Quattro modi per dire bombarda!
In questi giorni ho letto in un libro gli eventi della Prima Guerra Mondiale da Caporetto alla battaglia del Piave, e leggendo della battaglia del Piave, si menzionano i bombardieri, che non erano sicuramente gli aerei usati dagli americani nella seconda guerra mondiale ma dei soldati, artiglieri addetti alle bombarde. Infatti se uno dice bombarda, oggi si evoca subito una delle prime armi da fuoco non portatili, ma bombarda dal francese bombarde, deriva dal latino bombus, rumore sordo, voce onomatopeica. Se intendiamo come bombarda il pezzo d’artiglieria a tiro parabolico inizialmente costruito con verghe di ferro battuto disposte come le doghe delle botti e poi saldate e rinforzate con cerchi di ferro cui si dava la forma cilindrica saldandone poi gli orli. Successivamente in colata di ferro e poi in bronzo e altre leghe metalliche. Tale arma nella seconda metà del XV secolo andò lentamente in disuso in Italia, per varie ragioni, quali lo sviluppo tecnologico nelle artiglierie ed il fatto che il primato nella costruzione passò alla Francia e le nuove si distinsero con il nome generico di cannoni e la denominazione di bombarda fu abbandonata per parecchi secoli, per tornare poi in uso durante la prima guerra mondiale dove indicava i grossi cannoni a tiro parabolico. Infatti la tattica di guerra di posizione assunta da tutte le potenze degli stati centrali portò alla cristallizzazione del fronte, rendendo conveniente affidare alle artiglierie l’incarico di distruggere i reticolati, di spianare le altre difese accessorie e colmare le trincee avversarie. Normalmente la bombarda era di grosse dimensioni, e doveva essere trasportata smontata nelle sue principali parti e poi montata e posizionata sul posto. A vantaggio di tale arma erano, per l’epoca, la sua possibilità di sparare proiettili sufficientemente grossi. Anticamente esisteva anche la bombardella da piazzare sui merli del castello e sul maschio del castello. La feritoia destinata a questa arma veniva chiamata bombardiera. Una particolare bombarda veniva chiamata ferlina, usata nella seconda metà del sec. 15°, in Lombardia e aveva preso il nome dal maestro “gittatore” Ferlino, che fu al servizio prima del marchese di Chieri, poi del conte Francesco Sforza. Esisteva anche un tipo di nave da guerra chiamata bombarda. Era una nave da guerra a vela di non grande stazza e concepita non per operare contro altre navi, ma contro bersagli terrestri. Praticamente erano degli scafi disalberati, con una fiancata gremita di bombarde di grosso calibro e cannoni e l’altra fiancata disarmata. Di solito venivano trainate da lance o da altre navi. Anticamente queste navi veniva chiamate bombardiero. Due celebri bombarde furono la HMS Erebus e la HMS Terror, che una volta dismesse dal servizio furono protagoniste della spedizione Discovery nel 1901-1904 nell’Antardide. Ma non è finita qui la bombarda è anche uno strumento musicale della famiglia degli oboi, ed il nome è dovuto a causa della sua potenza sonora nell’emissione del suono. Strumento originario del medio oriente, ebbe notevole diffusione in Europa già a partire dal Medioevo divenendo uno degli strumenti ad ancia doppia più rilevanti nella cultura dell’epoca. Molto utilizzato e diffuso anche durante il Rinascimento, finché cadde in disuso soppiantata gradualmente dal più moderno oboe. Permane come strumento tipico nella cultura e nella musica popolare di diversi paesi dell’area europea. Simili strumenti sono presenti nell’area araba lo zuena ed in Cina ad esempio il suona. La bombarda veniva storicamente impiegata in accoppiamento alle trombe, ai flauti ed ai tamburi per animare processioni e i balli di corte, e sovente nelle cerimonie religiose prendendo posto nelle balconate più alte delle cattedrali. Oggi la bombarda nella musica colta viene utilizzata quasi esclusivamente per ricostruzioni storiche di musiche medievali e rinascimentali, oltre che essere usata a livello folkloristico in diverse culture, compresa quella italiana. Esistono però differenti estensioni di bombarda: vi è quella detta soprano detta anche bombardino o ciaramella in Italia meridionale, il contralto, detto anche contrabombarda, il tenore, detto anche tenorbombarda, ed infine il basso detto anche bombardone, disponibile anche nella versione ritorta come la dulciana. Una curiosità, in Germania è conosciuta come Pommer dal dialettale Bommer o Bommert , bombarda, nome dato nel sec. 17°, in Germania e altrove, a un tipo di strumento musicale intermedio tra il fagotto e l’oboe. Ed infine il nome di bombarda, proprio in ispirazione a questo strumento medievale, è passato nell’organistica francese come identificativo del particolare registro grave ad ancia “bombarde”, quello, appunto, dal suono più possente. Nell’organaria francese la bombarda costituisce, insieme alla tromba ed al clarone, la cosiddetta batterie d’anches. Poiché, per produrre suoni potenti e squillanti, questi registri hanno bisogno di una notevole pressione dell’aria, negli organi più grandi è a volte presente una vera e propria tastiera indipendente, chiamata Clavier de Bombarde, sulla quale è possibile suonare la batterie d’anches senza far perdere pressione all’aria utilizzata dagli altri registri . pare che la bombarda come un registro francese appre nel 1587 ma secondo altri nel 1690. Come si vede dal nome dall’arma medievale si chiamano anche delle barche, strumenti musicali e dei registri dell’organo.
Favria, 23.01.2018 Giorgio Cortese
Certi giorni eleganti pensieri accarezzati dal vento delle mille emozioni volano verso ambiti sogni.
Conrad l’ultimo generale dell’Austria Felix.
Nei libri che ho ultimamente letto sulla prima guerra mondiale viene citato come avversario Conrad Von Hötzendorf, Capo di Stato Maggiore dell’esercito austroungarico, consigliere di Francesco Ferdinando d’Asburgo-Este, acceso sostenitore della guerra contro la Serbia e dell’alleanza con la Germania, portato ad un atteggiamento ostile nei confronti dell’Italia. Ho deciso di approfondire chi Conrad era nato nel 1852 e che si può considerare l’ultimo custode della tradizione militare alla Radesky. Questo generale si adoperò per ovviare alla progressiva disgregazione dell’impero Austro-Ungarico, sostenendo una politica di aggressione nei confronti dell’Italia e della Serbia, i due stati, che più di tutti gli altri, fomentavano gli animi indipendentisti delle etnie presenti all’interno della duplice monarchia. Nel periodo formativo Conrad vide nel 1864 la guerra vinta contro la Danimarca ma anche la definitiva perdita nel 1866 della maggior parte dei territori italiani dell’impero e la contemporanea pesante sconfitta subita a Königgrätz-Sadowa per mano prussiana. Di questo periodo è anche l’Ausgleich, il compromesso, che dette vita alla Duplice Monarchia austro-ungarica. Altro episodio importante è nel 1902, quando si trovò anche ad affrontare lo sciopero dei fuochisti del Lloyd a Trieste, protesta fatta per chiedere la giornata lavorativa di otto ore. Conrad, pur consapevole che allo sciopero avevano partecipato varie fasce della popolazione, se la prese in modo violento con quella che a lui era sembrata una provocazione irredentista maturando così quella diffidenza verso gli elementi di lingua italiana dell’esercito che porterà ad un sostanziale isolamento di questi nel corso della prima guerra mondiale. Da ricordare che Franz Conrad von Hötzendorf nel 1916 fu lo stratega della Strafexpedition, la “spedizione punitiva”. Anche altri paesi nel periodo prebellico ebbero esperti di tattica propensi all’offensiva ad ogni costo, strateghi alle prese con piani di attacco preventivo nei confronti di paesi vicini, generali che, nell’estate del 1914, compirono gravi errori nello sviluppo dei propri piani di guerra e comandanti che, nel corso del conflitto, perseverarono nelle loro strategie nonostante il complicarsi e il perdurare della guerra. E purtroppo Conrad rivestì tutti questi ruoli. La colpa più grave di cui si macchiò non fu tanto quella di invocare misure offensive o soluzioni aggressive, quanto nel non accorgersi che queste misure o soluzioni non si adattavano alla situazione in cui si trovava il suo paese o alle possibilità dell’esercito. Insomma questo fragile ragazzo con ambizioni d’artista costretto a seguire la carriera militare, instancabile lavoratore, era deciso a comprendere la complessità dell’impero austro-ungarico fino ad apprendere nove lingue, lontano da ogni forma di esibizionismo ma amato in maniera quasi fanatica dai propri soldati. Sicuramente era un pessimo psicologo e molto impulsivo e perciò in rotta di collisione con i vertici imperiali, Conrad è stato comunque considerato il più grande militare nella storia dell’Austria dai tempi del Principe Eugenio. Il suo pensiero si riassume in una frase tratta dalle sue memorie di guerra che dice: “Non sono i singoli uomini a creare la loro epoca, ma è questa a creare i suoi uomini!”
Favria, 24.01.2018 Giorgio Cortese
Senza il vento per gonfiare le vele, la mia umana barca è soltanto nelle mani di Dio
Vincere.
Vincere nella vita è come viaggiare: meglio insieme! Ma forse più che a vincere, la cosa più difficile non è vincere una volta sola ma continuare a farlo con le stesse persone e con le risorse sempre più più limitate o quasi finite. Vincere anche se muta la situazione economica e gli avversari migliorano. Ho letto sull’argomento un libro molto interessante, dice che il segreto di vincere è nella capacità di convincere continuamente persone che hanno nulla in comune a fare l’unica cosa che conta nelle organizzazioni che hanno successo: fare squadra. Ma cosa vuole dire fare squadra? Fare squadra nella vita, nel lavoro o nello sport. Fare squadra vuole dire mettere insieme delle persone che nella maggior parte dei casi non hanno nulla in comune. Hanno età diverse, ragionano maniera diversa, delle professionalità e capacità diverse idee religiose e politiche diverse. Tutte queste persone osì all’aparenza eterogenee devono imparare, in tempi brevissimi a giocare insieme, a passarsi la palla, il lavoro. Ma la cosa più difficile che alcuni momenti è quando per fare squadra devo rinunciare a e qualcosa in favore di un compagno con cui non ho nulla in comune. Ecco l’importanza nella vita di ogni giorno di mettere insieme tutte diversità che hanno quelli che collaborano con me, e tutti che contribuiamo a scrivere una scrivere una partitura in cui tutti ci riconosciamo.una partitura in cui io per primo, ma tutti sappiamo esattamente cosa fare, quando farlo, come farlo. Una partitura in cui ognuno si sente importante e gratificato per ciò che è chiamato a fare, sulla quale ci concentriamo motivati nel farlo. Fare squadra significa lavorare per competenza, solo in questo modo ciò che ci differenzia diventa un’opportunità da sfruttare. Ritengo importante che le persone che lavorano nel team devono sviluppare un forte senso della competizione dell’appartenenza e della sfida ma ognuno di noi nel proprio animo. Nella vita di ogni giorno siamo chiamati a misurarci con gli obiettivi del lavoro che è una squadra ma anche cimentarci in sfide e personali. Ma ricordiamoci sempre a vincere nello sport come nella vita non è la squadra che scende in campo ma è la squadra invisibile. La squadra invisibile è composta da tutte quelle persone che affiancano la squadra, amici, parenti conoscenti e clienti che ci permettono di scendere ogni giorno in campo e di trasformare i problemi in opportunità. Il nemico della vita e quello che permette di trasformare le diversità tra le persone in una grande opportunità, che ci migliora e ci aiuta ad imparare sempre cose nuove. Ma attenzione nella realtà non vale il luogo comune: “squadra che vince non si cambia”. Per continuare a vincere, per evitare la malattia del male da vittoria che rende supponenti ed incauti, bisogna portare sempre continui cambiamenti alla squadra in modo da mantenere alta la competitività contro di avversari. Qui esce un altro nemico il tempo, e allora la parola d’ordine deve essere attaccare il tempo! Ma sarà impossibile farlo se persone così diverse tra loro non si concentreranno sui ruoli scritti e condivisi della partitura. Solo la partitura definisce i ruoli e competenze, aiuta a dare metodo e motivazione e supprto a chi nella squadra è in difficoltà con l’aiuto della s quadra invisibile. Il segreto di tutto come appreso dal libro: “Scoiattoli e Tacchini. Come vincere in azienda con il gioco di squadra” di Montali. La domanda se è possibile insegnare a un tacchino a salire in cima a un albero, però per quel lavoro sarebbe meglio utilizzare uno scoiattolo. Nella vita di ogni giorno non esistono solo squadre di soli scoiattoli, e il segreto del successo sta dunque nel costruire una squadra in cui i “tacchini” possano essere motivati, allenati, sostenuti, per andare oltre i propri limiti e raggiungere risultati che nemmeno loro pensavano di ottenere trasformando la sfida della squadra in sfida personale.
Favria, 25.01.2018 Giorgio Cortese
Nella vita quotidiana l’umiltà e la semplicità sono le due vere sorgenti della bellezza.
Radici e tradizioni per il nostro comune futuro.
Come ogni anno si svolge la Festa del Ringraziamento dei coltivatori che cade nel ricordo di S. Antonio Abate, e secondo la leggenda, la notte del 17 gennaio gli animali hanno la facoltà di parola! Se solo fosse vero, chissà quali frasi ci rivolgerebbero e cosa ci racconterebbero delle loro vite. Forse ci racconterebbero che abbiamo tutti comuni tradizioni agricole, di agricoltori e coltivatori. Prima del boom economico, moltissima gente aveva la stalla e accudiva alla terra, magari alternandola al lavoro in fabbrica ma prima, nell’ottocento, prima della rivoluzione industriale la stragrande maggioranza dei nostri antenati lavorava la terra. Beh adesso alle manifestazioni vediamo enormi mezzi agricoli che hanno sostituito i generosi buoi, i tenaci muli, gli umili asini ed i prestanti cavalli nel lavoro della terra. Ma senza i mezzi meccanici sempre più potenti e dotati di tecnologia all’avanguardia non sarebbero potuti sopravvivere gli agricoltori che patiscono come tutte le categorie, la crisi economica, ma loro oltre a questa crisi che ogni giorno morde, devono fare i conti con il tempo, sempre più bizzarro che aggiunge altro danno economico. Forse in queste circostanze, ci dobbiamo ricordare le nostre comune radici e ringraziare i coltivatori nella persona del Presidente della Coldiretti di Favria signor Abbà Flavio, cell 3358066090 che porta avanti questa tradizione, quest’anno, unitamente, con i priori 2018, Elisa Baima Besquet cell. 3312050307 e Boetto Andrea cell. 3402717770. La manifestazione avverrà domenica 28 gennaio con alle ore 11 la S. Messa a Favria, dopo alle ore 12,00, in piazza della Repubblica di fronte al Comune, la tradizionale benedizione dei trattori e degli animali, segue alle ore 13,00 pranzo presso il Salone Polivalente, per motivi organizzativi la prenotazione del pranzo è gradita entro il giorno 24 gennaio ai due priori o al Presidente Abbà Flavio. In conclusione, queste manifestazioni servono ai coltivatori e a noi tutti per farci sentire uniti nel comune futuro, solo uniti vinceremo la sfida di portare avanti sani valori e difesa del territorio con gli agricoltori che sono le sentinelle dell’ambiente perché hanno l’interesse primario di preservarlo e coltivarlo al meglio e noi che non dobbiamo mai dimenticare chi erano i nostri nonni dal comune passato di agricoltori per sentire insieme il senso di Comunità e di appartenenza. Si, queste tradizioni che sono un ritorno alle nostre comuni radici sprigionano nei nostri animi il senso di appartenenza, una forza in grado di accomunare ed unirci come essseri umani al Creato. Ricordiamoci l’appartenenza non è solo lo sforzo quotidiano di vivere insieme civilmente, non vuole solo dire di volere bene agli altri, ma avere gli altri dentro di noi. Grazie coltivatori e agricoltori, guardiani delle nostri radici e del territorio per quello che ogni giorno fate con la dura fatica.
Favria 26.01.2018 Giorgio Cortese
La semplicità è complicata da raggiungere e ci vuole molto tempo per imparare a fare qualcosa di semplice
Il rozzo concetto di razza!
Ma che razza di persone sono quelle che parlano di razza quando parlano di esseri umani? Mi viene un brivido lungo la schiena che esistano persone dalla mentalità così rozza. Ma prima di continuare, permettermi una breve riflessione sulla parola razza. Questa parola è giunta in italiano attraverso gli antichi popoli germanici dove serviva a significare la diversità linguistica piuttosto che etnica. I germani si riconoscevano come confederazione di popoli in quanto parlavano dei dialetti più o meno intellegibili. Di questo aspetto resta una traccia linguistica anche nella lingua italiana, la parola razza deriva infatti dalla parola gotica razda. Questa parola gotica è rimasta anche in altre lingue, nell’inglese race probabilmente di origine vichinga dall’antico norvegese ras, nelle lingue dei paesi baltici, lituano rasè, lettone rase, estone rass, resta anche nello spagnolo raza e nel portoghese raça, lingue in cui è stato molto forte l’influsso linguistico derivato dai Goti. Da li il concetto di razza, quella dei cavalli era presente nell’antico francese, haraz, per significare l’allevamento dei cavalli, e poi passato da arazz a razza. Curioso è che la parola “rozza” di propabile origine germanica, poco usata, indica un cavallo di scarso pregio e poco robusto ed agile. Oggi non ha senso parlare di razza, con questa teoria nei secoli passati loschi individui si sono serviti per separare, dominare, sterminare con lo schiavismo codificato e accettato senza sussulti morali per secoli, oppure il periodo coloniale sfruttatore e sterminatore dei popoli indigeni. Per ultima la tragedia del popolo Armeno e della Shoah. Tutte queste tragedie dell’umanità sono legate da un sottile filo, il concetto di razza superiore e di razza inferiore, di confronto identitario che cancella la qualità umana di chi è reputato appunto sub-umano, selvaggio, impuro da sfruttare e poi da eliminare. Certo il rozzo pensiero che sente l’identità minacciata e sente odore di contaminazione porta benzina ai populisti. E’ vero non possiamo accoglierli tutti! Lo sappiamo tutti che tutti non possiamo prenderli, ma la soluzione non è il rifiuto, ma l’integrazione. Non dobbiamo essere Noi e Loro ma richiamarci tutti Noi, perché di una cosa sono totalmente certo, che siamo tutti della nostra stessa razza, quella umana.
Favria, 27.01.2018 Giorgio Cortese
Un asino può anche fingersi cavallo, ma prima o poi raglia.
Da frustacadreghe al froj
Il caro amico Fervido mio ha parlato di una persona da lui definita frustacadreghe, per indicare una persona nullafacente, ma si può anche dire frustapianele se sono inette, mi ha anche detto che si può usare il termine simpatico di frustabanch per indicare delle persone bacchettone, frustafenestre per indicare delle persone inette, frustafer gli sciuponi e frustagelosie, per indicare persone particolarmente curiose. Successivamente mi ha parlato del froj, in italiano chiavistello. Il lemma in italiano deriva dal latino claustellum, diminutivo. di claustrum, serratura, incrociato con clavis, chiave. Insomma la sbarra di ferro che scorre entro gli anelli o le asole di una piastra fissata a uno dei battenti di un uscio o di una finestra per tenerlo chiuso, sinonimo di catenaccio, chiavaccio. Da non confondere con la spranga che deriva dal longobardo spanga, in tedesco spange che è giunta sino a noi con l’inserzione di un -r- per motivi onomatopeici o per sovrapposizione di sbarra, affine all’antico tedesco sparro, con il significato di chiudere, serrare. La parola froj, lemma piemontese deriva invece dall’incrocio tra la parola latina veruculum, piccolo spiedo, con l’altra parola latina ferrum, ferro. La bocchetta della stanghetta tonda ingessata nel muro si dice frojera. Altri pezzi del meccanismo di chiamano manoja, la maniglia, se la toppa è piana, saradura rasa, e il meccanismo, crica. Questa ultima voce, pare derivi dall’occitano crico, con il significato di lucchetto o come voce onomatoipeica del rumore che viene fatto quando si gira a chiave la serratura. Grande persona Fervido che mi ha congedato con questa battuta che l’animo di certe persone è simile a dei grandi saloni, si possono chiudere anche a chiave ma i loro animi sono vuoti pieni fino all’orlo e continuano a fare i frustacadreghe.
Favria, 28.01.2018 Giorgio Cortese
Sono persone pigre gli esseri umani che potrebbero fare di meglio
Felicità.
La felicità è una parola che si usa solo al singolare, ma che ci rende felici per una serie di innumerevoli circostanze. La felicità è il mio quotidiano miraggio al mio futuro e che posso solo toccare con la mano del cuore per gli eventi del passato. Una parola che si apre a tempi e tempi infiniti, ma che occupa brevemente la mia umana esistenza. La felicità è composta da istanti felici, brevi impressioni e delicati ricordi. La felicità è stare a cena con gli amici e mangiare e bere spensieratamente, vicenda passata ma che mi restituiscono nel presente della mia vita la reale presenza di istanti delici che fanno bene all’animo e danno carburante Alla passione nell’andare avanti nel quotidiano cammino. Si la felicità me la gusto solo a pizzichi e posso coglierla solo come tale, perché la felicità è fugace ed improvvisa, ma quando avviene illumina l’animo che un radioso sole abbagliante. Solo assaporando l’attimo godo dopo dei ricordi più felici che poi sono fatti di momenti che si sono conclusi quando avrebbero dovuto. La felicità è il mio attimo di gioia, il mio codice segreto per essere ottimista, la felicità è simile ad un balcone volto al mare, che spetta fiducioso alba e ogni tramonto, la neve di di agosto e la luna a mezzogiorno. Mi rende felice la lettura di un buon libro, i lieti ricordi, le saporite cene tra amici allietate dal buon vino.
Favria 29.01.2018 Giorgio Cortese
La vita quotidiana è il giusto mix tra distinzione, naturalezza, cura e semplicità, il tutto con il buonsenso.