La sijessa. – L’affidabile e generoso Sambuco. – W l’Italia! – Hortus conclusus. – Arcant, fausset e fausson. – NaCIO! – Il buongustaio dell’antichità. – Acqua alle corde!…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

La sijessa
Ricordo da bambino… la persona adulta, dopo la giornata passata a lavorare in officina si

metteva seduta sotto la tettoia e sistemava la lama della siessa, la falce fienaria. La voce piemontese siessa o sessa dal latino sicilem, detta anche sijessa o fer da siè. Per sistemare la sijessa ha una piccola incudine incastrata in una vecchia pietra, lascito di generazione in generazione e su di essa ha appoggiato la lama della falce, volgendola verso l’esterno. Con un martello inizia a dare piccoli colpi regolari su tutto il taglio della lama, con il fine di raddrizzarla, sembra un tribuadare di campane allegro e regolare. Dopo aver sistemato la lama ed averla fissata ad un lungo manico con due prese, una a metà altezza e l’altra all’estremità opposta alla lama, questa persona si avviava verso il campo li vicino, dopo la vigna e iniziava a tagliare l’erba con ritmo regolare. Interrompeva ogni tanto tale attività per controllare il taglio della lama e affilarla maggiormente con una cote, che portava sempre con sé in un astuccio di legno fissato alla cintura. Mentre il falciatore svolge tale lavoro, osservo la moglie che , usando il manico di un rastrello, smuoveva e rigirava l’erba tagliata per facilitarne l’essicazione. Il contadino sistemava poi a terra un telo rettangolare, un telo, in piemontese il il fiurer, altre volte una rete fissata ai lati da due bastoni, il fiarol che lo posava per terra e poi aiutato da me ricopriva il telo con una grande quantità di erba, e poi bloccava il fiurer. Infine, facendosi aiutare e tenendo il capo piegato, solleva il carico sul collo e sulle spalle, per trasportarlo così fino alla stalla nel cortile li vicino. La falce è un attrezzo manuale costituito da un manico in legno e una lama ricurva fissata all’estremità distale. Esistono due tipi di falce: la falce fienaia o frullana, con una lama arcuata lunga da 60 a 90 cm, fissata perpendicolarmente ad un manico lungo da 140 a 160 cm dotato di due impugnature, una a metà altezza e l’altra all’estremità opposta alla lama, e il falcetto, falciola o messoria, più piccolo e utilizzato per recidere gambi di cereali o erba, la messoira, la falce per le messi dal latino falcem messoiram, messemm in latino deriva da mietere . mio suocero per tagliare i rovi fino a pochi anni fa, adesso è sulla soglia dei 96 anni usa una falce, meno arcuata posta su di un lungo bastone in legno detto asta arcant, usata per tagliare i rovi, la parola piemontese deriva dal gallico cantos, lato angolo di taglio. L’utilizzo della falce richiede una specifica conoscenza tecnica, acquisibile solo con un lungo apprendimento. Occorre infatti bilanciare molto bene le braccia, muovendo orizzontalmente la lama all’altezza voluta con un ritmo oscillatorio. Il falciatore deve affilare spesso la lama con la pietra della cote e, di tanto in tanto, raddrizzare il taglio della lama, battendone il filo con un apposito martello su una piccola incudine. Da bambino la fienagione iniziava la sera, uscito dalla fabbrica mio papà iniziava con il taglio dell’erba, che ogni tanto veniva poi rivoltata per facilitarne l’essiccazione da mia mamma. Quando l’erba era completamente asciutta e trasformata in fieno, veniva raggruppata in mucchi con un rastrello. Il fieno, indispensabile per l’alimentazione delle bestie durante l’inverno, veniva poi raccolto e successivamente trasportato nel fienile. Ricordi di quando ero bambino…

Buona giornata. A giugno il sole è un cappellino luminoso che  s’alza, poco a poco da dietro il profilo degli alberi del parco. Felice lunedì!

GIUGNO

L’affidabile e generoso Sambuco.

Ornamentale, rustico e  per nulla esigente, Sambucus nigrasta bene in giardini, orti e frutteti. Il Sambuco comune, Sambucus nigra, è di una generosità inesauribile e multiforme, non a caso un tempo era addirittura definito: farmacia degli dei, per le benefiche proprietà dei suoi fiori e dei suoi frutti. Il Sambuco è una delle prime piante a risvegliarsi in primavera, già da   fine aprile, poi, compaiono i fiori, presenti fino a tutto giugno, sono grandi ombrelle profumate, ricche di nettare, irresistibili per api e altri insetti. I frutti, invece, permangono anche nei mesi più freddi e sono molto graditi agli uccelli. Oltre ad avere questa apprezzabile valenza ecologica, Sambucus nigrafa anche parte della storia delle nostre campagne. Un tempo, per esempio, dai suoi rami cavi si realizzavano manici resistenti e leggeri per utensili quali zappe e badili. Una pianta di poche pretese, molto ornamentale ed utile. Il Sambuco se fosse una persona, sarebbe una di quelle che tutti vorremmo annoverare tra le nostre amicizie.

Favria, 1.06.2021  Giorgio Cortese

Ogni giorno mi sforzo di essere come i girasoli, con il volto verso il sole, sempre sorridendo alla vita.

W l’Italia!

Ogni volta che gioca la Nazionale di calcio, rugby, pallavolo, ascoltiamo l’Inno d’Italia, l’Inno di Mameli, e magari ci divertiamo a vedere se i giocatori conoscono a memoria le sue parole. Ma qual è la sua origine e quale il significato delle strofe dell’inno di Mameli? Dal 12 ottobre 1946, l’inno nazionale d’Italia è il Canto degli Italiani, scritto nell’autunno del 1847 dallo studente e patriota genovese Goffredo Mameli, e musicato a Torino da un altro genovese, Michele Novaro. Nato in un clima di fervore patriottico che preludeva alla guerra contro l’Austria, l’inno presenta numerosi riferimenti storici del passato, che richiedono però una lettura attenta e circostanziata per una più corretta comprensione del testo. Ecco le nostre spiegazioni, strofa per strofa. “ Fratelli d’Italia l’Italia s’è desta, dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa.” Publio Cornelio Scipione, detto l’Africano (253-183 a. C.), fu il generale e uomo politico romano vincitore dei Cartaginesi e di Annibale nel 202 a. C. a Zama (attuale Algeria); la battaglia decretò la fine della seconda guerra punica, con la schiacciante vittoria dei Romani. L’Italia, ormai pronta alla guerra d’indipendenza dall’Austria, si cinge figurativamente la testa dell’elmo di Scipione come richiamo metaforico alle gesta eroiche e valorose degli antichi Romani. “Dov’è la Vittoria? Le porga la chioma, ché schiava di Roma Iddio la creò.” Si riferisce all’uso antico di tagliare i capelli alle schiave per distinguerle dalle donne libere; queste ultime, per sottolineare il loro stato, erano solite tenere i capelli lunghi. La dea Vittoria rappresentata come una donna dai lunghi capelli, dovrebbe quindi porgere la chioma perché le venga tagliata in segno di sottomissione a Roma: il senso della quartina è la certezza di Mameli che, in caso di insurrezione contro gli austriaci, la Vittoria non potrà che essere degli italiani perché è il destino che così vuole. “Stringiamci a coorte siam pronti alla morte l’Italia chiamò.” La coorte era un’unità da combattimento dell’esercito romano, composta da 600 uomini: era la decima parte di una legione. “Stringiamci a coorte” vuole dunque essere un’esortazione a presentarsi senza indugio alle armi, a rimanere uniti e compatti, disposti a morire, per la liberazione dall’oppressore straniero. “  Noi siamo da secoli calpesti, derisi, perché non siam popolo, Perché siam divisi. Raccogliamoci  un’unica Bandiera, una speme: di fonderci insieme già l’ora suonò. stringiamoci a coorte Siam pronti alla morte. L’Italia chiamò.” Si tratta di un richiamo al desiderio di raccogliersi sotto un’unica bandiera: speranza (speme) di unità e di ideali condivisi per un’Italia, quella del 1848, ancora divisa in sette Stati: Regno delle due Sicilie, Stato Pontificio, Regno di Sardegna, Granducato di Toscana, Regno Lombardo-Veneto, Ducato di Parma, Ducato di Modena. Uniamoci, amiamoci, l’Unione, e l’amore.  svelano ai Popoli le  vie del Signore.  Giuriamo far libero Il suolo natio: Uniti per Dio chi vincer ci può? Stringiamci a coorte siam pronti alla morte. L’Italia chiamò!” Mameli era un mazziniano convinto e in questa strofa interpreta il disegno politico del fondatore della “Giovine Italia”: quello di arrivare, attraverso l’unione di tutti gli Stati italiani, alla realizzazione della repubblica. “Per Dio” è un francesismo (e non un’imprecazione), che significa “attraverso Dio”, “da Dio”, qui inteso come sostenitore dei popoli oppressi. “Dall’Alpi alla Sicilia dovunque è Legnano”. La battaglia di Legnano, del 1176, è quella in cui la Lega Lombarda, al comando di Alberto da Giussano, sconfisse Federico I di Svevia, il Barbarossa. A seguito della sconfitta l’imperatore, sceso in Italia per affermare la sua autorità, fu costretto a rinunciare alle sue pretese di supremazia; scese dunque a patti con le città lombarde, con cui stipulò una tregua di 6 anni, a cui seguì nel 1183 la pace di Costanza in cui dovette riconoscere le autonomie cittadine. “Ogni uomo di Ferruccio ha il core, ha la mano”. Qui si fa riferimento all’eroica difesa della Repubblica di Firenze che tra il 12 ottobre del 1529 e il 12 agosto del 1530 venne assediata dall’esercito imperiale di Carlo V d’Asburgo. Nel corso dell’assedio, il capitano Francesco Ferrucci venne ferito a morte, e finito da Fabrizio Maramaldo, un capitano di ventura al soldo dell’esercito imperiale, il cui nome è diventato sinonimo di “vile” e al quale Ferrucci rivolse le parole “Tu uccidi un uomo morto”. Il 12 agosto i fiorentini firmarono la resa che li sottometteva nuovamente ai Medici. “I bimbi d’Italia si chiaman Balilla” Il richiamo a tutte le genti d’Italia è al valore e al coraggio del leggendario Balilla, il simbolo della rivolta popolare di Genova contro la coalizione austro-piemontese: si tratta del soprannome del fanciullo, forse un certo Giambattista Perasso, che il 5 dicembre 1746 scagliò una pietra contro un ufficiale, dando l’avvio alla rivolta che portò alla liberazione della città. “Il suon d’ogni squilla i Vespri suonò. Stringiamci a coorte siam pronti alla morte l’Italia chiamò.” “Il suon d’ogni squilla” significa “il suono di ogni campana”. L’evento cui fa riferimento Mameli è quello dei “Vespri Siciliani”: nome dato al moto per cui la Sicilia insorse dopo 16 anni di dominio angioino, francese, e si diede agli aragonesi, spagnoli. All’ora dei vespri del lunedì di Pasqua del 31 marzo 1282 tutte le campane si misero a suonare per sollecitare il popolo di Palermo all’insurrezione contro i francesi. “ Son giunchi che piegano le spade vendute: già l’Aquila d’Austria le  penne ha perdute. Il sangue d’Italia, Il sangue Polacco, bevé, col cosacco, ma il cor le bruciò. Stringiamoci a coortesiam pronti alla morte l ’Italia chiamò.” L’Austria degli Asburgo, di cui l’aquila bicipite era il simbolo imperiale, era in declino, le spade vendute sono le truppe mercenarie di cui erano piene le file dell’esercito imperiale, e Mameli chiama un’ultima volta a raccolta le genti italiche per dare il colpo di grazia alla dominazione austriaca con un parallelismo con la Polonia. Tra il 1772 e il 1795, l’Impero austro-ungarico, assieme alla Russia, il cosacco, aveva invaso la Polonia. Ma il sangue dei due popoli oppressi, l’italiano e il polacco, può trasformarsi in veleno attraverso la sollevazione contro l’oppressore straniero. Ed infine due curiosità, in origine, nella prima versione dell’inno, era presente un’ulteriore strofa interamente dedicata alle donne italiane: Tessete o fanciulle / bandiere e coccarde / fan l’alme gagliarde / l’invito d’amor. Venne eliminata dallo stesso Mameli. La seconda nella versione originaria dell’inno, il primo verso della prima strofa recitava «Evviva l’Italia», ma Michele Novaro lo modificò in “Fratelli d’Italia”

W l’Italia buona festa a tutti!

Favria, 2.06.20221  Giorgio Cortese

Dietro ogni articolo della Carta Costituzionale stanno centinaia di giovani morti nella Resistenza. W la Repubblica!

Hortus conclusus.

Ho trovato in un libro appena letto questa frase latina che mi ha incuriosito e pensate che questa espressione latina hortus conclusus deriva dal Cantico dei Cantici della Bibbia. Hortus conclusus soror mea…una lode alla moglie ritenuta agli occhi del marito un territorio sacro ed inviolabile. Da qui l’estensione in epoca medievale ad un vero e proprio spazio fisico da coltivare, luogo segreto ed invalicabile

Favria, 3.06.2021  Giorgio Cortese

Ciascuno di noi è la somma non soltanto delle scelte fatte, ma anche dei legami che ha saputo costruire e di quelli che ha deciso di sciogliere.

Arcant, fausset e fausson.

La falce una volta, prima dei decespugliatori era l’attrezzo regina nei lavori agricoli. La falce, semplice attrezzo agricolo con lama ricurva e manico di legno, usato per tagliare le piante erbacee. Considerare l’antichità di questo attrezzo dà le vertigini, fu inventato prima delle città, perfino prima dell’agricoltura ancora quando eravamo cacciatori nel neolitico. Nel gesto di chinarsi,  per afferrare una manata di spighe o erba per reciderli con una lama ricurva, è stato per noi esseri umani una trovata rivoluzionaria simile all’invenzione della ruota, un gesto avveduto per iniziare a diventare agricoltori e dare inizio alla nostra formidabile civiltà. Oggi, purtroppo, come scrivevo all’inizio è un  gesto quasi dimenticato, nessuno oggi usa la falce, né la piccola messoria con cui si tagliano le spighe stringendole nell’altra mano, né la grande fienaria, quella della morte, per intendersi, con cui si falciano steli che saranno raccolti in seguito. Ma non è un gesto dimenticato nella memoria delle parole. Personalmente uso ancora, seppur saltuariamente la falce e  allora adesso che l’attrezzo e riposto con gli altri attrezzi agricoli penso  rifletto su questa parola che deriva dal latino falx, falciare.  E oggi anche se si usa raramente la falce, il verbo  falciare è usato comunemente da tutti, e nessuno ha dubbi su come possa essere usato. È un verbo che, da subito l’idea, rimanda dal recidere le spighe alla base all’immagine figurata per indicare la morte, la distruzione, la sconfitta, specie rapida e in massa. Falciare è un gesto tanto violento quanto indifferente, se osservo degli anziani falciare le vedo incedere sul campo quasi danzando, e come si dice in piemontese con la messoira,  il falcetto, la falce per le messi dal latino falcem messoiram, messemm in latino deriva da mietere. Devo stare attento a non compiere degli strfalcioni, che oggi significa errore grossolano, specie linguistico, la parola deriva da strafalciare, verbo ormai poco usato. Ma lo strafalcione è invece sempre sulla cresta dell’onda e deriva dalla parola falce. Osservando in campagna dei contadini che falciano a mano, usano l’attrezzo stando in piedi, parlo della falce fienaria, la ranza o sessa. il passo del falciatore non è dei più fermi, lo vedo che procede forzando sempre l’equilibrio per compiere con la falce degli archi ampi e vigorosi, ed è quindi facile che il falciatore, in questo suo avanzare quasi un po’ ubriaco, metta un piede in fallo. Lo strafalcione sarebbe quindi dapprima il passo falso, e poi l’errore, da altre fonti pare che lo strafalcione che derivi dall’errore compiuto nel falciare, falciare male. Dalla falce deriva il falcione, una grossa falce fissata a un manico usata per trinciare il foraggio per il bestiame, divenuta anche nel Medioevo arma in asta, con lama di varie forme e con manico più o meno lungo a seconda delle epoche. A partire dal  XVII secolo il falcione, come altre armi inastate, perse valenza campale nel teatro bellico europeo ormai dominato dal modello  Pike and Shot, picca e archibugio dei tercios spagnoli, e assunse in seguito maggiori dimensioni e, coperta di pregevoli lavori di cesello, divenne arma di parata per le guardie dei sovrani.  In francese ed inglese, il falcione viene chiamato glaive, che in francese significa anche gladio, come quello dell’antico legionario romano. Mio suocero chiama la falce posta su una lunga asta arcant, usata per tagliare i rovi, la parola piemontese deriva dal  gallico cantos, lato angolo di taglio. Dalla falce deriva anche la roncola, in piemontese il fausset, attrezzo agricolo usato per tagliare i rami degli alberi da dove è derivato il roncone o ronco arma bianca tipica delle milizie urbane  italiane. Lo scopo del roncone in battaglia era sia quello di trafiggere, sia quello di agganciare e disarcionare i cavalieri.  Accanto al roncone comunemente definito si può individuare una versione “ibrida” che è sia un’arma che un attrezzo agricolo, il roncone da cernita. In conclusione qui  di seguito come viene chiamata la falce in diversi dialetti , sarrecchia nel Lazio, Campania;  scighezz, foglasa, Lombardia; runca, ficigghiuni, Sicilia; masoira come già detto in Piemonte, falciana, Toscana; runca, Calabria; mesora, Veneto; facetta, Marche. Una breve storia del più antico utensile inventato dalla razza umana, per dirla  con una frese di Alessandro Manzoni, è la falce che pareggia tutte le erbe del prato…

Favria, 4.06.2021  Giorgio Cortese

Se non cambiamo, non cresciamo. Se non cresciamo, non staimo davvero vivendo.

NaCIO!

Tranquilli non sono impazzito NaCIO è la formula chimica dell’ipoclorito di sodio, il sale di sodio dell’acido ipocloroso.  Ma forse il suo nome comune vi dice subito che cosa è: varechina. La varechina o candeggina, rappresenta sicuramente uno dei più potenti ed efficaci germicidi ad ampio spettro scoperti da moi umani, pensate ha la capacità di distruggere fino al 99,99 % dei germi, batteri,  se si rispettano le condizioni di utilizzo corrette, quali la concentrazione e il tempo di  contatto tra disinfettante e il materiale da trattare. La varechina, ha una sua storia, è la variante di varècchi,  ceneri di alghe marine, la parola come letto da un libro proviene, dal francese  varech, relitto, avanzo di naufragio, e l’origine del lemma è l’inglese antico di origine scandinava, wraec. Anticamente la varechina era ottenuta dalle cenere delle alghe marine raccolte sulla battigia. In quelle ceneri, mescolate all’acqua, un tempo veniva bollito il bucato. Non se ne conosceva il motivo, ma con questo procedimento i tessuti si pulivano. Oggi si sa che le ceneri dei vegetali sono ricche di ossidi di metalli alcalini: di sodio se si tratta di alghe marine, di potassio se le piante sono terrestri. Derivano dalla distruzione termica di sali organici che a contatto con l’anidride carbonica presente nell’aria si trasformano in carbonati, composti basici che in soluzione calda saponificano i grassi, cioè li staccano dai tessuti, e rendono l’acqua più capace di bagnare le superfici e quindi di lavare bene. Alla fine del ‘700 ci si accorse che, se le ceneri venivano fatte reagire con cloro gassoso, si ottenevano soluzioni sbiancanti. Le ceneri sciolte in acqua calda generano infatti la soda caustica, idrossido di sodio, talvolta denominato impropriamente idrato di sodio, una delle materie prime per la produzione di ipoclorito di sodio, sostanza alla base, appunto, della varechina. Pensate che l’ipoclorito di sodio viene da sempre utilizzato nella maggior parte degli acquedotti del Nord Europa e Nord America al fine di garantire la perfetta igienicità dell’acqua da bere. Un secondo utilizzo più noto a tutti consiste nella disinfezione delle acque da piscina, dove è conosciuto con il nome generico di cloro, ma risulta altrettanto largamente impiegato nell’industria alimentare e del trattamento delle acque di scarico e nella disinfezione in generale.

Favria,  5.06.2021   Giorgio Cortese

Ogni giorno cerco di non promettere ciò che non riesco a sostenere, mi impegno però di fare di una promessa un fatto compiuto.

Il buongustaio dell’antichità.

Se parliamo di un famoso buongustaio dell’antica Roma non possiamo che pensare a Marco Gavio Apicio, la principale fonte sulle usanze gastronomiche dell’antichità, in particolare della cucina romana. Egli non era solo un cuoco ma anche uno scrittore: è conosciuto come l’autore del De Re Coquinaria. Il nome di Apicio è da sempre legato alla gastronomia, a pietanze raffinate e ingredienti stravaganti, a banchetti opulenti e sontuosi. Però… esistono diversi Apici, poiché conosciamo tre differenti personaggi con questo nome. Un Apicio vissuto molti anni prima di Cristo, che inveisce contro la legge Fannia proposta da quel guastafeste di Rutilio Rufo per limitare l’eccessivo lusso nei banchetti. Poi un Marco Gavio, straordinariamente ricco, che vive sotto l’impero di Tiberio, tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., e viene soprannominato “Apicio” dal nome del famoso ghiottone del secolo precedente.  gastronomo, cuoco e amante della bella vita, vissuto tra il 25 a.C. e il 37 d.C., era personaggio molto noto all’epoca, Si racconta che nutrisse le murene con la carne degli schiavi. Molto ricco, passò alla storia per le sue stravaganze culinarie: manicaretti a base di talloni di cammello, intingoli di creste tagliate a volatili vivi, triglie fatte morire nel garum della migliore qualità, oche ingrassate nei fichi secchi e ingozzate con mulsum, lingue di usignoli, di pavoni e di fenicotteri. Il mulsum in italiano mulso era del vino mescolato con il miele, i Romani antichi facevano largo uso, specialmente nella prima colazione. Tornando ad Apicio, Seneca racconta che si tolse la vita col veleno, quando si accorse che il suo patrimonio si era ridotto a “soli” dieci milioni di sesterzi! A Marco Gavio Apicio è attribuita la raccolta di ricette che costituisce il nucleo preponderante del De Re Coquinaria. In questa sua opera, un vero monumento gastronomico del mondo latino sono raccolte ricette prelibate e indubbiamente curiose ai nostri occhi. Dagli intingoli di creste tagliate a volatili vivi alle triglie fatte morire nel garum, onnipresente condimento a base di interiora di pesce, ai saporosi ghiri allevati in particolari giare di terracotta.  Passiamo dai segreti dello chef, epimele, alle carni tritate, sarcoptes. Non mancano ricette sugli ortaggi, cepuros per arrivare ai legumi, ospreon. Non parliamo poi del mare, thalassa e del pescatore, alieus. Insomma una ricca raccolta di piatti prelibati, detti pandecter. Dai volatili, tropetes ai quadrupedi, tetrapus. Plinio il Vecchio narra che fu proprio Apicio a convincere Druso a non mangiare delle cymae, considerate dal gastronomo un cibo troppo umile. Allora le cime di rapa insieme al mosto cotto non potevano mancare sulla tavola dell’antica Roma. Il defruto, dal latino defrutum, era un condimento a base di mosto utilizzato dai cuochi come salsa nella preparazione di varie pietanze.  Il mosto cotto era impiegato in numerose ricette a base di verdure, oltre che come dolcificante. Mi domando se non avete mai assaggiato la lingua di fenicottero? E i talloni di cammello? Ecco, il De Re Coquinaria, l’arte culinaria, di Apicio potrebbe darci qualche utile e insolito spunto. Sono stranezze culinarie, che ricordano molto da vicino i piatti offerti da Trimalcione, il protagonista del Satyricon di Petronio, nella sua celebre cena. Ma allora queste ricette non dovevano apparire così originali ai contemporanei di Apicio, visto che ne hanno tramandato la formulazione nel tempo, dando vita, edizione dopo edizione, a quella che attualmente disponiamo. De Re Coquinaria è un libro scritto da cuochi per cuochi e il latino utilizzato, povero dal punto di vista letterario, è tuttavia adatto al linguaggio semplice ed essenziale di coloro che cucinavano all’epoca, ai quali bastava un semplice promemoria per riproporre preparazioni e ricette, anche senza l’elencazione precisa di tutti gli ingredienti, delle quantità e dei procedimenti. Per essere esatti troviamo poi un Apicio vissuto sotto Traiano, specializzato nella conservazione delle ostriche. In conclusione il volume è una preziosa testimonianza su come i nostri progenitori cucinavano e, soprattutto, su che cosa cucinavano. Mi congedo con la domada già prima fatta, alzi la mano chi ha mai assaggiato la lingua di fenicottero? E i talloni di cammello? Mah  de gustibus non est disputandum, sui gusti non si può discutere!

Favria, 6.06.2021 Giorgio Cortese

Oggi vi invito a sorridere, offro io!

Acqua alle corde!

Questa curiosa espressione “Acqua alle corde” nasce nel  1586, quando per ordine del Papa Sisto V, l’architetto Domenico Fontana doveva innalzare sull’apposito piedistallo l’obelisco che oggi si ammira al centro della piazza s.Pietro, a Roma. Era un’operazione che richiedeva la massima concentrazione e il massimo silenzio, quindi, per evitare confusione, il Papa aveva fatto emanare un editto che vietava a chiunque non addetto ai lavori di entrare nel recinto o semplicemente di parlare. Bastava il parapiglia dei 140 cavalli e degli 800 uomini impiegati nei lavori. I trasgressori agli ordini del Papa sarebbero stati impiccati seduta stante, e, per l’occasione, all’interno del recinto il bargello e i suoi sbirri avevano eretto il patibolo.  Il bargello o barigello deriva dal latino medievale barigildus, lemma di origine longobarda, nei Goti si chiamava bargi e nel tedeschi burg con il significato di torre fortificata o castello ma che poi assunse in italiano il termine di capo militare della piazza, figura che appare nell’opera teatrale “Misura per misura” di William Shakespeare: “Dov’è il bargello?” o ne  “I Promessi Sposi” di  Alessandro Manzoni: “Ma no signore; in compagnia ci vieni; e in compagnia d’un bargello, per far meglio!” fino a Sciascia nel Giorno della civetta: “vuol dire bargello: il capo degli sbirri£, e appunto  questo è il significato.  Tornando ale operazioni di innalzamento dell’obelisco secondo la tradizione, un certo Bresca di San Remo, capitano di un bastimento genovese, si accorse a un certo punto che le corde che reggevano il monolito tendevano ad allungarsi a causa dell’eccessivo peso, e quindi avrebbero finito col rompersi, provocando la distruzione dell’obelisco. Quindi, incurante dell’editto del Papa, mettendo a rischio la sua vita, si mise a gridare la frase: “acqua alle corde!” Per l’esattezza in lingua ligure:” Aiga, dai de l’aiga ae corde!”. Da buon marinaio, sapeva che la canapa, bagnata, si restringe e si accorcia. L’architetto, per fortuna, dette immediatamente l’ordine di bagnare le corde, e cosi’ l’operazione fu felicemente portata a termine. Inutile dire che invece di essere impiccatoBrasca ricevette, insieme agli elogi papali, anche consistenti privilegi, tra cui una lauta pensione mensile e il titolo di capitano del primo reggimento di linea pontificio, con l’autorizzazione a portare la divisa e innalzare la bandiera pontificia sul suo bastimento.

Favria, 7.06.2021  Giorgio Cortese

Molte volte vale di più l’astuzia che l’ottusa forza!