Il giglio degli Incas . – Pro Loco Favria brilla nelle serate della Patronale. -Liberia il sogno di libertà. – Patisserie, casus belli. – Araldo, araldica, Eraldo e Aroldo 12 Luglio. – Roundway Down. – Piantaggine. – L’elefante e i sei saggi ciechi…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Il giglio degli Incas. L’alstroemeria è una pianta perenne, appartenente alla famiglia delle

Alstroemeriaceae, dalla forma di un arbusto di piccole dimensioni che raggiunge un’altezza dai venti centimetri fino a due metri. È una pianta di origine sud americana, più precisamente peruviana e delle zone andine, diffusa in un secondo tempo anche in altre parte dell’America: dagli Stati Uniti fino al Cile, Messico ma anche in Nuova Zelanda, Australia, fino ad arrivare nelle isole Canarie e Madeira. Il nome alstroemeria nasce da colui che per primo portò questo bellissimo fiore in Europa nel 1753, il barone Claus Von Alstroemer che donò al suo maestro botanico Linnè i primi semi di questo bellissimo fiore, chiamato anche Giglio Peruviano o Giglio degli Incas oppure ancora Giglio di Pappagallo, grazie alla particolare caratteristica dei suoi fiori somiglianti a dei piccolissimi gigli screziati e tigrati, di vari colori come giallo, rosso, rosa, panna, arancio fino al giallo oro, e dalle foglie verdi, rigide ed appuntite, con la parte inferiore rivolta in alto. I fiori dell’alstroemeria si presentano con dei mazzetti nei fusti carnosi composti da sei petali, di cui tre di un unico colore e tre con puntini di colorazione scura; riescono a mantenere il proprio splendore fino a dieci-quindici giorni dalla fioritura. Per gli antichi Incas, abitanti dell’odierno Perù, questo fiore simboleggiava la sconfitta del male sul bene nei confronti delle tribù rivali. Significato che per secoli lo vide come il fiore scelto per le feste cerimoniali, come rappresentanza di una forza potente che si opponeva a quelle negative; tradizione che durò fino all’avvento dei conquistadores spagnoli. Oggi il significato di queto fiore è notevolmente cambiato, ma continua ad esprimere sempre insieme qualcosa di positivo. Oggigiorno nel linguaggio dei fiori simboleggia la prosperità, l’amicizia, ricchezza e affetto eterno. Per questo motivo è perfetta da regalare a una persona come segno della propria amicizia sincera e profonda, o per celebrare in maniera positiva un’amicizia appena nata. Infine l’alstroemia aggiunta in un mazzo di fiori simboleggia la devozione, tale significato aggiunto a quello dell’amicizia rappresenta la crescita seguita al cambiamento che può avvenire al termine di lunghe amicizie o altri rapporti relazionali.
Favria, 9.07.2024 Giorgio Cortese

Buona giornata. La via dell’uguaglianza si percorre solo in discesa: all’altezza dei burich ed è facilissimo instaurarla. Felice martedì.

Pro Loco Favria brilla nelle serate della Patronale.

La Grande Pro Loco di Favria capitanata dalla presidente Stesy Iannizzi, dall’infaticabile  Direttivo e dai tanti volontari che li hanno supportati ha appena concluso i cinque giorni di festa Patronale.  L’evento a Favria cade alla fine del mese di giugno ed è un magnete per il territorio e la Pro Loco con la sua presenza e offerta gastronomica, unita all’effervescente animazione davanti ai suoi stand. Ha dato un valore aggiunto al grande evento Favriese che si è concluso con dei bellissimi fuochi d’artificio, e ci sono tanti i modi di dire buonanotte e fine della Festa Patrona e loro sono fantastici, alzo il naso all’insù a guardarli esattamente come quando ero bambino  e poi dopo,  una volta finiti, ci restituiscono un cielo più vasto e silenzioso. Parlando della Pro Loco di Favria fa riflettere su quanto afferma la Presidente: “ Una settimana fa a quest’ora eravamo nel pieno dei preparativi e se non fosse per la stanchezza, vorrei ritornare a quel momento e ricominciare tutto da capo”. In queste poche parole si nota subito l’entusiasmo e la passione per la festa Patronale, l’evento più importante nel calendario religioso e civile della  Comunità Favriese. Certo per i volontari, Direttivo e Presidente, che meriterebbero tutti una citazione per l’impegno profuso sono stati 5 giorni intensi, ma tutti insieme sono un valore aggiunto a questo meraviglioso evento. La magia della Pro Loco di Favria, che non sono professionisti che di mestiere lavorano nella ristorazione o nell’intrattenimento, ma con il cemento dell’amicizia unito all’allegria e alla complice empatia  hanno lavorato con lena fino alle ore piccole, poi il giorno dopo, alla sera di nuovo pronti a ricominciare con immutato entusiasmo, sempre con il sorriso sul volto, sempre super disponibili ed energici pronti a lavorare e far festa. La Pro Loco di Favria, dopo  La Filarmonica Favriese e gli Alpini ritengo che sia l’associazione più longeva, la sua fondazione risale alla fine degli anni 70 come Pro Favria e poi organizzarono il  primo  dei grandi Carnevali  nel 76 o 77. Negli anni 80 divenne Pro Loco e poi  dopo 1982 i organizzarono l’ultimo carnevale. A Favria per l’impegno per speso alla festa Patronale, la Pro Loco è più brillante della stella Sirio, la più luminosa nel cielo notturno, Sirio significa in greco incandescente  e il Presidente, Direttivo e volontari fanno fiammeggiare i nostri animi di sincera gratitudine in ogni evento dove loro partecipano.

Liberia il sogno di libertà.

All’inizio del XIX secolo negli Stati Uniti la popolazione di neri liberi cresceva di anno in anno. Erano ex schiavi di origine africana che avevano da poco ottenuto la libertà grazie alla progressiva abolizione della schiavitù nella parte settentrionale del Paese, o in alcuni casi per decisione individuale di singoli proprietari del sud. Lo stesso presidente George Washington ordinò che alla sua morte i suoi 160 schiavi fossero liberati. Tale sviluppo alimentò paure di vario tipo. Molti bianchi mettevano in dubbio la capacità degli ex schiavi d’integrarsi nella società statunitense, e anche coloro che simpatizzavano con i neri constatavano che il resto della gente li discriminava per motivi razziali. I proprietari di schiavi, da parte loro, temevano che le persone liberate avrebbero incitato alla rivolta chi ancora si trovava in schiavitù. Considerando che i neri affrancati non avevano futuro negli Stati Uniti, diventava necessario trovare e loro una nuova casa. Nacque così il movimento per la colonizzazione, che sosteneva il trasferimento degli schiavi emancipati in Africa per fondare colonie di neri liberi. La marcia verso l’Africa Sebbene ci fossero dei precedenti, l’idea prese forma solo nel 1816, quando un gruppo di filantropi fondò l’American Colonization Society, società statunitense per la colonizzazione. Molti dei suoi membri erano legati alle chiese protestanti, a partire dal fondatore Robert Finley, un ecclesiastico presbiteriano, e ritenevano che la colonizzazione potesse servire anche a far sì che gli ex schiavi predicassero il cristianesimo in Africa evangelizzando le rispettive tribù. La società istituì filiali in molte città degli Stati Uniti, sia a nord sia a sud. Da parte sua, il governo federale appoggiò l’iniziativa: in seguito al divieto della tratta degli schiavi era auspicabile poter disporre di una base in Africa dove inviare gli africani liberati dalle navi negriere intercettate in alto mare. La prima cosa da fare era scegliere quale sarebbe stata la destinazione dei coloni. Un viaggio esplorativo realizzato nel 1818 identificò un’isola al largo della Sierra Leone. La nave Elizabeth salpò da New York nel 1820 con due agenti governativi e uno dell’American Colonization Society, oltre a ottantotto neri liberi provenienti soprattutto dal Vermont e dalla Virginia. Ma l’isola di Sherbro si rivelò un luogo malsano, e nel giro di pochi mesi i tre bianchi e una ventina di coloni erano morti. Poco dopo giunsero in zona un brigantino e una goletta, rispettivamente il Nautilus,  con a bordo quattro bianchi e trentatré coloni neri, e l’Alligator, che aveva il compito di combattere la pirateria e la tratta degli schiavi. Il capitano della goletta e un agente della società, il dottor Eli Ayres, si diressero a sud alla ricerca di un luogo più favorevole per l’insediamento degli ex schiavi. Finalmente lo trovarono a Capo Mesurado, una piccola area del golfo di Guinea. Ayres negoziò con i capi locali, che si facevano chiamare re, l’acquisto di una striscia di costa di una sessantina di chilometri di lunghezza e cinque di larghezza in cambio di una partita di beni tra cui sei moschetti, un barile di polvere da sparo, un altro di rum, una cassa di zuppa, quattro cappelli, cinque ombrelli e tre paia di calzini. Il valore totale di questi beni non superava i trecento dollari dell’epoca. Una volta concluso l’accordo, cominciarono ad affluire coloni dall’isola di Sherbro per stabilire un nuovo insediamento sulla foce del fiume Mesurado. Vedendoli arrivare, però, gli indigeni cambiarono idea e costrinsero uno dei loro capi, re Peter, ad annullare l’accordo. Dopo il rifiuto degli statunitensi scoppiarono scontri sanguinosi in cui i coloni, che erano poco più di un centinaio, si difesero dagli assalti della popolazione locale con fucili e cannoni.  Matilda Newport  era una colona che nel 1822, durante uno scontro con i nativi che assediavano Monrovia, accese un cannone con la sua pipa. L’élite liberiana la celebrò come un’eroina nazionale. Nel 1824 la nuova colonia adottò il nome di Liberia: verso le sue coste, dall’altra parte dell’Atlantico, navi cariche di schiavi affrancati continuavano a salpare senza sosta. Nel 1847 la capitale Monrovia contava circa quattromila abitanti. Tuttavia non sarebbe corretto parlare di un’emigrazione di massa. Nel 1867 si erano trasferiti in Liberia 12mila ex schiavi, una piccola frazione del numero totale di neri statunitensi emancipati. Vi si stabilirono inoltre circa seimila schiavi liberati provenienti da navi negriere intercettate in alto mare, la maggior parte delle quali batteva bandiera portoghese. L’anno dell’indipendenza I primi leader della colonia furono membri bianchi dell’American Colonization Society. Invece nel 1841 fu eletto governatore Joseph Jenkins Roberts, un meticcio nato libero in Virginia. Era il secondogenito dei sette figli del proprietario bianco di una piantagione e della sua concubina, una schiava nera di nome Amelia. Ormai la società aveva sempre più difficoltà a sostenere l’onere finanziario rappresentato dal mantenimento della colonia, che era pure minacciata dall’espansione britannica nell’area. Questi due fattori spinsero i coloni a dichiarare l’indipendenza della Liberia nel 1847. Nell’ottobre dello stesso anno Roberts fu eletto primo presidente di quella che divenne la seconda repubblica nera al mondo dopo Haiti. La Gran Bretagna, la Francia e le altre nazioni europee riconobbero presto l’esistenza del nuovo Paese, ma gli Stati Uniti lo fecero solo nel 1862, in piena Guerra civile, quando fu promulgata la legge di emancipazione generale degli schiavi statunitensi. Solo allora divenne accettabile ricevere un ambasciatore nero a Washington. La Liberia adottò una costituzione simile a quella degli Stati Uniti, con un parlamento democraticamente eletto e un sistema giudiziario indipendente. Tuttavia, solo i cosiddetti americo-liberiani, ovvero i coloni giunti dagli Stati Uniti e i loro discendenti, godevano di pieni diritti, sebbene costituissero solo il due per cento della popolazione, composta per la maggior parte da nativi. Nel 1869 i cosiddetti veri liberiani fondarono il primo partito politico africano, il True Whig Party, che avrebbe governato senza opposizione fino alla fine del XX secolo. Una casta di ex schiavi Fin da subito i coloni arrivati dagli Stati Uniti si distinsero radicalmente dai nativi. Parlavano inglese, praticavano il cristianesimo e vestivano all’europea, in contrasto con la quasi totale nudità degli indigeni. Inoltre approfittarono degli appezzamenti di terreno concessi loro all’arrivo per creare piantagioni in cui impiegare i neri liberati dalle navi negriere, chiamati congos, e gli indigeni, spesso pagandoli in natura. Gli americo-liberiani crearono così un sistema di segregazione per certi versi non dissimile da quello del sud degli Stati Uniti. Le tribù della foresta, che da tempo partecipavano al sistema commerciale di cattura degli schiavi, furono confinate in alcune regioni. Il loro malcontento portò a frequenti tentativi di ribellione che vennero duramente repressi dai coloni. Il motto che questi avevano dato al Paese: “Ci ha portati qui l’amore per la libertà”, emarginò a lungo la maggior parte dei nativi liberiani. Da notare che prima dell’arrivo degli schiavi affrancati dagli Stati Uniti, la Liberia era popolata principalmente da tre gruppi etnici: i kru e i grebo, provenienti dall’Africa centrale e insediatisi nella regione nel XII secolo, e i mende, imparentati con i mandingo. Provenienti dal Mali, i mende erano molto apprezzati nel commercio degli schiavi per la loro caratteristica alta statura.

Favria,  10.07.2024  Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita quotidiana è quando ti confronti con le difficoltà che ogni tanto la vita ti presenta, che capisci quanto può essere più o meno grande la forza che hai dentro. Felice mercoledì

Patisserie, casus belli.

Il saccheggio di una pasticceria è all’origine del primo intervento militare francese in Messico. Nella giovane Repubblica del Messico spesso i disordini sfociavano in rapine. Non era facile per gli stranieri ottenere risarcimenti. Così, un certo monsieur Remontel dopo 10 anni trascorsi invano a chiedere un indennizzo per la devastazione della sua pasticceria da parte di ufficiali messicani, domandò la protezione alla Francia. Che prese le cose sul serio.  Nel 1838 re Luigi Filippo d’Orléans chiese al Messico un risarcimento di 600mila pesos e la restituzione di un prestito da un milione di dollari. Non ricevendo risposta, il re spedì una flotta a imporre un blocco navale e a conquistare Veracruz, che per la sua resistenza fu detta “l’eroica”. Il Messico cercò di aggirare il blocco col contrabbando, ma gli Stati Uniti si opposero. Così il presidente messicano Bustamarte dovette cedere e risarcire il pasticciere.

Favria, 11.07.2024  Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita quotidiana quello che per il pessimista è un ostacolo, per l’ottimista è un trampolino di lancio. Felice giovedì

Araldo, araldica, Eraldo e Aroldo 12 Luglio

L’araldo nel medioevo era l’ufficiale con compiti diversi, fra cui compiere missioni diplomatiche, annunciare leggi, presiedere a tornei,  banditore, annunciatore. Etimologia dal francese héraut, che è dall’ipotetica voce francone hariwald, capo dell’esercito. Il nome dell’araldo ha una forza rappresentativa efficace. Racconta con incisività il profilo di una persona che, investita di un ruolo alto e ufficiale, porta un messaggio, annuncia, bandisce,  in una veste dal tratto diplomatico, ma non dimentica di una certa fisicità e prestanza. L’araldo non è una figura semplice, attraversa diversi secoli con tratti e funzioni differenti, e l’origine affonda  nel mondo feudale francese di origine francone, la dote germanica con cui nasce il francese, la dote franca. Infatti  il francese héraut nasce dall’ipotetica voce fràncone hariwald propriamente, capo dell’esercito. Ma l’araldo non era solo questo, andava in missione diplomatica, negoziava, portava dichiarazioni di guerra o trattaive di pace. Ma non solo. L’araldo, nel mondo medievale comunicava  alla comunità le decisioni e le leggi poste dall’autorità ed era inoltre è una figura centrale nei tornei. Proprio qui troviamo il nesso con la disciplina dell’araldica. Come abbiamo visto l’araldo ha avuto fra i suoi compiti quello di presiedere ai tornei,  una sorta di presentatore, maestro di cerimonia  e doveva annunciare i partecipanti alle manche delle giostre medievali. Presentava i partecipanti dotati di ricchi blasoni, che dovevano essere certo omaggiati e presentati, ma anche più concretamente riconosciuti e indicati, perché i cavalieri catafratti nell’armatura non erano altrimenti distinguibili. Quest’arte di presentazione contribuì non poco a dare ordine alla grammatica iconografica dei blasoni. Essendo l’araldo l’annunciatore dei titoli nobiliari ha fatto sì che molti libri della fine del Settecento imperniati sull’arte del blasone, s’intitolassero Heraldus di qualcosa, o l’omologo nei volgari. Così il francese maturò l’héraldique che abbiamo mutuato in araldica. Ancora oggi le primer fioritura di primavera sono dette aralde della bella stagione. Dal nome Araldo abbiamo il nome proprio Eraldo, Erardo o Airaldo, composto da harja o hari, esercito e ald, saggio.  Potrebbe essere altresì una variante fonetica o un’alterazione di Aroldo. Viene festeggiato anche il 12 luglio, in ricordo di S. Eraldo vescovo di Moriana nel XII secolo. La  Moriana, Maurienne in francese,  regione della Savoia comprendente la valle percorsa dal fiume Arc e le valli laterali che in questa confluiscono e anche un formaggio  simile al gorgonzola, prodotto sull’altopiano del Moncenisio.

Favria, 12.07.2024  Giorgio Cortese

Buona giornata. Con il pensiero positivo ogni difficoltà può divenire una bella opportunità. Felice venerdì.

Roundway Down

La battaglia di Roundway Down fu combattuta il 13 luglio 1643 nei pressi di Devizes, nel Wiltshire, durante la prima guerra civile inglese. Nonostante fosse in inferiorità numerica ed esausto dopo aver cavalcato durante la notte da Oxford, una forza di cavalleria realista guidata da Lord Wilmot ottenne una schiacciante vittoria sull’Esercito Parlamentare dell’Ovest sotto Sir William Waller. Considerata la loro vittoria più decisiva della guerra, i realisti si assicurarono il controllo del sud-ovest dell’Inghilterra, che mantennero fino alla fine del 1645. Due settimane dopo catturarono il porto di Bristol, permettendo loro di stabilire legami con i sostenitori in Irlanda. Dopo la dura battaglia di Lansdown, i realisti si ritirarono da Lansdown a Marshfield, sperando di ottenere rinforzi e rifornimenti dalla loro capitale di guerra, Oxford. Arrivarono a Chippenham il 7 luglio. Nel frattempo, nonostante la sua ritirata, l’esercito di Waller era in gran parte intatto dopo la battaglia e le perdite furono rapidamente sostituite dalla guarnigione parlamentare di Bristol. La posizione precaria di Hopton fornì a Waller l’opportunità di schiacciarlo se si fosse mosso abbastanza velocemente e Waller partì da Bath con 5.000 soldati, raggiungendo Chippenham il 9 luglio. Mentre i parlamentari si avvicinavano, Hopton marciò a sud verso Devizes, seguito da Waller che occupò Roundway Down, un’altura a circa 2 chilometri a nord della città. A corto di materiali e in inferiorità numerica, i realisti concordarono che il principe Maurizio e 300 cavalieri sarebbero usciti e si sarebbero precipitati a Oxford per i rinforzi, lasciando Hopton e i 3.000 fanti della Cornovaglia a tenere Devizes. Partito a mezzanotte del 10 luglio, Maurice raggiunse Oxford il mattino successivo; la maggior parte dell’esercito realista era assente, ma Lord Wilmot radunò 1.500 cavalieri, quindi partì per Devizes con Maurice e i suoi uomini.  L’11 luglio, Waller fece scendere il suo esercito da Roundway Down e lo schierò sul lato orientale di Devizes. Per sostenere un attacco, installò una batteria di artiglieria a portata della città di Coatefield Hill. Prendendo tempo, Hopton chiese e ottenne una tregua per dare tempo ai negoziati. Durante la notte, mentre i parlamentari aspettavano la risposta di Hopton, la loro cavalleria intercettò e catturò un convoglio realista di polvere da sparo e munizioni che era stato precedentemente inviato per rifornire Hopton dopo la battaglia di Lansdowne. Molti della loro scorta riuscirono a fuggire, ma 200 furono catturati insieme ai carri. La mattina del 12 luglio, Waller terminò i colloqui e iniziò un assalto, bombardando prima la città con l’artiglieria prima che la sua fanteria attaccasse le avamposti e le fortificazioni. Nonostante ore di feroci combattimenti corpo a corpo, alla fine della giornata i realisti rimasero in controllo di Devizes. Il mattino seguente, di buon’ora, le forze di soccorso di Wilmot si avvicinarono a Roundway Down, e mentre lo facevano spararono diversi colpi di cannone per avvertire Hopton del loro avvicinamento. Waller abbandonò l’assedio e marciò con le sue forze verso nord per intercettarli; raggiunta l’altura, la fanteria e l’artiglieria furono posizionate al centro, con Waller che comandava la cavalleria a sinistra e Sir Arthur Haselrig a destra. La cavalleria realista era divisa in tre brigate; oltre ad essere al comando generale, Wilmot guidò la brigata sulla sinistra, con Sir John Byron sulla destra e il conte di Crawford in riserva. Nonostante avesse cavalcato tutta la notte, Wilmot attaccò immediatamente e colse Waller fuori posizione, con Haselrig e il suo reggimento di “aragoste londinesi” in una posizione avanzata esposta. Haselrig cercò di radunare i suoi uomini, ma si ritirò quando vide Byron che si preparava ad attaccare, e si riunì al resto della cavalleria di Waller. Mentre Waller avanzava giù per la collina, Byron continuò il suo attacco supportato da Wilmot e dalla riserva realista guidata da Crawford; con la loro fanteria incapace di sparare per paura di colpire i propri uomini, la cavalleria parlamentare fu spazzata via dal campo. Inseguiti dai realisti, alcuni di loro cavalcarono sull’orlo di un ripido precipizio e in un’area che divenne nota come “il Fosso Sanguinoso”. Ora isolato e con 3.000 realisti di Devizes che avanzavano contro le loro retrovie, Waller ordinò alla sua fanteria di schierarsi in piazze difensive e iniziò a ritirarsi verso nord-ovest. Dopo circa un’ora, la cavalleria di Byron tornò dall’inseguimento e catturò l’artiglieria parlamentare che rivolse contro il nemico in ritirata, facendolo rapidamente divampare. Fuggendo in tutte le direzioni, molti furono abbattuti dagli uomini di Wilmot; Waller e i resti della sua cavalleria fuggirono verso Bristol, lasciando il resto ad arrendersi. L’esercito parlamentare a ovest fu praticamente spazzato via, con perdite stimate in circa 600 morti e 1.200 catturati, insieme all’artiglieria, ai carri, alla polvere da sparo, alle munizioni e ai rifornimenti. Nella sua lettera che riportava la vittoria, Byron elenca le perdite realiste come “pochissime vittime, ma molti feriti”, anche se questo vale solo per gli ufficiali e altri “gentiluomini”. Probabilmente la più completa vittoria realista della guerra, assicurò il sud-ovest e meno di due settimane dopo catturarono il porto vitale di Bristol, permettendo loro di stabilire collegamenti con i loro sostenitori in Irlanda. La battaglia fu una vittoria eccezionale per i realisti; Nonostante abbiano viaggiato per oltre 60 chilometri direttamente sul campo di battaglia, 1.800 cavalieri sconfissero una forza superiore di 5.000 tra cavalleria, fanteria e artiglieria. Furono aiutati dall’alta qualità delle forze di Wilmot, che conteneva alcune delle unità più esperte dell’esercito realista, e dalle “deplorevoli tattiche” impiegate da Haselrig, che attese la carica di Wilmot all’arresto, sperando che il fuoco della carabina li avrebbe respinti. Questo fu un errore comunemente commesso dai capi di cavalleria parlamentari nelle prime fasi della guerra. Al contrario, la reputazione di Waller come leader militare soffrì a causa della perdita, anche se gli storici affermano che la sua leadership sia a Lansdowne che a Roundway Down fu senza colpa. Il villaggio di Roundway è oggi una piccola frazione a 2 chilometri a nord di Devizes con una popolazione di circa 25 abitanti. Oggi si discute di luoghi di sepoltura permanenti per coloro che hanno perso la vita in battaglia.

Favria, 13.07.2024  Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita quotidiana se l’opportunità non bussa, beh allora inizio a costruire  una porta. Felice sabato.

Piantaggine

Con il termine “piantaggine” si indicano sia la Plantago lanceolata sia la Plantago major, piccole piante spontanee che appartengono alla famiglia delle Plantaginaceae. La piantaggine è molto comune nel nostro Paese: cresce spontaneamente nei prati, lungo le strade, nelle zone verdi incolte. Il nome e generico, Plantago, deriva dalla parola latina planta e significa “pianta del piede” e fa riferimento alle piatte foglie basal di questa pianta simili a “piante di un piede”. Un’altra versione riconduce alla pianta del piede ma in altro modo: dal momento che gli europei la portavano con sé nei viaggi come erba medicinale, la diffondevano involontariamente ovunque andassero. Questo era di per sé una prova del loro passaggio, al punto che i nativi americani la chiamavano “l’impronta dell’uomo bianco”.  L’epiteto specifico lanceolata deriva dal latino lanceolatum e fa riferimento alla forma delle foglie simile alla punta delle lance. Il nome scientifico della specie è stato definito da Linneo, 1707–1778, conosciuto anche come Carl von Linné, biologo e scrittore svedese considerato il padre della moderna  classificazione scientifica degli organismi viventi, nella pubblicazione Species Planatarum del 1753.. Nel Belpaese la possiamo incontrare spontanea nei luoghi sabbiosi, nei terreni incolti, nei prati, nei pascoli, nei boschi da 0 a 2000 metri di quota. Chissà quante volte l’abbiamo incontrata senza sapere chi quale pianta si trattasse. E così ci siamo passati davanti, forse l’abbiamo calpestata, inconsapevoli che questa pianta, cosi semplice, vanta proprietà eccellenti.  La piantaggine è un un’erbacea alta circa 30-50 centimentri, caratterizzata da una radice centrale rizomatosa fibrosa corta e robusta dalla quale si dipartono varie radici fascicolate secondarie o avventizie. Le sue foglie, lunghe 8-25 cm verde brillanti, sono lanceolate, con 3-5 nervature parallele, disposte a rosetta alla base degli scapi fiorali. Le foglie solitamente persistono tutto l’anno. Produce piccoli fiori bianchi disposti in spighe ovoidali o cilindriche che misurano circa 2-4 centimetri. Ogni fiore ha la corolla tubolare e un calice formato da 2 sepali liberi e 2 saldati tra loro, di colore bruno chiaro. La piantaggine produce dei frutti che consistono in capsule di colore marrone chiaro che, a maturazione, si e rilasciano 1 o 2 piccoli semi, molto amati dagli uccelli. Tra i nomi comuni attribuiti alla Plantago lanceolata troviamo Lanciola, Cinquenervi, Mestolaccio, Lingua di cane, Orecchie di gatto o di lepre, per la forma delle foglie che ricorda le orecchie del gatto e la lingua del cane. La Piantaggine è stata dipinta da nel 1503 da Albrecht Durer, 1471-1528, il massimo esponente della pittura tedesca rinascimentale, che ha ritratto la pianta in un quadro ad acquerello intitolato “La zolla”. Dioscoride, I sec. d. C., la consigliava per la dissenteria, mentre Plinio la definiva “erba magica” per le sue numerose proprietà curative ci hanno tramandato notizie circa il suo utilizzo medicinale.  I medici della Scuola Salernitana ne sfruttavano le proprietà astringenti.Il medico e filosofo Alberto Magno, XIII sec.,  la considerava un formidabile antidoto contro il veleno di scorpioni e serpenti.  Pianta assai modesta che non ha mai esercitato nessun fascino, né per la bellezza dei suoi colori, né per il profumo dei suoi fiori, la piantaggine è sempre stata presente nella vita quotidiana della gente, in quanto umile pianta della strada, necessariamente entrata a far parte delle pratiche mediche popolari.

Favria,  14.07.2024  Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita quotidiana il pensiero positivo ci aiuta a fare  ogni cosa meglio di quanto possa il pensiero negativo. Felice domenica

L’elefante e i sei saggi ciechi

C’erano una volta sei saggi che vivevano insieme in un piccolo villaggio. I sei saggi erano ciechi. Un giorno, un principe straniero che attraversava il paese si fermò con la sua corte davanti alle mura di questo villaggio. Subito tra gli abitanti del villaggio si diffuse la voce che il principe montava un animale straordinario. Si trattava di un elefante. In quel paese non esistevano elefanti, e la gente non aveva idea di come potessero essere fatti quegli animali. I sei saggi volevano vederlo, ma come avrebbero potuto farlo essendo ciechi? Così decisero di andare a toccare l’animale, in modo da poterlo descrivere. Al loro ritorno, i sei ciechi furono accolti dalla popolazione impaziente di sapere a cosa poteva assomigliare un elefante. “Bè,” disse il primo, “un elefante è come un enorme ventaglio rugoso.” Gli aveva toccato le orecchie. “Assolutamente no,” intervenne il secondo, “E’ come un paio di lunghe ossa.” Gli aveva toccato le zanne. “Ma proprio per niente!” esclamò il terzo, “Assomiglia ad una grossa corda.” Gli aveva toccato la proboscide. “Ma cosa state dicendo? Piuttosto è compatto come un tronco d’albero!” disse il quarto che gli aveva toccato le zampe. “Non capisco di cosa state parlando…” disse il quinto, “Un elefante assomiglia ad un muro che respira.” Gli aveva toccato i fianchi. “Non è vero,” gridò il sesto, “Un elefante è come una lunga fune.” Gli aveva toccato la coda. I sei ciechi cominciarono a litigare, ciascuno rifiutando di ascoltare la descrizione degli altri cinque. Attirato dalle loro urla, il principe venne a vedere che cosa stava accadendo. “Sire,” disse un vecchio, “i sei saggi sono venuti a toccare l’elefante per capire com’è fatto e ognuno dice una cosa diversa. Non si sa a chi credere.” Il principe ascoltò i sei ciechi che descrissero di nuovo l’elefante. Dopo un lungo silenzio, egli dichiarò: “Tutti e sei dicono la verità, ma ognuno di essi ha toccato solo una parte dell’animale, e quindi conosce solo quella parte di verità. Finché ognuno crede di essere il solo ad avere ragione, nessuno conoscerà la verità intera. I diversi colori del caleidoscopio non si mescolano forse per formare un solo e splendido disegno? Il principe descrisse allora l’elefante mettendo insieme le sei descrizioni e gli abitanti del villaggio seppero finalmente che aspetto aveva quello straordinario animale.” Tutti noi abbiamo la nostra personale visione del mondo ed essa è basata su ciò che attraverso i sensi percepiamo ed interiorizziamo e che costituisce la nostra esperienza diretta sulle cose. Ma proprio perché personale e quindi filtrata dai nostri sensi, tale visione non è detto che sia corrispondente alla realtà in se stessa. Accettare l’idea che i diversi punti i vista possono tutti essere validi e che il loro insieme fa la realtà della cose, ci aiuta ad essere più disponibili verso il punto di vista dell’altro e a rispettarlo tanto quanto vogliamo che sia rispettato il nostro. Ascoltare significa anche porsi nella condizione di recepire ciò che ci viene detto come un possibile fertile spunto di riflessione, un punto di vista diverso che potremo scartare o accettare in funzione di ciò che riteniamo utile per noi ma che in linea di principio non è più sbagliato o più giusto del nostro, ma solo diverso.

Favria, 15.07.2024   Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno cerco sempre di essere ottimista, perché c’è sempre tempo per mettermi a piangere. Felice lunedì.

Il potere di salvare la vita l’abbiamo nel sangue. Vieni a donare il sangue, vieni a donare a Favria Mercoledì 17 luglio, cortile interno del Comune dalle ore 8 alle ore 11,20. Abbiamo bisogno anche di Te.  Attenzione, per evitare assembramenti è necessario sempre prenotare  e portare  sempre dietro documento identità. a Grazie per la vostra collaborazione. Cell.  3331714827. Ricordo i requisiti minimi per donare: età compresa tra i 18 e i 60 per la prima volta, poi dai 65 a 70 anni l’idoneità a donare va valutata dal medico .  Grazie se fate passa parola e divulgate il messaggio