La Valsoana dij marèt – Arta’: hic sunt leones di Marino Pasqualone

“Hic sunt leones” : “qui ci sono i leoni”, così gli antichi cartografi definivano quelle terre che si stendevano infinite ed ignote oltre i confini del mondo civilizzato allora conosciuto. Territori su cui fiorivano oscure leggende, e da cui i pochi che, inoltratisi in esse, erano riusciti a tornare indietro, si narrava avessero gli occhi vitrei e la mente assente, come se le cose che avevano visto li avessero cambiati e segnati per sempre.
Vicende passate, lontanissime nel tempo ed irripetibili, penseranno molti di voi, frutto dell’ignoranza e della superstizione di un mondo ancora all’alba della sua storia, neppure immaginabili per noi che viviamo immersi in una civiltà ipertecnologica ormai in grado di manipolare e ricreare la vita dalle sue stesse ceneri come un’araba fenice.
Eppure, appena dietro alle case dei nostri paesi, dove i prati muoiono tra i rovi ed i sentieri spariscono nel nulla, dove i boschi si alzano verticali ed impenetrabili ed interi villaggi si disintegrano nel silenzio della nostrana “Valsoana dij marét”, c’è una “terra incognita” di cui abbiamo perduto le tracce e la stessa cognizione della sua esistenza.
Spesso non la conosce più neppure la gente delle valli, che ha lo sguardo ed il pensiero sempre più costantemente rivolto verso la pianura, il cui chiarore giallognolo intriso di cemento e di smog è ormai un faro pestifero perennemente acceso fin quasi all’imbocco delle valli pedemontane.
Non la conoscono molti dei politici più o meno rampanti che popolano l’italico stivale, che continuano a sperperare risorse in mille rivoli altrove, senza mai dare a queste terre verticali una possibilità di vera e duratura rinascita che si basi principalmente sulle sue autonome risorse, senza dipendere da altri e sempre più incerti e variabili fattori.
Ed il risultato è che ormai la nostra montagna è spesso null’altro che una “dependance” della pianura, con la sua distesa di “seconde case” vuote per più di undici mesi all’anno, con le sue piste da sci sempre in balìa di inverni secchi o, alternativamente, eccessivamente nevosi, senza più prati e bestiame al pascolo se non nei tre mesi estivi, con i suoi boschi pieni di alberi caduti e lasciati a marcire insieme alle castagne, con la sua cultura e le sue tradizioni secolari diventate polvere da museo o patetica recita in costume per i turisti.
Una montagna che dopo ogni alluvione, dopo ogni frana, dopo ogni valanga, deve peregrinare nei centri di potere delle città di pianura quasi col cappello in mano per elemosinare dal politico di turno qualche aiuto per rifare strade e muraglioni, argini e paravalanghe, sciovie arrugginite e case costruite dove, a volte, forse era comunque meglio astenersi dal farlo.
Ma la montagna ha (aveva) l’acqua, il bene più prezioso dopo l’aria che respiriamo, con le sue mille sorgenti che adesso però di fatto non sono più “sue”, ma che in compenso sono (e verranno sempre di più) incanalate verso le assetate città lasciando ai montanari soltanto le briciole, una misera “percentuale” generosamente concessa da chi, sempre in pianura, detta le leggi: in poche parole, null’altro che l’ennesima “elemosina” per quei pochi sventurati che ancora si ostinano a vivere in modo permanente tra i bricchi.
Ma quando la gente perde il contatto con la terra in cui vive, quando le sue risorse (acqua, energia) sono depredate da altri o condannate al declino dai loro stessi abitanti (legname, pascoli), quando di sposano acriticamente i valori e le pulsioni di una civiltà estranea e completamente avulsa dal mondo alpino, cercando di riprodurre i riti ed i miti delle periferie urbane nelle arie rarefatte delle terre alte, non può risultarne altro che l’alienazione del sentirsi fuori posto, ai margini di un mondo che corre sempre più veloce (peraltro verso la sua autodistruzione, ma questa è un’altra storia).
E tutto quello che sta intono a questo ridotto microcosmo di paesi montani sempre più spopolati e silenziosi per molti mesi all’anno, che per sopravvivere dipendono ormai quasi in tutto e per tutto dalla pianura rutilante di centri commerciali e rotonde stradali, diventa quindi una sorta di “terra di nessuno”, terra incognita e sconosciuta ai suoi stessi ultimi abitanti, destinati forse ormai a diventare montanari senza più montagne, collegati senza fili o con sotterranee “fibre” 24 ore su 24 al resto del mondo, ma sempre più drammaticamente scollegati dal proprio ambiente naturale e dal proprio retaggio culturale.
E torniamo dunque all’iniziale “Hic sunt leones”, col quale ormai potremmo indicare sulle cartine topografiche quei territori valligiani senza strade ( e tra non molto forse anche senza più sentieri e mulattiere) ma costellati di borgate, case sparse, alpeggi, terrazzamenti e coltivi, dove ancora meno di cinquant’anni or sono pulsava quasi ovunque la vita ed oggi regna solamente l’abbandono più lancinante e definitivo.
Ma non tanto e non solo perché quei luoghi si sono spopolati e la civiltà alpina ha scritto il suo epilogo, perché da sempre le civiltà umane nascono, muoiono e vengono sostituite da altre, ma principalmente perché ad essa, in questo caso, non si è per ora sostituito un bel nulla.
E gli stessi “eredi” di quel mondo alpino valligiano sembrano non curarsi più di tanto del disastro paesaggistico e culturale che ormai li circonda da ogni parte, con gli ultimi prati intorno ai paesi che si chiudono inesorabilmente nell’abbraccio mortale di rovi e sterpaglie, con i cinghiali che devastano impuniti gli orti ed i pascoli ed i cervi e caprioli che si mangiano irridenti la frutta sugli alberi.
La realtà è che la montagna ha ormai sempre meno montanari a presidiarla e risoluti a difenderla dal suo trasformarsi in un gigantesco “luna park” ad uso dei turisti cittadini o in teatro ideale per gli amanti della “caccia grossa”.
A questo pensavo mentre i miei passi percorrevano ancora una volta l’antica mulattiera del “Punt dal Bigio”, che si inoltra sulla sinistra orografica del torrente Soana appena sopra a Pont, e la giornata di sole di fine inverno non riusciva ancora a sciogliere le stalattiti di ghiaccio che pendevano dalle rupi del Deir Mariùnd sopra Raie e neppure a cancellare le chiazze di neve che ancora coprivano gli angoli più ombrosi del versante boscoso.
Lasciato alle spalle Rubèl e le sue case in sempre più rapido disfacimento, ecco che salendo tra le incerte tracce di sentiero nel bosco compaiono come per incanto le abitazioni di Artà, estremo avamposto pontese sulla montagna che scende dall’altipiano frassinettese. Abitato fino agli anni cinquanta dello scorso secolo, questo piccolissimo villaggio di Pont oggi vive la sua lenta agonia tra gli alberi di betulle che hanno invaso i terrazzamenti intorno alle case, anche se una di esse si erge ancora miracolosamente quasi integra a ricordare che anche qui un tempo la montagna era viva.
Da Artà lo sguardo spazia da un lato su tutta la bassa val Soana, chiusa all’orizzonte dalla mole possente della Cima Fer, e sull’altro verso alcune delle borgate di Frassinetto che gravitano sulla valle del Rio Bigio.
Un angolo appartato del paese di fondovalle che oggi è sconosciuto a gran parte dei suoi stessi abitanti, come peraltro anche Rubèl, Parìi, Cup, Butifinéra e tanti altri villaggi di cui a nessuno sembra più importare nulla, cancellati dalla mente e dal cuore prima ancora che dalle carte geografiche.
E qui mi rivolgo ai pontesi più anziani ed a tutti coloro che comunque conoscono questi luoghi: raccontate della loro esistenza ai vostri figli e nipoti, portateli (dove ancora si può…) a visitarli, affinché di essi non si perda del tutto anche il ricordo.
Anche perché toccherà inevitabilmente forse proprio a loro, alle nuove generazioni, riscoprire e riutilizzare su nuove basi questa nostra immensa fetta di territorio abbandonato e negletto, dove oggi scorrazzano liberamente solo più gli ungulati ed i lupi, tornati dopo secoli a far sentire il loro ululato tra queste rupi.
Toccherà a loro, ai nostri figli e nipoti, riallacciare il filo che le ultime due generazioni di valligiani hanno spezzato, riuscire dove esse hanno miseramente fallito, ricucire il nostro passato con un futuro della montagna che non sia però solo un semplice ed acritico scopiazzamento di idee nate altrove.
Ed è dunque idealmente proprio dalle case di Artà, che probabilmente nemmeno avete idea di dove siano, che invio “senza fili” a tutti i giovani pontesi e valligiani che mi leggono questo “messaggio in bottiglia”: ragazzi, almeno voi ogni tanto smettete di guardare verso la pianura che si apre dopo le curve di Voira come se fosse il nuovo Eldorado, perché i sentieri del West e la loro promessa di futuro si aprono paradossalmente sul lato diametralmente opposto, in direzione di quelle montagne che salgono verso l’azzurro del cielo ed i ghiacciai non più eterni del Gran Paradiso.
Marino Pasqualone
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