – Perché donare il plasma. – Perché donare il plasma. – La ruta – Il potere di salvare la vita l’abbiamo nel sangue…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

I Mercedari. La Beata Vergine Maria è considerata a tutti gli effetti l’ispiratrice della fondazione, da parte di

San Pietro Nolasco, 1180-1245, dell’antico Ordine della Mercede; il titolo con cui viene onorata è strettamente correlato alla storia di quest’Ordine, che da lei prese la denominazione. Ordine fondato da S. Pietro Nolasco nacque a Mais Saintes Puellas (Tolosa, Francia) verso il 1180 e fin da adolescente si stabilì con la famiglia a Barcellona in Spagna. La prima notizia della sua presenza a Barcellona si ha nel 1203, quando profondamente addolorato nel vedere lo stato miserevole dei cristiani fatti schiavi dai Mori, padroni allora di gran parte della Spagna, egli si trasformò in mercante, per insinuarsi facilmente tra i maomettani ed a Valenza liberò con suo denaro trecento schiavi. Esaurite le sua ricchezze, si unì ad altri generosi e nobili giovani, per raccogliere offerte e quindi ripetere ogni anno il riscatto di gruppi di schiavi; ma per quanta solerzia impiegassero in questa meritoria opera, vedevano il numero degli schiavi aumentare sempre più. Bisogna dire che in precedenza vari re e Ordini militari si erano occupati del riscatto degli schiavi, in Francia per esempio era sorto l’Ordine dei Trinitari che se ne interessava, ma molto limitatamente, mentre gli Ordini militari si erano presto estinti. La situazione degli schiavi, trasportati nei Paesi arabi dai musulmani, era diventata angosciante per Pietro Nolasco e i suoi compagni, che nei 15 anni trascorsi, avevano operato altri cinque grandi riscatti detti “redenzioni” per migliaia di cristiani. Pietro ad un certo punto valutò la possibilità di ritirarsi a vita contemplativa, sentendosi impotente ad arginare la situazione, alimentata in continuazione dai Mori di Spagna. E in una di queste veglie di preghiera, la notte fra il 1° e il 2 agosto 1218, la Vergine Maria gli ispirò, illuminando la sua intelligenza, di fondare un Ordine religioso che si dedicasse alle opere di misericordia e specialmente alla redenzione degli schiavi, anche a costo della propria vita. Dopo averne parlato con il giovane re d’Aragona, Giacomo I e con il vescovo di Barcellona, Berenguer, il 10 agosto 1218, Pietro Nolasco costituì ufficialmente il nuovo “Ordine Religioso Redentore”, nella cattedrale di Santa Croce di Barcellona, prendendo la Regola di S. Agostino. Inoltre il vescovo consegnò ai giovani laici del gruppo, la veste di lana bianca in omaggio alla purezza immacolata della Vergine Maria, sotto il cui patrocinio sorgeva l’Ordine; re Giacomo I consegnò loro lo scudo del suo regno d’Aragona come distintivo (quattro sbarre rosse in campo oro) e il vescovo autorizzò di poter portare sopra l’abito la Croce, segno della sua cattedrale. In quel memorabile giorno il re Giacomo I il Conquistatore (1208-1276) regnante dal 1213, donò all’Ordine l’Ospedale di S. Eulalia in Barcellona, che divenne il primo convento dei religiosi (che erano tutti laici, compreso Pietro Nolasco), fungendo anche come casa d’accoglienza per gli schiavi liberati e sede delle opere di misericordia a favore degli infermi e poveri. Sotto la guida del fondatore, si mise in moto un’organizzazione a favore della libertà dei cristiani messi in schiavitù, che oltre ad aver persa la libertà, erano in pericolo per le pressioni e sofferenze inflitte, di abiurare la propria fede e passare all’islamismo. La ‘redenzione’ avveniva con il pagamento di un riscatto in denaro o altri generi, fatto al padrone mediante una terza persona, la somma variava secondo l’età, le condizioni sociali, economiche e fisiche dei riscattandi. Il denaro veniva raccolto dai religiosi con il contributo di ogni ceto sociale dell’epoca, compreso le famiglie che avevano qualche loro componente schiavo in terra araba, vittima delle scorrerie saracene che funestarono dall’inizio del XIII secolo, le coste di Spagna, Francia, Sardegna, Sicilia e Italia Meridionale. Le ‘redenzioni’ venivano accuratamente preparate, precedute da una cerimonia religiosa prima dell’imbarco; le spedizioni erano dense di pericoli, per i pirati che infestavano il Mediterraneo,i naufragi frequenti, la possibilità di un tradimento degli arabi, che impadronitisi del denaro, trattenevano anche i Mercedari come schiavi, in attesa di un altro riscatto. Innumerevoli furono i religiosi che incontrarono la morte anche atroce, nell’espletare queste missioni redentrici; si calcola che con questo sistema siano stati liberati circa 52.000 schiavi cristiani nei primi 130 anni della costituzione dell’Ordine Religioso. Al ritorno positivo delle spedizioni, veniva cantato in cattedrale un solenne ‘Te Deum’ di ringraziamento, unitamente agli schiavi liberati. Caratteristica eroica dei Mercedari durante le redenzioni, era quella di proporsi al posto di uno schiavo, se il denaro non bastava e rimanere prigionieri fino all’arrivo della somma dall’Europa, cosa che non sempre avveniva in tempo specie per gli agguati dei pirati, allora il religioso veniva ucciso barbaramente per vendetta.
Favria, 13.08.2024  Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita quotidiana donare proviene dal cuore, non già dalle ricchezze. Felice martedì

14 agosto 1480, i martiri di Otranto

Nel luglio del 1480 la città di Otranto viene assalita da una flotta turca comandata dal grande ammiraglio dell’impero ottomano Gedik Ahmet Pascià. La guarnigione aragonese che presidia la città pugliese si ritira perché non è in grado di fronteggiare l’impeto degli assalitori. Così l’11 agosto le milizie musulmane riescono a superare le mura strenuamente difese fino a quel momento soltanto dai cittadini. Ne segue un massacro indiscriminato durato tre giorni, tra le vittime cade anche il vescovo Stefano Pendinelli, ucciso nella sua stessa cattedrale. Il 14 agosto Ahmet Pascià ordina di rastrellare tutti i superstiti di sesso maschile e d’età superiore ai quindici anni. Sono circa ottocento: viene loro proposta la scelta tra l’apostasia e la decapitazione. Risponde per tutti, secondo la tradizione, il vecchio cimatore di lana Antonio Primaldo: «Fin qui ci siamo battuti per la patria e per salvare i nostri beni e la vita: ora bisogna battersi per Gesù Cristo e per salvare i nostri beni e le nostre anime». Allora, a gruppi di cinquanta, i prigionieri vengono portati sulla collina detta “di Minerva”, presso la città, e vengono decapitati. I resti dei “martiri di Otranto” sono oggi custoditi in sette grandi teche all’interno della cattedrale di Otranto. I loro corpi rimasero insepolti per un anno, fino alla cacciata degli ottomani dal centro salentino.

Favria, 14.08.2024  Giorgio Cortese

Buona giornata. Se ogni giorno non  nasce  senza un poco di luce,  cosi non ci svegliamo noi senza una  luce di speranza nell’animo. Felice mercoledì

Ël Drapò a deuv vive. Inno del Piemonte.  15 agosto

La bandiera del Piemonte il Drapò sventola su tutti gli edifici pubblici della regione accanto al tricolore italiano ed al vessillo europeo, come disposto dall’art. 7 della Legge Regionale 31 maggio 2004.   La  bandiera del Piemonte, o meglio, il “drapò è il simbolo”della Regione Piemonte,  venne adottata la prima volta il 15 agosto 1424 da Amedeo VIII, detto il Pacifico, dapprima Conte di Savoia e poi il primo ad assumere il titolo di Duca di Savoia. Ispirato alla bandiera della Savoia, anch’essa composta da una croce bianca in campo rosso, ma senza altri componenti aggiuntivi, il vessillo che i Piemontesi chiamarono subito il “drapò”, fu originariamente destinato al figlio primogenito del duca, in occasione della concessione del titolo di Principe di Piemonte, appannaggio dell’erede al trono a cui viene conferito  il titolo di Principe di Piemonte,  che designa da subito l’erede al trono e individua per la prima volta un territorio ben preciso che si estendeva, più o meno, da Aosta a Nizza  e comprendeva le attuali province di Torino, Vercelli e Biella. Il drapò è composto da una croce bianca o argentata in campo rosso, detta anche Croce di San Giovanni Battista, con i colori esattamente opposti a quelli della Croce di San Giorgio,  il drapò è contornato da un profilo azzurro, azzurro Savoja. La croce è sormontata dal caratteristico simbolo araldico, che contrassegna la primogenitura, detto “lambello”. La figura araldica, dello stesso colore azzurro che contorna la bandiera, è composta da un listello orizzontale, a forma di corona rovesciata,  o rastrello con tre denti, è la sintesi grafica dei nastri frastagliati appesi all’elmo dei primogeniti. E rappresenta  i tre Casati che hanno governato il Piemonte: gli Angiò, gli Acaja, e i Principi di Savoia. Più tardi, il drapòvenne adottato come vessillo ufficiale dai Savoia: i portabandiera delle armate piemontesi lo esibivano in prima linea sui campi di battaglia. Durante l’assedio di Torino del 1706, fu issato sulla Torre Civica di San Gregorio. Il 19 luglio 1747, durante la battaglia dell’Assietta, sventolò accanto ai vessilli e alle insegne che identificavano i vari battaglioni dell’esercito sabaudo. L’autentico drapò piemontese è frangiato con fili dorati:  le frange, alte sette centimetri, contornano tutta la bandiera e rappresentano l’ideale unione di tutti i paesi del Piemonte. Ispirato al drapòè pure lo stemma adottato dalla Regione Piemonte fin dal 1984, così come il gonfalone, un orifiamma o làbaro a sviluppo verticale, che riproduce al centro il vessillo piemontese. Infine l’azzurro del drapò è un’innovazione recente, richiama il colore dinastico dei Savoia dal XIV secolo, a sua volta derivato dalla devozione mariana. Lo stemma di Savoia con il lambello azzurro compare nel 1424, quando il duca Amedeo VIII conferisce al figlio il titolo di Principe di Piemonte, che designa da subito l’erede al trono e individua per la prima volta un territorio ben preciso che si estendeva, più o meno, da Aosta a Nizza e comprendeva le attuali province di Torino, Vercelli e Biella. Lo stemma rosso alla croce d’argento indicava, nel Medioevo, le famiglie alleate con l’Imperatore, Novara, città imperiale, alza infatti la stessa arme, mentre il lambello azzurro,  una sorta di rastrello con tre denti, è la sintesi grafica dei nastri frastagliati appesi all’elmo dei primogeniti. L’azzurro del Drapò, un’innovazione recente, richiama il colore dinastico dei Savoia dal XIV secolo, a sua volta derivato dalla devozione mariana. L’inno inizia con: “Drapò ‘d Piemont a svanta al vento l’ eterna arsorsa dla nòstra gent..”. Il brano si intitola “Ël Drapò a deuv vive”, “La bandiera deve vivere”. Il testo è tratto da due poesie dello scrittore Camillo Brero. L’individuazione del brano è arrivata in seguito all’indicazione del Centro Gianni Oberto, musicato dal maestro Fulvio Creux.  Ecco il testo: “Drapò ‘d Piemont a svanta al vent l’eterna arsorsa dla nòstra gent… Dzora ‘l cel ross ëd glòria che an parla con la vos dla nòstra stòria – sota al lambel che a spòrz l’asur dël cel – la candia cros a slarga ai quatr canton ëd l’infinì ij brass glorios che an forgeran l’avnì. Drapò ‘d Piemont a svanta al vent l’eterna arsorsa dla nòstra gent… Për Piemont e për l’Euròpa, gent dla pian-a e gent dij brich, soma a l’erta, ardì sla piòta con l’ardor dij Gaj antich. Drapò ‘d Piemont a svanta al vent l’eterna arsorsa dla nòstra gent…” Nella   melodia si possono individuare due parti fondamentali, una parte nobile e energica che rappresenta le montagne che circondano il Piemonte. Ma questa terra è anche caratterizzata anche dalla pianura, dalle risaie e dalle colline con i suoi vini, quindi, la seconda parte musicalmente è più dolce, creando un po’ di contrasto con la parte iniziale.

Favria, 15.08.2024  Giorgio Cortese

Ferragosto è una boa intorno a cui vira l’estate. Ma non è ancora tempo di cedere alle malinconie dell’autunno. È il momento di cogliere allegramente il giorno, di morderlo come una fetta d’anguria. Buon Ferragosto, felice giovedì.

Il potere di salvare la vita l’abbiamo nel sangue.

Il potere di salvare la vita l’abbiamo nel sangue. Vieni a donare il sangue, vieni a donare a Favria *GIOVEDI’ 29 AGOSTO*, cortile interno del Comune dalle ore 8 alle ore 11,20. Abbiamo bisogno anche di Te. Attenzione, per evitare assembramenti è necessario sempre prenotare e portare sempre dietro documento identità. a Grazie per la vostra collaborazione. Per info, Cell. 3331714827. Ricordo i requisiti minimi per donare: età compresa tra i 18 e i 60 per la prima volta, poi dai 65 a 70 anni, l’idoneità a donare va valutata dal medico. Grazie se fate passa parola e divulgate il messaggio. Vieni a donare il sangue *GIOVEDI’ 29 Agosto a Favria* e sii un eroe nella vita di qualcuno. Orario dalle ore 8 alle ore 11,00, devi prenotare al cell 3331714827 oppure tramite mail favria@fidasadsp.it

Ricordate che donare il sangue rappresenta il più grande atto di vita che chiunque può compiere. Ogni giorno, in Italia, migliaia di persone sopravvivono grazie a un gesto così semplice ma così importante. Non indugiamo, perché “certe cose” non accadono solo agli altri. Gli “altri” siamo anche noi.

Vieni a donare il sangue  giovedì 29 Agosto a Favria

I lifeguards americani

Nel 1908, 4 milioni di americani affollarono le spiagge di Atlantic City. E non fu un caso isolato. Nel primo decennio del 1900, le coste dell’Atlantico e del Pacifico furono prese d’assalto da bagnanti in fuga dalle metropoli e dal caldo. La scarsa familiarità con le forti correnti e le gigantesche onde oceaniche furono letali: secondo stime ufficiali ogni anno negli Stati Uniti 9mila persone morivano annegate. Dopo il fallimento del tentativo di incaricare del salvataggio gli agenti delle forze dell’ordine, tra il 1912 e il 1914 la Young Men’s Christian Association (YMCA) e la Croce Rossa americana costituirono un corpo di volontari specializzati dotati di dory, la barca a remi a fondo piatto, con campane per lanciare Sos immediati. Da loro nacque il mestiere del lifeguard, il leggendario bagnino oceanico. Gli addestramenti paramilitari dei lifeguards hanno ispirato competizioni internazionali, culminate nei primi Campionati mondiali di salvamento, a Parigi, nel 1955. Le fasi del salvataggio sono state trasformate in undici prove agonistiche, tra le quali il nuoto a ostacoli, il trasporto di un manichino da mettere in salvo, il “lancio della corda” da tirare a un membro della propria squadra che aspetta di essere salvato a 12 metri di distanza.

Favria, 16.08.2024   Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita quotidiana non esistono porte o serrature capaci di resistere a fede e alla speranza. Felice venerdì

Perché donare il plasma.

Donare il sanguenon significa solamente salvare la vita a persone che necessitano di una trasfusione urgente. Donare il sangue significa anche donare una parte di sangue, quella liquida, detta plasma, che non ha il caratteristico colore rosso, bensì giallo. Anche la sua utilità, però, è enorme: il plasma infatti è utilizzato per produrre farmaci salvavita somministrati per numerose patologie come immunodeficienze o neuropatie, che permettono ai pazienti non solo di sopravvivere, ma di vivere una vita normale. Il  plasma è la componente liquida del sangue, nella quale sono sospesi gli elementi corpuscolati o cellulari, globuli rossi, globuli bianchi e piastrine. Formato soprattutto da acqua, che rappresenta approssimativamente il 92% del suo peso, il plasma, ovvero il 55% del sangue totale circolante, è costituito da molte sostanze, tra cui: proteine, glucosio, aminoacidi, lipidi, sodio, potassio, cloro, idrogeno, calcio e bicarbonato, ossigeno, e vitamine. Il plasma viene utilizzato per produrre, attraverso processi di separazione e frazionamento industriale, medicinali plasmaderivati, alcuni dei quali rappresentano veri e propri farmaci “salvavita”. Per donare il plasma è sufficiente sottoporsi a un semplice prelievo effettuato tramite un separatore cellulare, apparecchio che immediatamente separa la parte corpuscolata, ovvero globuli rossi, bianchi e piastrine, dalla componente liquida che viene raccolta in una sacca di circa 600-700 ml. La parte corpuscolata viene reinfusa nel donatore, mentre il volume di liquido che si sottrae con la donazione viene ricostituito grazie a meccanismi naturali di recupero, all’infusione di soluzione fisiologica e all’assunzione di liquidi. Questo processo prende il nome di plasmaferesi e dura circa 40-50 minuti. La donazione è sicura perché tutto quanto viene utilizzato sul donatore è monouso, meno pesante rispetto alla donazione  di sangue . Il fatto  che la vita di una persona possa dipendere dal nostro contributo è sicuramente un motivo valido per non mancare l’appuntamento con la donazione. Inoltre, non bisogna sottovalutare il fatto che i donatori siano sottoposti a controlli gratuiti molto approfonditi. Il sangue, infatti, rappresenta una finestra importantisisma sul nostro stato di salute e permette di rilevare patologie, come ad esempio la leucemia, anche molto precocemente. Donare il sangue vuol dire anche ridare lucidità e speranza a un genitore che tiene per mano un figlio esanime. Donare vuol dire dare una parte di sé a chi soffre. Io vorrei tanto donare ma non posso più farlo perché ho raggiunto i limiti di età e poi ho un tumore,  e questo mi rattrista molto. Donare sangue è donare speranza, e la speranza non va mai negata a nessuno. Tu che puoi, dona!”

Favria, 17.08.2024   Giorgio Cortese

Buona giornata. La generosità è la lingua che i sordi possono sentire e i ciechi possono vedere. Donare è come piantare un seme che cresce in un albero maestoso, vieni a donare giovedì 29 agosto a Favria, per info cell. 3331714827.  Forse non salverai il mondo ma una vita si. Felice  sabato.

Battaglia di Beroia

La battaglia di Beroia  fu combattuta tra i Peceneghi e l’imperatore bizantino Giovanni II Comneno nell’agosto 1122 nell’attuale Bulgaria, presso la città di Beroia, oggi Stara Zagora e  provocò la scomparsa dei Peceneghi come popolo indipendente. Nel 1091 i Peceneghi avevano invaso l’Impero Bizantino ed erano stati sconfitti dal padre di  Giovanni II Comneno, Alessio I Comneno nella battaglia di Levounion. Questa battaglia aveva significato l’estinzione quasi totale dei peceneghi che avevano partecipato alla spedizione; tuttavia un certo numero di peceneghi rimasti indietro furono attaccati nel 1094 dai cumani, i superstiti della battaglia fuggirono o, nella maggior parte dei casi, si stabilirono nei Balcani, senza integrarsi con gli abitanti del luogo. Nel 1122 ci fu una nuova invasione dei peceneghi: dalle steppe russe avevano invaso l’Impero bizantino attraversando la frontiera sul Danubio. Secondo alcuni studiosi è possibile che questa invasione sia stata causata da Vladimir II di Kiev, 1113-1125, re di Kiev. L’Imperatore Giovanni II Comneno di Bisanzio, 1118-1143, era fortemente determinato a fermare gli invasori, che rischiavano di fargli perdere il controllo della parte settentrionale dei  Balcani, quindi trasferì il suo esercito dalla frontiera dell’Asia Minore, dove nel frattempo i bizantini stavano combattendo contro i turchi, in Europa e subito si mise in marcia per andare a combattere i peceneghi. Giovanni riunì il suo esercito vicino a Costantinopoli e disse che bisognava arrivare nel modo più veloce possibile al contatto coi peceneghi, per poi ingaggiare battaglia. Nel frattempo gli invasori avevano installato un accampamento vicino alla città di Beroia in Bulgaria. Giovanni offrì loro un trattato di pace con condizioni favorevoli; si trattava però di un inganno, perché quando la risposta dei peceneghi non era ancora arrivata, Giovanni dette l’ordine di attaccare il loro accampamento. Nonostante i peceneghi fossero stati colti di sorpresa, opposero una strenua resistenza, e nessuno dei due eserciti riusciva ad avere la meglio sull’altro. L’imperatore bizantino ordinò allora alla sua guardia variaga di entrare in battaglia. L’intervento dei Variaghi fu decisivo, perché riuscirono ad accerchiare l’esercito nemico, causandone la disfatta. La vittoria bizantina era completa, i superstiti dell’esercito dei peceneghi furono arruolati nell’esercito bizantino. La vittoria bizantina a Beroia decretò la fine del problema dell’invasione dei peceneghi. Per un certo periodo, i peceneghi rimasti si raggrupparono in Ungheria, ma erano solo una minoranza e ben presto si unirono alla gente del luogo, e il popolo dei peceneghi scomparve. Per i bizantini, tuttavia, la vittoria non condusse immediatamente alla pace nei loro domini nei Balcani: dal 1128 al 1130, l’Impero subì diversi attacchi degli  Ungari, che si conclusero solo dopo che l’Ungheria cadde in una guerra civile. Tuttavia, la battaglia viene contrassegnata come continuazione del ripristino dei Comneni dell’Impero bizantino; queste vittorie sui peceneghi e poi sugli ungheresi permisero ai bizantini di stabilizzare la loro frontiera sul Danubio, permettendo all’imperatore Giovanni II Comneno di concentrare i propri sforzi nella lotta contro i turchi selgiuchidi nell’Asia Minore.

Favria, 18.08.2024  Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno abbiamo il dovere di trasmettere ai nostri figli la speranza. È l’unico modo per preservare il loro diritto di sognare. Felice  domenica

La ruta

La ruta è una pianta molto popolare utilizzata nel corso della storia umana. Si ritiene che i romani lo portassero con sé quando dovevano visitare un prigioniero per proteggerli dal malocchio. I cinesi lo usavano per contrastare i cattivi pensieri. E che dire dei maghi celtici, che credevano che la ruta non solo servisse a curare i malati, ma li proteggesse anche dagli incantesimi.  Si narra che questa pianta  è legata ad Afrodite e a Medea attraverso una storia singolare e dai risvolti cruenti: poiché le donne dell’ isola di Lemno avevano trascurato di omaggiare Afrodite, la Dea si vendicò condannandole ad emanare un odore ripugnante, simile a quello della ruta,  così, gli uomini dovettero abbandonare le loro spose, ma supplirono a tale mancanza procurandosi delle concubine straniere. Le donne tradite uccisero così tutti gli uomini. Un’altra versione del mito racconta della maga Medea protagonista del singolare incantesimo: navigando difatti al largo dell’ isola di Lemno insieme agli Argonauti, fu spinta da un desiderio di vendetta nei confronti di Issipile, una principessa di Lemno, che aveva amato il suo Giasone. Così, Medea inquinò le acque del mare di Lemno con la ruta, che infestò di maleodore le donne che vi si bagnavano. Secondo alcuni botanici la Ruta graveolens è la mitica erba moly descritta da Omero nell’ Odissea, altri l’hanno identificata nella Mandragora, altri ancora nell’ Allium victorialis. La ruta da allora avrebbe avuto una lunga storia legata alla medicina magica delle donne, finendo per confluire nella tradizione erboristica delle streghe moderne. A causa del suo cattivo odore si credeva che fosse in grado di scacciare gli spiriti malvagi e questo ne faceva un talismano vegetale contro il malocchio. In ginecologia era impiegata per provocare il mestruo e per facilitare i parti; in un bizzarro gioco di proprietà contrapposte, era ritenuta afrodisiaca per le donne ma antierotica per gli uomini. Nei testi della Scuola Medica Salernitana rientrava tra i rimedi per la salute degli occhi: “Nobilis est ruta/ quia lumina reddit acuta./ Pianta nobile è la ruta/poiché fa la vista acuta.  Nel 1680  Marguerite d’Orleans costretta a vivere in  un momento di rabbia diede fuoco alla struttura, danneggiando solo il proprio appartamento. Poi scrisse una violentissima lettera al marito che concludeva con questa affermazione: “… Siete un fior di ruta, Dio non vi vuole e il diavolo vi rifiuta

Favria, 19.08.2024   Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita alla fine non conta cosa hai fatto, ma come l’hai fatto.  Io sono felice nell’animo alla sera se ho fatto del bene  durante la giornata. Felice lunedì