Stagnè, Stagn! – Mosca, moschettone, moschetto, mosco, mosca e moschea.- Il dolore della guerra, l’Iliade!-Contro l’inciviltà il valore di saluto.- Viòjra per fer ciair!- Trolio e Cressida… LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Stagnè, Stagn!
In piemontese la parola stagnè o stagn indicano i piatti di peltro, composti di stagno  a

tenuta stagna. Questo processo avviene mediante lo stagninè, lo  stagnatore, lo stagnaio. Con il processo di stagninu con lìarstagninè, riscaldare lo stagno per procedere su oggetti destagninà, che hanno perso la stagnatura. La parola stagn, stagno in italiano deriva dal gallico stagnum che ha dato origine a due parole omografe, parole che hanno la stessa grafia ma origine, significato e a volte pronuncia differenti. La lega di metallo, argento e piombo detta stagno che ha poi dato origine alla denominazione di acqua morta, in piemontese stagn. Lo stagno è stato uno dei primi metalli ad essere scoperto, e fin dall’antichità venne intensivamente usato per il suo effetto come legante del rame, di cui aumenta di molto la durezza e le doti meccaniche formando la lega nota come bronzo. L’attività di estrazione mineraria dello stagno iniziò presumibilmente in Cornovaglia in età classica: grazie ad esso queste regioni svilupparono un fitto commercio con le aree civilizzate del Mar Mediterraneo attraverso il commercio dei Fenice. Viene citato questo minerale dai Sumeri, nella Bibbia. Gli  Israeliti e Caldei lo chiamarono anak, gl’Indiani naja, gli Etiopi naak: ciò fa supporre che il centro di produzione fosse unico. Ma il più diffuso consumo dello stagno risale ai Cinesi: fra il 1800 e il 1500 a. C. fioriva in Cina l’industria del bronzo e con esso i Cinesi foggiavano i più svariati oggetti e sembra conoscessero la stagnatura. Lo Stagno viene citato anche da Omero e poi da Erodoto. In Italia ebbero importanza nell’antichità i giacimenti di Campiglia Marittima, sfruttati dagli Etruschi, e probabilmente dai fonditori della preistoria. Data la grande diffusione avuta per mezzo dei Romani, lo stagno era conosciutissimo dagli alchimisti che cercavo di trasformarlo in oro. Un notevole impulso ebbe il consumo dello stagno dall’applicazione dei suoi sali alla tintoria (sec. XVII); ma più ancora dalla fabbricazione della latta che sembra sia sorta in Germania verso la fine del sec. XV e sia stata introdotta in Inghilterra verso il 1670 e in Francia nel 1769. Le attività estrattive ebbero un’impennata verso la metà del XIX dopo la scoperta delle proprietà del metallo nella conservazione dei cibi e la sua conseguente diffusione. Una curiosità fino agli inizi del XX secolo venivano utilizzati veri e propri fogli di stagno, da cui il nome improprio di “carta”, per la sua sottigliezza, “stagnola”, dal materiale, poi soppiantati da sottilissimi fogli di alluminio laminato. Pensando allo stagno come raccolta di acqua dolce, poco profonda, di piccola estensione e di durata talora limitata, penso che oggi nonostante la pandemia che ci chiede conto delle nostre azioni rischiamo di annegare nello stagno della quotidiana noia e molti per puro guadagno continua a pescare in un stagno agendo con azioni tortuose e poco corrette, lanciando in maniera poco pulita un sasso nello stagno solo per creare scompiglio. Certi giorni la mia anima mi pare in fondo ad uno stagno crogiolandomi nella apparente calma di una situazione stagnante ed invece devo ogni giorno devo uscire da queste acque tranquille e pilotare la mia vita in alto mare, perchè non voglio stare come un pupazzo al timone, ma essere vivo ed affrontare i venti, solo cosi i mi sentimenti saranno felici e contenti. I miei pensieri sono pietruzze che getto nell’animo di chi vuole leggermi ed il diametro delle onde concentriche che esse formano dipende dalle dimensioni del mio navigare. Adesso come adesso, prendo spunto di una considerazione in piemontese da una saggia persona, per dire che se continua cosi fra agn per mi l’è l’or val me le stagn, basta la salute e mi sforzo ogni giorno di considerare transitorie tutte le circostanze avverse e perturbatrici: come le increspature in uno stagno, esse sorgono e presto scompaiono.
Buona vita a tutti

Favria, 13.10.2021 Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita quotidiana la mia immagine non è il mio personaggio. Il carattere è ciò che sono veramente come persona. Felice mercoledì.

Viva la vita se doni la vita. Ti aspettiamo a Favria VENERDI’ 5 NOVEMBRE   2021, cortile interno del Comune dalle ore 8 alle ore 11,20. Abbiamo bisogno anche di Te. Dona il sangue, dona la vita! Attenzione a seguito del DPCM del 8 marzo 2020, per evitare assembramenti è necessario sempre prenotare la vostra donazione. Portare sempre dietro documento identità. a Grazie per la vostra collaborazione. Cell.  3331714827- grazie se fate passa parole e divulgate il messaggio

Mosca, moschettone, moschetto, mosco, mosca e moschea.
Oggi mi permetto di divagare su queste parole che sembrano avere un’origine comune, ma non è così! Parto dalla mosca, quel piccolo e petulante insetto dal corpo scuro, con proboscide protrattile e un paio di ali trasparenti. E’ talmente noiosa, petulante, insopportabile che cosi definiamo certe persone vengono definite noiose come una mosca,  e  pesi mosca nel pugilato  le categorie di pesi leggeri . La  mosca, non è inutile ma svolge un ruolo fondamentale nei processi di decomposizione del materiale organico ma, proprio perché si posa sulle deiezioni può essere vettore di batteri come la  salmonellosi, pur rimanendo non particolarmente pericolosa per l’uomo. Una volta il neo finto che le donne si applicavano al viso o sulle spalle, ma anche il  chicco di caffè tostato che si aggiunge ad alcuni liquori: sambuca con la mosca. La parola mosca deriva dal latino musca.  Dalla parola mosca arriviamo al lemma moschettone. La parola moschettone deriva da moschetto, perché in origine indicava nello specifico il gancio che reggeva il moschetto. Questo speciale gancio metallico è  di varia forma e dimensione, provvisto di un elemento a molla mediante cui si assicura la chiusura del gancio stesso, il quale assume, chiuso, le caratteristiche di un anello; utilizzato in genere per appendere o tenere sospesi oggetti. Pensate che fra i tipi più piccoli, quello che serve a fissare l’orologio da tasca alla catena e l’estremità di questa all’occhiello della giacca, quello in cui s’inserisce l’anellino delle catenine da collo per assicurarne la chiusura, quelli di cui sono muniti i portachiavi e quelli per pendagli. Il moschettone oggi trova un uso particolare in alpinismo, dove è indispensabile quando si impiegano chiodi da roccia o da ghiaccio. Come detto il moschettone deriva dal moschetto, arma da fuoco ad avancarica derivata dall’archibugio. Il nome trae origine dalla mosca, che è una piccola porzione di peli sul viso che crescono negli uomini tra la parte inferiore del labbro e e la parte superiore del mento. Da ragazzo mi ricordo che era molto popolare, specialmente negli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso, il pizzetto.  L’origine di tale moda di taglio di barba risale al Medioevo, la vediamo utilizzata da Shakespeare e poi personaggi come Luigi XIII e Richelieu . ed il moschetto appunto si appoggiava l’arma alla spalla, dal moschetto derivano i moderni fucili dalle carabine al mitragliatore o mitra.  Per essere precisi sul moschetto, in origine questa parola indicava la freccia per balestre e poi al moschetto come detto che all’inizio era molto pesante e richiedeva l’appoggio su una forcella piantata nel terreno, e per questo era affidata a soldati di eccezionale prestanza fisica, i moschettieri, che nel combattimento venivano distribuiti nei reparti di fanteria comune, armata di picche. Dalla mosca insetto arriviamo al mosco mammifero ruminante asiatico simile al cervo ma senza corna. Nel maschio, una ghiandola ventrale secerne una sostanza odorosa chiamata muschio, da qui il nome da latino scientifico moschus a sua volta dal greco mòschos, animale giovane e poi muschio. Da mosca, moschettone, moschetto arrivo alla città di Mosca, capitale delle Russia. La zona apparteneva al boiardo Kuchka. Ma lo spietato principe Jurij Dolgorukij si innamorò di sua moglie, lo giustiziò e ne confiscò le terre, su cui sorse una piccola fortezza palizzata nel 1147. Pensate che il nome del nobile Kuchka rimase legato a Mosca per molto tempo. Fino al XV secolo c’era un distretto nel centro di Mosca chiamato Kuchkovo Pole, campo di Kuchka. Alcuni ricercatori fanno derivare il nome di Mosca proprio dalle lingue ugro-finniche. C’è un generale consenso che la città sia stata chiamata così per il fiume Moscova. Ma da dove viene il nome del corso d’acqua? Secondo lo storico Stefan Kuznetsov, le radici della parola Moscova sono i termini ugro-finnici Maska, orso, e Ava, argine. Il luogo sarebbe stato popolato da molti esemplari e l’orsa femmina potrebbe essere stata una specie di animale totem per le tribù che vivevano qui. Secondo alcuni storici si ritiene che Mosca significhi “bagnato o “paludoso”, e il nome si riferirebbe alle condizioni naturali del luogo. Nella Russia medievale il nome fu anche spesso collegato a Mèsec, uno dei leggendari figli di Noè, per cercare di inserire la Russia nella storia mondiale e nella tradizione biblica. Ed ecco arriviamo ad un nome che sembra simile ma non ha nessun nesson con i precedenti moschea che secondo alcuni deriva dal francese mosquée, inteso come profumata, alterazione, secondo mosc, muschio. Ma l’opinione degli storici è che derivi dello spagnolo mezquita,  meschita a sua volta dall’arabo masgid, luogo di adorazione. Edificio del culto musulmano che, secondo la tradizione, deriverebbe la sua prima forma architettonica dalla casa di Medina in cui Maometto era solito riunire i primi proseliti per discutere questioni liturgiche e religiose. Concludo questa  divagazione ritornando alla parola mosca con i suoi modi di dire in italiano usati nella pesca con l’amo, qualunque esca artificiale che imiti insetti senza far di una mosca un elefante, nel senso di esagerare e ingigantire l’argomento. Ne voglio qui pigliar mosche, perdere tempo o andare come mosche al miele, indurvi a precipitarvi con entusiasmo verso questo argomento come le mosche ne voglio farvi saltare  la mosca al naso, provocandovi irritazione, come può fare una mosca che insiste a posarsi ripetutamente sul naso di qualcuno. Forse sono  una mosca senza capo, con uno scritto sconclusionato, senza avere una direzione, un obiettivo, uno scopo come la mosca che vola adesso nella stanza. Ho scritto questo perché l’alternativa era quella di guardare le mosche che volano, e personalmente non amo oziare, e spero che leggerete il tutto senza non sentire volare una mosca, senza il minimo rumore. Concludo con una  favola di Fedro quando una Mosca posatasi sul timone di un carro redarguiva la mula che lo trainava minacciandola di trafiggerle il collo se non avesse aumentato l’andatura. Ma la mula le rispose che poteva risparmiarsi quelle minacce, poiché l’unica cosa che poteva intimorirla realmente era la frusta del cocchiere.

Buona vita a tutti.

Favria, 14.10.2021  Giorgio Cortese

Buona giornata. Mi capita quando osservo un vero amico di guardare me stesso allo specchio. Felice giovedì.

Il dolore della guerra, l’Iliade!

Tutti a scuola ci siamo ritrovati a leggere dei brani scelti dell’Iliade e abbiamo imparato a conoscere, chi più chi meno, il poema epico di Omero: l’opera simbolo della Grecia antica, scritta attorno al 730 a.C. oggi rileggendola dopo tanti anni ho scoperto con stupore qualcosa che avevo  sottovalutato in passato. Il racconto di Omero rende immortale la guerra tra i due eserciti, troiano e greco, gli invasori achei, che si contendono la bella Elena, moglie di Menelao, fuggita con Paride, erede della dinastia che regna a Troia. La guerra,  che dura ormai da dieci anni, in un continuo e logorante assedio, che porterà poi alla definitiva sconfitta di Troia,  prende a pretesto la vicenda dei due amanti, ma in realtà è una lotta di potere ed espansione, della coalizione greca guidata da Agamennone, re di Micene, contro la città da espugnare. Spesso le scene di battaglia, i racconti degli scontri cruenti sono stati esaltati e a chi non conosce a fondo il poema può apparire come una glorificazione della guerra. In realtà le parole che Omero usa per descrivere lo scenario bellico sono “dolorosa, raccapricciante, miserabile”: il suo intento, pur nell’esaltare il coraggio e le virtù degli eroi di entrambi gli schieramenti, è quello di promuovere una riflessione sul destino tragico che accomuna tutti, vinti e vincitori. La distruzione, la violenza, le uccisioni sono quanto di più ripugnante l’uomo possa macchiarsi, e nemmeno la vittoria può portare consolazione per i lutti e le tante vite sacrificate per un’assurda ricerca di supremazia. Alcune figure sono veramente grandiose, come Achille l’eroe coraggioso e orgoglioso, il suo duro discorso è volto contro la guerra e il suo stesso comandante Agamennone, accusato di avidità. Omero ci dice che tutti i guerrieri achei la pensano come Achille e molti di loro vorrebbero fuggire dal campo di battaglia. Sull’altro fronte, lo stesso Paride, che fino a quel momento appariva come una figura opaca, arriva al punto di proporre una soluzione che ponga fine alla decennale guerra proponendo una sfida a singolar tenzone Menelao e la vittoria sul campo di duello sancirà la fine del conflitto. La sua proposta è accolta con grande entusiasmo dagli eserciti di entrambi le parti, sfiniti e decimati dalla guerra e dalle condizioni di vita ad essa legate, così come dalle popolazioni, in particolare dalle donne che, come in ogni tempo, sanno di essere considerate bottino di guerra. Bella è la figura di Ettore che si rende conto di andare verso la morte e l’affronta con grande dignità, nonostante il doloroso confronto con la moglie. Omero dà corpo a questi sentimenti con grande partecipazione, rendendo evidente quanto la guerra sia odiata da tutti e come ognuno aneli alla sua fine, al ritorno alla pace. Sono pagine di alta drammaticità, da cui emerge la certezza che la guerra sia la disgrazia suprema. Mi azzardo a dire che forse in un’epoca come la nostra, nella nostra tecnologia che sembra pacificare tutto,  gli scenari di guerra che insanguinano molti territori, che producono morti e distruzione, che spingono milioni persone a fuggire in cerca di una speranza di vita in pace, non sono poi diversi dalla guerra di cui Omero con tanta partecipazione racconta. In questo senso, trovo il valore di continuare a leggere i classici, di ascoltare i messaggi che da un tempo assai remoto ma in modo del tutto attuale, dovrebbero spingerci a riflettere perché nonostante tutti i progressi scientifici e culturali, il nostro mondo, ancora oggi, è retto dalle logiche di potere e di sopraffazione. L’Iliade insomma è un poema straordinario che merita di essere studiato e approfondito, leggendolo ho avuto la sensazione che non sia passato molto tempo da quando sono stati scritti. la lingua si è modificata ma i fatti narrati sono molto simili a quanto è sotto i nostri occhi. E si la natura dell’uomo è sempre la stessa, per questo leggere i classici ci aiuta a comprendere la realtà presente.

Favria, 15.10.2021 Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno i perché li lascio ai sapientoni tuttologi, a loro che credono  la vita non abbia un senso. Felice venerdì

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Contro l’inciviltà il valore di saluto.

Passeggio per Favria e noto per terra delle mascherine usate da persone incivili che poi protestano per il buco dell’ozono o per l’estinzione ad esempio della tartaruga di mare carretta, la più diffusa nel Mediterraneo, abile nuotatrice che può superare la velocità di 35 km/h e che si  nutre di meduse, crostacei, molluschi, pesci, alghe e spugne e che purtroppo spesso ingerisce anche dei rifiuti, scambiati per cibo: ad esempio sacchetti e altri oggetti in plastica come le mascherine contro il covid, che rischiano di soffocarla. Se lungo una strada vediamo dei rifiuti interra come le mascherine e mozziconi di sigaretta la colpa è di questa inciviltà dilagante dove molti vivono senza il rispetto verso il prossimo e di conseguenza dell’ambiente che li circonda e dispero che le multe le redimano se non scatta in loro l’idea che cosi facendo si fanno male da soli. Meno male che si incontrano delle persone anche giovani che salutano anche se non ti conoscono o che ricambiano il mio gesto con uno squillante buongiorno e non si allontano frettolosamente quasi con paura di comunica con il proprio simile. Dico questo perché ho notato, come già detto prima alcune mascherine usate buttate per terra e questo mi faceva pensare all’inciviltà delle persone ma poi girato l’angolo una ragazza che non conosco mi ha salutato anche agitando la mano. Cribbio mi sono detto, ma allora è vero che i giovani sono la nostra risorsa più importante il nostro futuro e nonostante i danni che noi adulti abbiamo combinato, saranno la risorsa per cambiare questo trend negativo della febbre del pianeta Blu, da noi chiamato terra. Camminando per la strada sempre sul saluto riflettevo che un ciao, buongiorno, buonasera o il laconico salve hanno un grandissimo valore. Il saluto indica un legame, offre serenità, mostra amicizia, dà conforto e fraternità.  Il saluto oggi lo trovo più frequente nei sentieri di montagna, qui ci si saluta con passione, ma nelle nostre realtà molti sono renitenti a farlo e se proprio devono un laconico Salve! Oramai ci siamo abituati a vivere da estranei, a fare la coda per entrare in un negozio o ufficio, al mercato, sui mezzi pubblici. Mi viene da pensare che quando camminiamo nelle nostre  Comunità,  stiamo gli uni accanto agli altri da forestieri. Anche io non sono esente dall’andazzo, a volte faccio fatica a ricordare i nomi e talora sono così sopra pensiero da dimenticare un buongiorno a chi incontro. Chiedo scusa. Concludo con quanto ho visto nel ritorno dalla passeggiata, dove avevo visto le mascherine buttate per terra, incontro due giovani che conosco di vista che con i guanti raccoglievano le mascherine in un sacco nero. Mi hanno visto che li osservano e mi hanno detto candidamente che per salvare ilo mondo si può iniziare da piccoli gesti. Grazie giovani siete la nostra risorsa.

Favria, 16.10.2021  Giorgio Cortese

Buona giornata. Il coraggio non è avere la forza di andare avanti, è andare avanti quando non hai più forze. Felice sabato

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Viòjra per fer ciair!

La viòjra per fer ciair in piemontese è la lampada da notte, che una volta veniva lasciata accesa nelle àcamnere dove dormivano i bambini, cos’ mi ha raccontato mio suocero. La parola deriva dal lemma piemontese vijor, colui che veglia. La parola piemontese  arriva  attraverso il provenzale antico velhar, e parallelamente attraverso il volgare vegghiare. L’origine del lemma arriva dalla  parola latina vigiliam, veglia a sua volta da vigilem, sveglio, attento e vigile, ma anche sorvegliare. Certo non si può escludere che arrivi il lemma piemontese  attraverso la parola francese  veille. Dalla parola vijòjrà, colei che veglia durante la notte deriva la parola arviyè, destarsi e prendere vigore. Curioso che in latino ci sia verbo vigeo/ vigère che significano essenzialmente: aver vigore, essere pieno di vita. Poi, anche, continuare ad aver vigore, continuare ad essere forte, continuare a vivere.  Per concludere questo intreccio tra latino, piemontese e italiano abbiamo poi la parola vigilia, che come termine  tecnico era passato ad indicare la guardia notturna, e, anche, la persona che la faceva la sentinella, nonché il turno stesso, e la durata in termini di ore del turno di guardia: prima vigilia; seconda vigilia.. Il vocabolo vigilia  è rimasto identico anche nella lingua italiana; ma con la differenza che, a causa dell’uso che se ne faceva durante le feste importanti, per indicare la veglia dalla sera del giorno  precedente fino all’alba della festa è andato ad indicare: “giorno precedente una solennità”.  Come, ad esempio, vigilia di Natale e poi attraverso il verbo ex-vigilare, si passò al verbo provenzale ex-velhar. E da qui il nostro svegliare dopo aver vegliato per la lunga notte che impalpabile e silente alla sera si è adagiata tra i solchi dell’animo e dli spigoli della memoria,  sui miei occhi spenti dal sonno. Notte che alla fine passa e muore al  primo scintillio del sole, che all’improvviso trafigge e dissolve i pensieri più cupi e mi dona un nuovo giorno pieno di opportunità.

Favria, 17.10.2021  Giorgio Cortese

Viva la vita se doni la vita. Ti aspettiamo a Favria VENERDI’ 5 NOVEMBRE   2021, cortile interno del Comune dalle ore 8 alle ore 11,20. Abbiamo bisogno anche di Te. Dona il sangue, dona la vita! Attenzione a seguito del DPCM del 8 marzo 2020, per evitare assembramenti è necessario sempre prenotare la vostra donazione. Portare sempre dietro documento identità. a Grazie per la vostra collaborazione. Cell.  3331714827- grazie se fate passa parole e divulgate il messaggio

Buona giornata. Non è nelle stelle che è conservato il nostro destino, ma in noi stessi, il modo migliore per predire il tuo futuro è crearlo. Felice domenica

Trolio e Cressida.

E’ tra le opere meno rappresentate di Shakespeare, eppure è tra quelle più moderne, perché si parla di guerra e d’amore. La storia di Troilo e Cressida è un racconto di origine medievale e non è presente nella mitologia greca. Shakespeare tracciò la trama attingendo da varie fonti, in particolare dalla versione che del racconto fece Chaucer e il Bardo potrebbe anche essersi ispirato ad alcune opere di autori a lui contemporanei. Con amarezza e disincanto sullo sfondo di un tetro orizzonte di distruzione.  Il dramma di Shakespeare è geniale e spietato. Scritto nel 1601, subito dopo Amleto, si addentra dentro un conflitto aspro e infinito, la guerra di Troia, in cui gli eroi del mito si svelano come fragili protagonisti di storie umanissime. Durante l’assedio assistiamo alla storia d’amore dei troiani Troilo e Cressida, quest’ultima figlia di Calcante, l’indovino che però, prevedendo la sconfitta, è passato dalla parte degli Achei, Greci, con la laida mediazione di Pandaro. Ettore sfida i greci a un combattimento e i principi greci decidono di mandare Aiace per provocare l’invidia e la rabbia di Achille. Del resto Ettore e Cassandra insistono per riconsegnare Elena ai greci per far finire la guerra, ma Paride e Troilo rifiutano, e la guerra dovrà proseguire. A un certo momento le storie di guerra e d’amore si intrecciano pericolosamente. Calcante, infatti, ottiene da Agamennone uno scambio: i greci restituiranno un prigioniero ai troiani che in cambio consegneranno Cressida al padre. Gli innamorati sono così costretti a piegarsi alla ragion di stato e alle strategie belliche, giurandosi amore eterno. E mentre il duello tra Aiace e Ettore viene sospeso perché si scopre che sono lontanamente parenti, Troilo scopre a sua volta che Cressida ha dimenticato il giuramento e flirta con Diomede. La battaglia ormai infuria: Ettore uccide Patroclo, l’amico di Achille, che a sua volta uccide Ettore. E come finisce? Già, come finisce una guerra? Come può finire una guerra? Gelidamente, e davvero modernamente, Shakespeare lascia un finale aperto sul caos di una guerra in corso, di un amore disilluso, di mezzani e traditori che strisciano nell’ombra: un finale aperto su una Storia che ci ha mostrato come nessuna guerra possa davvero finire.

Favria, 18.10.2021 Giorgio Cortese

Buona giornata. Fugge frattanto il tempo irrecuperabile. Felice lunedì