Prima di partire per le vacanze donate sangue. – Arsinoe. – Barbabuch – La storia di Baltimora – Coglia! Coglia! Coglia! – Battaglia di Beroia – 10 agosto 1793 viene aperto il museo del Louvre. – Il Phon. – Per un mancato saluto. – Il potere di salvare la vita l’abbiamo nel sangue…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

*Prima di partire per le vacanze donate sangue.*Per questo è importante che

chiunque sia in salute e abbia i requisiti per farlo doni il sangue. E’ un gesto semplice ma salva vita, non ci stancheremo mai di ripeterlo. In estate il bisogno di sangue non diminuisce, anzi aumenta, mentre calano fisiologicamente le donazioni. La donazione estiva è sicura per la salute, seguendo poche facili accortezze: restare ben idratati prima e dopo la donazione, soprattutto nelle giornate calde; evitare alimenti grassi e zuccherati che possono causare debolezza e ipoglicemia, riposare bene la notte precedente e cercare di non avere impegni pressanti subito dopo la donazione. Donate il sangue ad agosto presso i gruppi Comunali Fidasadsp del Canavese, previa prenotazione. Anche ad agosto i volontari dei direttivi gruppo comunali, gli angeli delle donazioni saranno impegnati per organizzare le giornate per la raccolta di sacche di sangue nelle loro sedi.
*Montanaro* locali comunali, piano terra, via G. Bertini 1- *sabato 3 agosto* – per info e prenotare cell. 3777080944 Giovanni Cravero

*Front  Canavese* – Sala consigliare- Ambulatorio medico- via G. Falcone 7-  *domenica 4 agosto* – per info e prenotare cell 3479033496 Patrizia Cavagnero

*Rivarolo C.se* -centro sociale 1 piano vicolo  Castello 1- *lunedi 5 agosto*  -per info e prenotare cell. 3489308675 Ezio Re

*Valperga* c.o RSA Barucco – Via Busano 6 – *lunedì 5 agosto* – per info  e prenotare cell.

*Ciriè*, presso ASL Via Biaune 23-A – *sabato 10 agosto* – per info e prenotare cell. 3407037457 Simone Foglia

*Rivarolo C.se* ­- centro sociale 1 piano vicolo  Castello 1- *venerdì 16 agosto*  -per info e prenotare cell. 3489308675 Ezio Re

*Ciriè*, presso ASL Via Biaune 23-A – *domenica 18 agosto* – per info e prenotare cell. 3407037457 Simone Foglia

*Rivara* – ex municipio- via B. Grassa 26-  *mercoledì 21 agosto* – per info e prenotare cell. 3396339884 Antonio Grosso

*Favria*, cortile palazzo Comunale – via barberis 10 – *giovedì 29 agosto – per info e prenotare  cell 333 1714827 Giorgio Cortese

Durante *settimana Plasma a Rivarolo* *da lunedì 26 a venerdi 30 agosto* possibilità di prenotare donazione sangue intero, per info e prenotare cell. 3343759446 Giacomo  Meaglia

*Feletto* – scuole elementari- piano terra – via R. Bretto 12, – *domenica 1 settembre* -per info e prenotare cell 339-1417632, Fausto

Arsinoe.

Arsinoe all’età di 16 anni sposò Lisimaco, sessantenne re della Tracia e vecchio compagno d’armi del padre. Arsinoe era la protagonista delle sfarzose feste che si tenevano nel palazzo reale di Alessandria, come quella che narrò il poeta di corte Teocrito in uno dei suoi Idilli. Nel componimento due amiche siracusane si recano insieme nella residenza del sovrano, perché hanno udito che “la regina prepara qualcosa di bello”, una festività per celebrare la morte e la rinascita del semidio greco della bellezza, Adone, e la sua riunione con Afrodite. Già a palazzo, le amiche sentono un cantante intonare una melodia in onore di Afrodite e della regina, “che Elena uguaglia”. Arsinoe dopo aver assistito all’uccisione di due dei suoi figli, sposò il fratello Tolomeo II in un periodo di particolare splendore per l’Egitto ellenistico Dopo la morte di Alessandro Magno nel 323 a.C. i generali che l’avevano accompagnato nelle spedizioni di conquista si spartirono il suo sconfinato impero e fondarono nuove dinastie in Egitto, Siria, Macedonia e Tracia. Tra i nuovi regni non mancarono i contrasti e le guerre, perché le alleanze si stringevano e si rompevano di continuo. Le donne delle famiglie reali venivano usate come moneta di scambio per suggellare i vari patti, proprio come accadde ad Arsinoe II, una delle figlie di Tolomeo I, generale di Alessandro e primo sovrano ellenistico dell’Egitto. Arsinoe crebbe nel lusso della corte di Alessandria, dove ricevette un’istruzione accurata. All’età di sedici anni fu data in matrimonio a Lisimaco, re della Tracia e antico compagno d’armi del padre. Lisimaco aveva una sessantina d’anni, era stato sposato più volte e aveva dei discendenti adulti, tra cui Agatocle, che aveva nominato proprio successore. Dal consorte, Arsinoe ebbe tre figli: Tolomeo, Lisimaco e Filippo, e per quasi vent’anni godette di uno status privilegiato in quanto regina di Tracia e, dal 288 a.C., anche della Macedonia, che era stata conquistata dal marito. La situazione cambiò in modo radicale nel 283 a.C., quando Lisimaco condannò a morte il proprio figlio Agatocle. Ufficialmente si disse che lo aveva fatto giustiziare perché questi aveva cospirato contro di lui, ma non mancò chi si spinse ad additare Arsinoe come l’istigatrice del crimine. Con l’esecuzione di Agatocle, infatti, Arsinoe spazzò via il principale ostacolo alla successione, lasciando quindi campo libero ai propri figli. Forse agì per paura che questi, una volta al potere, avrebbe eliminato i ragazzi in quanto suoi potenziali rivali. Indipendentemente dal fatto che fosse più o meno coinvolta in tale morte, di certo la tragedia scatenò una serie di altri eventi destinati a segnare per sempre la vita della regina. Lisandra, vedova di Agatocle, fuggì in Siria con i suoi seguaci e trovò riparo presso la corte di Seleuco, un altro dei generali di Alessandro Magno, al quale chiese di vendicare l’assassinio del marito. Seleuco non si lasciò sfuggire il pretesto per scontrarsi con Lisimaco in un conflitto che si concluse con il decesso del re tracio nel 281 a.C. Temendo per la propria incolumità e per quella dei figli, Arsinoe si rifugiò nella città di Cassandria, in Macedonia. Lì ricevette un’inattesa offerta di aiuto da parte del fratellastro Tolomeo Cerauno. Prima di unirsi a Berenice, la madre di Arsinoe, Tolomeo I era stato sposato con una lontana cugina di lei, Euridice, che aveva ripudiato dopo aver avuto con lei diversi figli. Uno di  questi era Tolomeo, soprannominato Cerauno, fulmine, il quale riteneva che, in quanto primogenito, avrebbe dovuto ereditare il trono egizio. Tuttavia il padre lo mise da parte in favore del figlio generato con Berenice, il futuro Tolomeo II. Tolomeo Cerauno aveva poi abbandonato l’Egitto ed era stato accolto in Siria da Seleuco, che lo aveva fatto entrare nella sua cerchia di fiducia. Approfittando della generosità di Seleuco, Cerauno lo tradì e lo assassinò al fine d’impadronirsi dei suoi territori. Dopo il misfatto Cerauno si presentò alla sorellastra Arsinoe come il suo salvatore e le propose di unirsi a lui in matrimonio. Nonostante dubitasse della sincerità di Cerauno, lei alla fine acconsentì, convinta che quello fosse il modo migliore per proteggere i figli. In realtà Cerauno mirava a impossessarsi del regno di Lisimaco, e solo sposandone la vedova avrebbe reso legittime le sue aspirazioni. Una volta celebrate le nozze Arsinoe invitò il fratellastro a Cassandria, che rimaneva sotto il suo controllo, e lo precedette per abbellire la città.  Dopo aver terminato i preparativi, all’annuncio dell’arrivo di Cerauno Arsinoe mandò i figli più piccoli,Lisimaco, di sedici anni, e Filippo, di tredici, a dargli il benvenuto alle porte della città. Dal canto suo Cerauno non fece in tempo a varcarle che ingiunse ai suoi uomini di espugnare Cassandria e di uccidere i due figli della moglie. Accortasi del fatale errore commesso, Arsinoe cercò disperatamente di salvare i ragazzi, che le furono strappati via dalle braccia. Lo storico romano Pompeo Trogo narra di come la donna più di una volta si offrì ai sicari al posto dei figli, più di una volta abbracciandoli con il suo corpo fece scudo a quello dei fanciulli e volle ricevere i colpi a loro diretti, ma invano. Non le permisero nemmeno di seppellirli. Arsinoe fuggì con Tolomeo, l’unico figlio rimastole, e cercò rifugio in Egitto dal fratello, Tolomeo II. La vittoria di Cerauno fu effimera. Pochi mesi dopo venne catturato e assassinato durante una battaglia contro i galati guidati dal loro capo Bolgio. In Egitto Tolomeo II protesse Arsinoe e le chiese di sposarlo, sebbene i due fossero fratello e sorella. L’unione non scandalizzò gli egizi, visto che il matrimonio tra fratelli era una prassi abituale tra i faraoni. Invece agli occhi dei greci che vivevano in Egitto la circostanza apparve scabrosa. Secondo lo storico Plutarco, buona parte di loro ritenne il matrimonio “innaturale e illecito”. In quanto sovrana d’Egitto, Arsinoe fu assimilata alla dea Afrodite e adorata come tale in diversi centri sacri. Il più noto è il tempio che Callicrate di Samo, ammiraglio dell’armata di Tolomeo II, fece costruire a Capo Zefirio, ad Alessandria. Si riteneva che dal santuario, posto in cima a un promontorio, Arsinoe-Afrodite proteggesse i marinai e i mercanti nelle loro pericolose traversate via mare. Il tempio divenne uno dei luoghi di culto più importanti dell’Egitto ellenistico, e vi si recavano le donne che avevano bisogno dell’aiuto o del conforto della dea. Alcuni mostrarono in pubblico la propria avversione. Uno di questi fu il poeta Sotade, che pagò con la vita il fatto di aver scritto un verso osceno dedicato a Tolomeo: “Hai spinto il pungiglione in un foro non consentito”. Ovviamente non mancarono nemmeno i cortigiani che si schierarono in difesa del monarca. Tra di loro si annovera il poeta Teocrito, che paragonò il matrimonio all’unione tra gli dei-fratelli Hera e Zeus. In ogni caso, l’unione segnò una delle fasi più prospere della dinastia tolemaica, un’epoca in cui la magnifica Alessandria divenne il centro culturale e commerciale del Mediterraneo e in cui l’Egitto ellenistico raggiunse la massima espansione territoriale. Arsinoe partecipò in modo attivo al governo del Paese, soprattutto in politica estera, e fu un’importante animatrice dell’arte e del sapere. Non è certo fino a dove si spingesse il suo potere, ma non vi sono dubbi sul fatto che dovette essere considerevole. Tolomeo concesse alla moglie grandi onori e diede il nome di Arsinoe a diverse città presenti in Egitto e in altre province, a Cipro, in Asia Minore o perfino nella penisola arabica. Fece coniare monete con il nome e l’immagine della sorella, fece erigere sue statue e le dedicò ogni sorta di omaggio, sia in vita sia in morte. Senza dubbio l’onore più grande consistette nel divinizzarla. Tolomeo convertì Arsinoe in una dea a cui si rese culto in tutto l’Egitto. A lei vennero dedicati templi dotati di propri sacerdoti, e quando morì, tra il 270 e il 268 a.C., fu salutata dal marito e dal popolo con innumerevoli dimostrazioni di stima e di affetto. In sua memoria Tolomeo fondò addirittura un festival, l’Arsinoeia. Tolomeo fondò un unico culto per sé stesso e per la moglie Arsinoe. I due vennero adorati come theoi adelphoi, dei fratelli, e assunsero il soprannome di philadelphos, che ama il fratello. Poiché dalla loro unione non nacquero figli, è stato suggerito che questa  unione non venne mai consumata.  Sebbene fosse rimasta sul trono d’Egitto per pochi anni, Arsinoe lasciò un’impronta profonda nel territorio e nella dinastia. Il suo culto rimase vivo per secoli, e lei s’impose quale modello di regina ellenistica, divenendo inoltre il simbolo di un Egitto prospero e potente. Tutte le altre sovrane che ascesero al trono dopo di lei cercarono di assomigliarle, e anche nelle rappresentazioni scultoree vollero sembrare Arsinoe. Eppure solo una riuscì a essere alla sua altezza: Cleopatra VII, l’ultima regina d’Egitto.

Favria, 5.08.2024  Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno la  speranza è un attendere colmo di pazienza. Felice  lunedì

Barbabuch

Il barbabuchè una pianta erbacea perenne, chiamata in Piemonte Tragopogono barba di becco, vale a dire barba di caprone, che ne ricorda sia l’aspetto sia l’ambiente di provenienza, che trova largo impiego nella cucina piemontese. Va cercata nei prati adibiti a foraggio, ma anche in quelli incolti, sia in pianura che in montagna, in lungo e in largo per tutta la penisola, fatta eccezione di Puglia, Sicilia e Sardegna. È una pianta nota fin dall’antichità,  come testimonia un affresco pompeiano,  alla quale si imputavano una serie di proprietà, come la forza, il buon umore, la freschezza mentale, la longevità. Fiorisce da marzo ad agosto e caratteristici sono i capolini gialli che si aprono la mattina presto e si chiudono verso il mezzogiorno. Il barbabuchnon viene impiegato solo in cucina: nella medicina popolare italiana trovava diverse applicazioni, come espettorante e calmante per la tosse e coadiuvante in tutte le affezioni dell’apparato respiratorio, ma anche come astringente intestinale, depurativo generale e sudorifero. L’infuso dei petali era utilizzato per schiarire la pelle e le efelidi. L’acqua distillata dalla pianta era impiegata per la pulizia a secco delle pelli. Con le radici, essiccate e macinate, si produceva addirittura una farina utilizzata per fare il pane. Per quanto concerne l’impiego del barbabuch in tavola, vengono adoperati in particolare i germogli primaverili lessati e passati al forno con burro e parmigiano sono una vera delizia. Le foglie più tenere possono insaporire insalate, minestre, frittate; ottima anche la radice, consumata bollita e condita con olio e aceto.

Favria, 6.08.2024  Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita quotidiana scegliamo sempre quello che ha valore e non quello che costa. Felice martedì.

La storia di Baltimora

La città di Baltimora venne fondata nel 1729 dalla famiglia dei conti inglesi di Baltimore, nella persona di Cecil Calvert, secondo lord Baltimore e primo governatore della colonia del Maryland. In ragione della sua felice posizione geografica sul mare e della vicinanza a Washington e a Boston, la città conobbe una rapida crescita attorno al suo storico porto, ancora oggi strategico per i commerci degli Stati Uniti. Durante la guerra anglo-americana del 1812/1815, Baltimora legò il proprio nome alla famosa battaglia terrestre e marittima che vide trionfare gli statunitensi, celebrata con il Battle Monument che domina la piazza omonima. Le vittorie della guerra contro gli Inglesi sono ricordate anche con il Fort McHenry Monument, un sito storico con il forte e la caserma dei soldati che hanno opposto strenua resistenza con tale coraggio da ispirare a Francis Scott Key il canto The Star-Spangled Banner in seguito divenuto l’inno degli Stati Uniti.  Il ponte recentemente distrutto a Baltimora era stato inaugurato nel 1977, porta il nome dell’autore dell’inno nazionale americano,  Francis Scott Key Bridge,  che è il Mameli americano l’autore del poema del 1814 da cui furono tratte le parole dell’inno degli Stati Uniti, Star Spangled Banner. Ponte a quattro corsie, è lungo quasi tre chilometri e la struttura, strategica per il porto di Baltimora e  attraversa il fiume Patapsco. A Baltimora nel 1861 avvennero dei disordini detti rivolta o massacro di Pratt Street, e furono un tentativo di sommossa popolare che prese il via venerdì 19 di aprile all’altezza di Pratt Street, poi detta Little Italy di Baltimora e  che si concluse con i primi caduti della guerra di seccessione dopo il bombardamento  e la battaglia di Fort Sumter avvenuto cinque giorni prima nella Carolina del Sud, e che videro l’occupazione di Fort Sumter da parte delle truppe sudiste.  A Baltimora vi fu lo scontro armato tra i  Copperhead, pacifisti a tutti i costi, affiliati  al partito democratico, affiancati da simpatizzanti secessionisti del profondo Sud e alcuni membri dei reggimenti provenienti dal Massachusetts e della milizia statale della Pennsylvania in marcia in direzione della capitale federale Washington  che erano stati richiamati in servizio per fornire il loro contributo contro l’atto di ribellione in atto nelle regioni schiaviste.  Da ricordare che nel  1851 la città di Baltimora divenne indipendente dalla contea e per l’intero Ottocento continuò a prosperare per merito del suo porto e delle industrie, superando anche i notevoli danni inferti dall’incendio del 1904 che portò alla demolizione di migliaia di edifici. Nel secondo dopoguerra la città conobbe l’ennesimo boom industriale e negli anni Settanta presero il via imponenti lavori volti al recupero del porto e dei borghi del centro storico che rischiavano d’essere abbandonati a vantaggio della periferia. Grazie a tali interventi Baltimora è tornata a risplendere, sia come città industriale che come centro culturale ricco di musei e teatri e sede della rinomata Johns Hopkins University.

Favria,  7.08.2024 Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni attimo di felicità è un momento di gioia. Felice mercoledì

Coglia! Coglia! Coglia!

Oggi parlo del famoso capitano di ventura Bartolomeo Colleoni al servizio della Serenissima Repubblica Veneta. A prima vista l’etimo del nome “Colleoni” chiamerebbe in causa il leone, chiaro simbolo di eroismo, coraggio, potere e regalità. Invece no,  quell’appellativo non derivava affatto dal latino “cum lione”, con il leone o “caput leonis, testa di leone”, bensì dal soprannome dell’avo Gisalberto Attone, figlio di Attone della famiglia Suardi, vissuto alla metà dell’XI secolo e detto “Colione”, Coleus nei documenti del tempo. Bartolomeo Colleoni questo lo sapeva benissimo e ne andava fiero, tanto da ostentare gli “attributi” sul suo stemma: “tre coglioni”, troncato d’argento e di rosso a tre paia di coglioni, dall’uno all’altro” per dare l’esatta descrizione araldica. Un blasone talmente imbarazzante per i tardivi sostenitori del condottiero vedevano o tre “cuori ribaltati” o tre “fiamme” per e a cercare goffamente di nobilitare il condottiero. La presenza di tre “coglioni” sullo stemma ha alimentato la fama del presunto triorchidismo, ossia l’ipotesi che avesse tre testicoli, una diceria di cui si ha prova né scientifica né documentale, ma poi forse non erano  tre “coglioni” ma di tre paia, avendo tale numero valore scaramantico e simbolico anche in araldica. Sicuramente la virilità di Colleoni ne aumentò il mito, e allora  quei “coglioni” ostentati sulle insegne ed esaltati nel grido di battaglia: “Coglia, coglia, coglia!”, scandito sempre tre volte,  divenne il suo marchio imperituro e inconfondibile. Il futuro condottiero nato a Solza nel 1395, trascorse  nell’apprendistato delle arti militari in uno scenario, quello politico d’inizio Quattrocento, tormentato da conflitti e guerre. Bartolomeo Colleoni iniziò il “mestiere delle armi” all’età di 14 anni, dapprima sotto il comando di Filippo Arcelli, signore di Piacenza, per poi passare al servizio del capitano Jacopo Caldora, comandando una ventina di cavalieri. Qui giunsero i primi  militari nel 1424  quando era al servizio di  Giovanna II d’Angiò-Durazzo contro Braccio da Montone, che alla Piana di Bazzano, nei pressi de L’Aquila, venne sconfitto e morì poco dopo per le gravi ferite riportate. Successivamente  con l’assedio di Bologna tra il 1428-1430, questa volta  nell’esercito di papa Martino V.  questi episodi guerreschi  lo misero in luce, tanto da fargli guadagnare, nel 1431, un posto da luogotenente nelle milizie di Venezia, allora al comando di Francesco Bussone, più noto come Conte di Carmagnola. L’anno successivo con la ripresa delle  ostilità tra la Serenissima e Milano, Carmagnola fece  fece mancare il suo apporto all’assedio di Cremona, decretando il fallimento dell’operazione. Carmagnola venne accusato dai veneziani di tradimento per via della sua  precedente militanza sotto le insegne dei Visconti. Carmagnola fu accusato di tradimento dal Consiglio dei Dieci e decapitato per ordine del Senato. Sembrava che Colleoni allora trentasettenne  dovesse succedere  a   Carmagnola in virtù delle sue indubbie doti militari ma invece  la   Serenissima gli preferì quale Capitano generale dell’esercito dapprima Gianfrancesco Gonzaga, signore di Mantova e suo alleato, e poi, uscito di scena quest’ultimo,  Erasmo Stefano da Narni detto Gattamelata. Colleoni incassò lo smacco, ma la delusione finì per scavare un solco sempre più profondo che lo avrebbe condotto, alla scadenza del contratto, a lasciare Venezia per mettersi al soldo della sua grande rivale, Milano. Intanto il bergamasco, volendo consolidare la sua posizione sociale, nel 1439 aveva impalmato la bella Tisbe, figlia del commilitone, capitano dell’esercito veneto appartenente a una delle più nobili famiglie bresciane,  Leonardo Martinengo. Tisbe avrebbe dato a Colleoni  tre figlie, Ursina, Caterina e Isotta, mentre altre cinque,  Dorotina, Riccadonna, Cassandra, Polissena e l’amatissima e sfortunata Medea,  il colerico Bartolomeo le avrebbe avute al di fuori del suo pur soddisfacente matrimonio. La stagione milanese del Colleoni fu breve ma intensa, dapprima sotto Filippo Maria Visconti e poi, dal 1447, al servizio della Repubblica Ambrosiana sorta alla morte del duca, il cui comando militare era stato affidato a Francesco Sforza. E proprio militando sotto quest’ultimo, Colleoni poté raggiungere tra il 1447 e il 1449 l’apice della sua carriera, sbaragliando a Bosco Marengo le truppe francesi e, nel duplice scontro di Romagnano Sesia e Borgomanero, quelle del Duca di Savoia. Furono battaglie importanti per le sorti dello Stato milanese ma ancor più per lui, perché gli diedero finalmente anche su scala europea quella visibilità e quel prestigio che aveva sempre inseguito con dedizione e impegno. L’anno seguente Colleoni monetizzò il suo momento d’oro ritornando con i veneziani, ma così facendo si attirò l’accusa dei milanesi  di possibile tradimento, alla quale rispose giurando di avere rispettato alla lettera gli impegni stipulati e ormai giunti a scadenza.  Il nuovo ingaggio firmato con la  Serenissima era molto conveniente si trattava di 100.000 ducati e la promessa di tenersi Como, Lodi e la Ghiara d’Adda, qualora durante eventuali operazioni contro Milano le avesse conquistate.  Questo sarebbe anche stato l’ultimo ingaggio di una carriera che da quel momento in poi non conoscerà più né repentini salti di schieramento, né eclatanti imprese. Colleoni avrà però finalmente la sua grande soddisfazione: la tanto ambita carica di Capitano generale dell’esercito della Serenissima, conferitagli nel giugno 1455 con una sontuosa cerimonia celebrata a Brescia e seguita il 24 maggio 1458 dalla consegna, a Venezia, del bastone di comando. Un’affermazione che lasciava l’amaro in bocca, aveva raggiunto il titolo di Capitano generale dell’esercito della Serenissima, dopo averlo rincorso per oltre vent’anni, giunto a  sessant’anni suonati, quando l’ambizioso capitano di ventura  era ormai alle soglie della vecchiaia. Si trattava di un riconoscimento tardivo per un militare di valore assoluto, un vero maestro nella guerra di montagna, capace di attacchi rapidi e feroci, audace quando serviva, ma all’occorrenza saggio temporeggiatore. Un raffinato stratega, capace di esaltare il ruolo della fanteria ma anche di comprendere prima di altri quello dell’artiglieria, allora del tutto nuovo ma destinato in breve a divenire decisivo. Avido di gloria e di ricchezze, Colleoni accumulò le seconde ma lambì soltanto la prima, non potendosi mai intestare una vittoria clamorosa e schiacciante capace di cambiare davvero il corso della storia italiana. E raccolse sempre meno di quanto avrebbe meritato. L’occasione giusta per compiere l’impresa della vita sembrò presentarsi nel 1467 quando Colleoni si inserì, con il placet ufficioso di Venezia, nei disordini scoppiati in seguito alla congiura fiorentina contro Piero de’ Medici. La Serenissima d’altronde aveva tutto da guadagnare dalla nascita di una Repubblica nella “città del giglio”: il tramonto dei Medici, tradizionali alleati di Milano, avrebbe rotto l’asse tra le due città lasciando Venezia padrona del Nord Italia. Le cose però non andarono come il bergamasco auspicava. La rivolta fiorentina fallì e il progetto successivo di marciare su Milano si arenò nella battaglia della Riccardina, detta anche della Molinella, località alle porte di Bologna, in cui fronteggiò le truppe coalizzate di Firenze, Milano, Napoli e Bologna. Dal campo non uscì un netto vincitore e la conseguente pace stipulata fra le parti seppellì le residue velleità del condottiero e non gli capiterà più un’altra occasione per riconquistare la ribalta. Superati ormai i settant’anni, il Colleoni non si accomodò nel ruolo del classico “militare a riposo” ma, forte delle ricchezze accumulate, preferì calarsi in quello di mecenate e benefattore, tant’è che molte istituzioni, chiese e conventi orobici devono la loro nascita e sopravvivenza all’opera, e al denaro, del ricco capitano.  Così come a suo nome vanno ricondotte anche le migliorie promosse in campo idrico e la ristrutturazione, nel 1470, delle terme di Trescore, sorte anticamente nei pressi delle fonti di acqua sulfurea ma ormai cadenti da secoli. Il suo buon ritiro era il castello di Malpaga,  che realizzò rimettendo a nuovo un vecchio fortilizio diroccato immerso nelle brume della pianura lombarda, tra ettari di campi arati, rogge e canali a due passi da Martinengo, la capitale intorno alla quale si era costruito il suo piccolo dominio. Il Colleoni ne aveva acquistato i ruderi nell’aprile del 1456 dal Comune orobico per 100 ducati d’oro e li aveva trasformati in una reggia: l’esterno irrobustito da un doppio fossato, alte mura, porte fortificate e una solida cintura formata dagli alloggiamenti degli armigeri, l’interno ingentilito da ampi spazi e splendidi affreschi. Del lusso di Malpaga godettero artisti e intellettuali, ospiti fissi dei grandi ricevimenti, mentre maestranze locali e pittori giunti dalla Borgogna immortalavano il padrone di casa, fiero uomo d’armi e insieme squisito  ospite. Non che fossero tutte rose e fiori al castello: Colleoni restò fino all’ultimo un uomo di potere, figura centrale di quello scenario confuso e mobile che era allora la politica italiana, e a corte si muovevano sì musici e poeti, ma anche sicari e spie o presunte tali, per arginare i quali il condottiero non lesinava di esibire il suo volto più crudele e spietato. Fu ciò che accadde con gli sfortunati Ambrogio Vismara e il figlio Francesco, accusati di spionaggio al soldo di Milano: il primo finì squartato e il suo corpo, fatto a brandelli, venne appeso come monito all’esterno del castello, il secondo più modestamente impiccato.  Nel castello di Malpaga, Bartolomeo Colleoni si spense il 3 novembre 1475 alla veneranda età di ottant’anni. Sentendo avvicinarsi la fine, già a maggio aveva restituito alla Serenissima il bastone del comando e incominciato a smobilitare le sue truppe, giacché Venezia, vedendolo ormai al tramonto, non gli pagava più il dovuto e quindi il condottiero non aveva più i mezzi per sostenere le truppe. Non solo, sapendo che non aveva figli maschi, quest’ultima gli aveva inviato tre provveditori perché lo vegliassero e presiedessero alla spartizione della cospicua eredità, contando che il condottiero ne avrebbe lasciato la maggior parte non alla primogenita Ursina e al marito Gherardo II Martinengo, tra i principali collaboratori militari del Colleoni e suo successore, ma alla Serenissima,  consentendole così di rimpolpare le casse esauste per le lunghe e costosissime guerre. La Repubblica di Venezia gli riservò una crudele beffa. All’apertura del testamento, quando si scoprì che il Colleoni era disposto a rinunciare a ben centomila ducati di arretrato pur di avere una sua statua equestre innalzata davanti a San Marco, la Serenissima si trovò nel più grave imbarazzo. Se la cavò con un geniale quanto perfido espediente, Bartolomeo Colleoni avrebbe avuto sì l’agognato monumento, peraltro ideato dal grande scultore Andrea del Verrocchio, “vicino a San Marco”, come aveva chiesto, ma di fronte non alla Basilica bensì all’omonima Scuola, sita nell’assai più discosto Campo San Zanipolo. L’ultimo sberleffo a un uomo la cui personalità fin troppo debordante i veneziani, tutto sommato, non avevano mai digerito fino in fondo

Favria, 8.08.2024  Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita tutto è possibile. L’impossibile è ciò che decidiamo di non fare. Felice  giovedì

Battaglia di Beroia

La battaglia di Beroia  fu combattuta tra i Peceneghi e l’imperatore bizantino Giovanni II Comneno nell’agosto 1122 nell’attuale Bulgaria, presso la città di Beroia, oggi Stara Zagora e  provocò la scomparsa dei Peceneghi come popolo indipendente. Nel 1091 i Peceneghi avevano invaso l’Impero Bizantino ed erano stati sconfitti dal padre di  Giovanni II Comneno, Alessio I Comneno nella battaglia di Levounion. Questa battaglia aveva significato l’estinzione quasi totale dei peceneghi che avevano partecipato alla spedizione; tuttavia un certo numero di peceneghi rimasti indietro furono attaccati nel 1094 dai cumani, i superstiti della battaglia fuggirono o, nella maggior parte dei casi, si stabilirono nei Balcani, senza integrarsi con gli abitanti del luogo. Nel 1122 ci fu una nuova invasione dei peceneghi: dalle steppe russe avevano invaso l’Impero bizantino attraversando la frontiera sul Danubio. Secondo alcuni studiosi è possibile che questa invasione sia stata causata da Vladimir II di Kiev, 1113-1125, re di Kiev. L’Imperatore Giovanni II Comneno di Bisanzio, 1118-1143, era fortemente determinato a fermare gli invasori, che rischiavano di fargli perdere il controllo della parte settentrionale dei  Balcani, quindi trasferì il suo esercito dalla frontiera dell’Asia Minore, dove nel frattempo i bizantini stavano combattendo contro i turchi, in Europa e subito si mise in marcia per andare a combattere i peceneghi. Giovanni riunì il suo esercito vicino a Costantinopoli e disse che bisognava arrivare nel modo più veloce possibile al contatto coi peceneghi, per poi ingaggiare battaglia. Nel frattempo gli invasori avevano installato un accampamento vicino alla città di Beroia in Bulgaria. Giovanni offrì loro un trattato di pace con condizioni favorevoli; si trattava però di un inganno, perché quando la risposta dei peceneghi non era ancora arrivata, Giovanni dette l’ordine di attaccare il loro accampamento. Nonostante i peceneghi fossero stati colti di sorpresa, opposero una strenua resistenza, e nessuno dei due eserciti riusciva ad avere la meglio sull’altro. L’imperatore bizantino ordinò allora alla sua guardia variaga di entrare in battaglia. L’intervento dei Variaghi fu decisivo, perché riuscirono ad accerchiare l’esercito nemico, causandone la disfatta. La vittoria bizantina era completa, i superstiti dell’esercito dei peceneghi furono arruolati nell’esercito bizantino. La vittoria bizantina a Beroia decretò la fine del problema dell’invasione dei peceneghi. Per un certo periodo, i peceneghi rimasti si raggrupparono in Ungheria, ma erano solo una minoranza e ben presto si unirono alla gente del luogo, e il popolo dei peceneghi scomparve. Per i bizantini, tuttavia, la vittoria non condusse immediatamente alla pace nei loro domini nei Balcani: dal 1128 al 1130, l’Impero subì diversi attacchi degli  Ungari, che si conclusero solo dopo che l’Ungheria cadde in una guerra civile. Tuttavia, la battaglia viene contrassegnata come continuazione del ripristino dei Comneni dell’Impero bizantino; queste vittorie sui peceneghi e poi sugli ungheresi permisero ai bizantini di stabilizzare la loro frontiera sul Danubio, permettendo all’imperatore Giovanni II Comneno di concentrare i propri sforzi nella lotta contro i turchi selgiuchidi nell’Asia Minore.

Favria, 9.08.2024  Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno abbiamo il dovere di trasmettere ai nostri figli la speranza. È l’unico modo per preservare il loro diritto di sognare. Felice venerdì

10 agosto 1793 viene aperto il museo del Louvre

Il palazzo che era stato residenza reale fino all’inaugurazione della Reggia di Versailles, diventa un museo pubblico dove il popolo può ammirare le opere confiscate dai rivoluzionari alla Corona e alla Chiesa. La vera origine del termine louvre è dibattuta. Altre località francesi portano il medesimo nome. La più conosciuta fa derivare louvre dal latino lupara, cioè luogo abitato dai lupi. Un’altra ipotesi è quella di Sauval che propone che il nome derivi dall’antico termine francone leouar che significava  castello e fortezza. Edwards, invece, sostiene che il nome derivi dal termine rouvre, che significa quercia, e che si riferisca al fatto che originariamente il palazzo era stato costruito in un bosco. Nel maggio del 1791 l’Assemblea costituente, nata a seguito della Rivoluzione francese, dispose la creazione di un museo all’interno del palazzo del Louvre di Parigi, voluto da Francesco I nel 1546 sul sito di una fortezza del XII secolo. Il sovrano era un grande collezionista d’arte, e il Louvre doveva servire come residenza reale. I lavori continuarono dopo la morte di Francesco I, durante i regni di Enrico II e Carlo IX. Quasi ogni monarca francese estese il Louvre e il suo parco, e importanti aggiunte vennero fatte da Luigi XIII e Luigi XIV nel XVII secolo. Entrambi i sovrani ampliarono notevolmente le acquisizioni di opere d’arte della corona francese, e Luigi XIV acquistò la collezione d’arte di Carlo I d’Inghilterra dopo l’esecuzione di quest’ultimo, avvenuta nel corso della guerra civile inglese. Nel 1682 Luigi XIV trasferì la sua corte a Versailles, e il Louvre cessò di svolgere la funzione di residenza reale principale. Fu con l’avvento dell’Illuminismo che molti in Francia iniziarono a chiedere l’esposizione pubblica delle collezioni reali. Desiderio che si realizzò con la Rivoluzione, quando la nuova classe dirigente volle sottolineare, anche nella libera fruizione dell’arte, la distanza dal vecchio regime. Il Museo del Louvre venne così inaugurato il 10 agosto 1793 e vi furono raccolte le opere di numerosi artisti, tra i quali anche molti italiani come Raffaello, Michelangelo e Leonardo Da Vinci. Erano oltre 500 opere, in gran parte confiscate alla famiglia reale o alla Chiesa, ma era soltanto l’inizio. Con il passare degli anni, il Louvre vide aumentare le proprie collezioni con quadri e sculture portati in Francia dalle armate di Napoleone,  un vero predatore di opere d’arte,  che ne fecero uno dei musei più ricchi al mondo.

Favria, 10.08.2024   Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno persino negli angoli più bui in questa vita, si possono incontrare spiragli di luce, ed infinita speranza. Felice sabato

Il Phon.

Strumento d’uso quotidiano, il phon, o asciugacapelli,  si basa su un meccanismo in cui una piccola ventola convoglia aria verso le nostre chiome dopo averla fatta passare attraverso una resistenza elettrica di potenza variabile, scaldandola in modo da creare un flusso asciugatore. Il primissimo antenato di questo rivoluzionario oggetto fu ideato nel 1888 dal coiffeurfrancese Alexandre-Ferdinand Godefroy, era un grande copricapo, simile ai moderni caschi da parrucchiere, collegato a una stufa a gas tramite un tubo che indirizzava l’aria calda sui capelli. La svolta decisiva giunse però nel 1911 con l’inventore americano Gabriel Kazanjian, che brevettò il primo asciugacapelli con elementi elettrici, più piccolo e maneggevole del predecessore. Fino ai giorni nostri, si sono quindi susseguiti modelli sempre più funzionali. Ma prima di seguirne l’evoluzione può essere interessante scoprire come ci si asciugava i capelli prima di questa invenzione. Anticamente per asciugare i capelli, donne e uomini hanno fatto ricorso a metodi che richiedevano pazienza e buone condizioni climatiche. Com’è ovvio immaginare, infatti, uno dei primi espedienti fu l’asciugatura dei capelli al sole. In alternativa, si metteva la testa bagnata davanti a un focolare, magari aiutandosi con teli assorbenti. In seguito, dall’antico Egitto, si diffuse l’abitudine di arroventare dei ferri su cui disporre i teli prima di usarli per tamponare la testa, in modo da scaldarli. In Cina furono invece messi a punto piccoli ventagli di bambù con cui indirizzare l’aria verso la testa, sempre in prossimità di una fonte di calore. Per tutto il Medioevo e l’Età moderna, questi metodi rimasero invariati, inclusa l’abitudine di pre-riscaldare i panni per capelli, i migliori erano di lino,  su una stufa, molte donne li mettevano in testa al momento di coricarsi. Le cose migliorarono nel XIX secolo grazie alla nascita dei moderni teli in spugna, realizzati in cotone, più assorbenti dei predecessori. Finalmente, nel 1888, Alexandre-Ferdinand Godefroy presentò in Francia il suo prototipo di asciugacapelli. Quanto alla parola “phon”, o “fon”, con la quale l’asciugacapelli è chiamato in alcuni Paesi, a partire all’incirca dagli anni Trenta del XX secolo, deriva dal tedesco Fohn, nome di un vento caldo che soffia in area alpina, noto in Italia come Favonio. Pur rivoluzionario, l’ingombrante asciugacapelli ideato da Godefroy, dotato tra l’altro di una valvola regola-vapore, per evitare bruciature, risultava poco pratico, essendo molto lento da usare nonché difficile da trasportare. Più efficace risultò il modello brevettato negli Usa da Gabriel Kazanjian nel 1911, alimentato elettricamente e dotato di una manovella per azionare il flusso d’aria. Realizzato in metallo e vagamente simile nella foggia ai moderni phon, era molto rumoroso e non garantiva ancora prestazioni ottimali, ma nel giro di poco tempo i modelli a lui ispirati, commercializzati a partire dagli Anni ’20 in Francia, Germania e Usa, registrarono notevoli migliorie, con meccanismi automatici, basati su motorini elettrici e ventole, e scocche più leggere e maneggevoli. Questi oggetti, sempre più diffusi, furono resi più sicuri grazie a congegni che evitavano il surriscaldamento e i rischi di cortocircuito. Intanto, iniziarono a farsi strada anche le piastre per capelli, utili ad arricciare o lisciare le chiome e il cui prototipo di riferimento era stato brevettato nel 1909, da tal Isaac K. Shero, inventore dalla nazionalità incerta. A decretare il successo dei primi modelli elettrici di phon fu, oltre alla rapidità di asciugatura, la possibilità che offrivano di governare particolari pettinature come il taglio à la garconne, il caschetto in voga tra gli Anni ’20 e ’30, decennio in cui spopolò l’asciugacapelli Foen, modello dell’azienda tedesca AEG. Oltre al successo dei phon da casa, nel secondo dopoguerra, sulla scia del primordiale casco di Godefroy, presero forma i moderni caschi asciugacapelli, vera icona dei saloni dei parrucchieri, realizzati in versione “cuffia”, collegabile all’asciugacapelli, per l’uso domestico. Rispetto ai comuni phon, questi asciugavano in modo uniforme, convogliando il getto d’aria calda simultaneamente sull’intera capigliatura. Tra gli Anni ’50 e ’70, un’importante novità fu l’introduzione di elementi plastici al posto di quelli metallici, dapprima nel manico e poi nella scocca, così da alleggerire ulteriormente i phon. Uno dei primi modelli in plastica fu il Superturbo 1500, lanciato nel 1977 dall’azienda italiana Parlux. In parallelo, furono introdotti meccanismi per ridurre il rumore, regolare il calore ed emettere anche getti freddi, utili per “fissare” la piega. Sempre più economici, ergonomici, potenti, silenziosi, sicuri e delicati sui capelli, i phon conobbero quindi il definitivo boom come prodotto di massa. Ai modelli consueti si andarono tra l’altro affiancando quelli a parete, che consistono in una cassetta di plastica, contenente motore, resistenza e ventola, fissata al muro e collegata a un tubo snodabile terminante con una bocchetta per l’uscita dell’aria, una variante era quella attivabile con una monetina o un gettone. Nel terzo millennio hanno iniziato inoltre a spopolare i phon a tecnologia ionica: rilasciano ioni negativi che si legano alle molecole d’acqua presenti sui capelli, facendole disporre in modo uniforme, così da eliminare l’effetto crespo. Infine, nel novero dei nuovi modelli high-tech, sempre più piccoli e leggeri, spesso in versione cordless, sono entrati a far parte anche i phon a raggi infrarossi, che stimolano la vasodilatazione, agevolando la circolazione sottocutanea.

Favria, 11.08.2024   Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita la speranza è una porta socchiusa, una luce oltre l’orizzonte, un profumo impresso nella mente. Felice  domenica

Per un mancato saluto.

Una delle guerre più decisive della Storia, che determinò il plurisecolare predominio dell’Inghilterra sui mari, forse sarebbe scoppiata comunque inizio per un mancato saluto.  Ma forse c’era troppo in gioco e da troppo tempo: la rivalità commerciale tra Inghilterra e Olanda. In quel crescendo di tensione fu però un piccolo incidente a far scoppiare la “bomba”.  Inghilterra e Olanda stavano rinforzando le rispettive flotte militari per prepararsi allo scontro. Ma la situazione precipitò per un mancato saluto: Oliver Cromwell, allora alla guida dell’Inghilterra, rivendicava un privilegio al quale a Londra tenevano molto. In base a una regola antica tutte le navi straniere incrociando quelle inglesi nel Mare del Nord e nella Manica dovevano “salutarle”. Ma la flotta olandese dell’ammiraglio Maarten Tromp non eseguì il saluto a quella flotta che intendeva perquisire le sue navi, e l’ammiraglio britannico Robert Blake aprì il fuoco. Così si avviò la prima della decina di battaglie navali nelle quali si affrontarono le due flotte e dopo le quali i Paesi Bassi capitolarono.

Favria, 12.08.2024  Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno vivo di speranza  per provare a stare bene. Amo i gesti semplici, amo chi promette e poi mantiene e amo quelle piccole emozioni che mi suscitano le persone pulite. Felice  lunedì

Il potere di salvare la vita l’abbiamo nel sangue.

Il potere di salvare la vita l’abbiamo nel sangue. Vieni a donare il sangue, vieni a donare a Favria *GIOVEDI’ 29 AGOSTO*, cortile interno del Comune dalle ore 8 alle ore 11,20. Abbiamo bisogno anche di Te. Attenzione, per evitare assembramenti è necessario sempre prenotare e portare sempre dietro documento identità. a Grazie per la vostra collaborazione. Per info, Cell. 3331714827. Ricordo i requisiti minimi per donare: età compresa tra i 18 e i 60 per la prima volta, poi dai 65 a 70 anni, l’idoneità a donare va valutata dal medico. Grazie se fate passa parola e divulgate il messaggio. Vieni a donare il sangue *GIOVEDI’ 29 Agosto a Favria* e sii un eroe nella vita di qualcuno. Orario dalle ore 8 alle ore 11,00, devi prenotare al cell 3331714827 oppure tramite mail favria@fidasadsp.it

Ricordate che donare il sangue rappresenta il più grande atto di vita che chiunque può compiere. Ogni giorno, in Italia, migliaia di persone sopravvivono grazie a un gesto così semplice ma così importante. Non indugiamo, perché “certe cose” non accadono solo agli altri. Gli “altri” siamo anche noi.

Vieni a donare il sangue  giovedì 29 Agosto a Favria