Contare nell’antichità – Il falco Arturo – FidasADSP Favria TO Festa sociale -La tassa per le biciclette. – Rubrica. – Il senso del cammino. – Le api e i calabroni – Insieme. – Il lamassù apotropaico…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Contare nell’antichità.

Nell’antichità solitamente i calcoli venivano fatti con bastoncini, pietruzze, aste con tacche, cordicelle

con nodi. Il primo computer usato dagli esseri umani sono state le mani. Grazie alle mani gli egiziani riuscirono a rappresentare tutti i numeri sino a 9999 ed erano in grado di eseguire addizioni, sottrazioni, moltiplicazioni e anche calcoli più complessi. Il termine inglese digit, cifra, oggi tanto usato, deriva proprio dalla parola latina digitus, dito. I Sumeri, che vivevano in Babilonia, furono i primi a creare un modo di scrivere i numeri in cui il valore della cifra era determinato anche dalla sua posizione. Ancora oggi questo metodo viene usato negli orologi, per contare il tempo. Tuttavia, mentre il nostro sistema di calcolo e misurazione è a base 10, per i Sumeri era a base 60, di qui peraltro la nostra divisione delle ore in 60 minuti e dei minuti in 60 secondi e gli angoli a 30, 60 e 90 gradi. Gli Aztechi, che dividevano il giorno in 20 ore e i loro soldati in reparti di 8.000, uguale a 20x20x20, soldati ciascuno, probabilmente contavano sulle dita delle mani e su quelle dei piedi, come gli Indiani Maya. Si tratta di popolazioni che vivevano nell’America Centrale prima della scoperta di questo continente con un sistema di numerazione a base 20. Gli antichi romani secondo scritto Beda il Venerabile, 672-735 Dc che scrive di romana computatio, riferirendosi al calcolo sulle dita delle due mani, avevano sviluppato un vero e proprio codice. L’uno si indicava tenendo il palmo della mano con le dita distese e il mignolo ripiegato. Per segnare il due si piegava anche l’anulare e, aggiungendo il medio abbassato, si indicava il tre. La logica vorrebbe che il quattro, in questo codice, corrispondesse alle quattro dita abbassate fino all’indice, invece si segnalava con il mignolo e l’indice sollevati, praticamente il gesto delle corna. Anche il nove assomigliava a uno dei nostri segnali, quello della pistola con pollice e medio, come il dieci era l’equivalente del nostro ok. I romani utilizzavano la mano sinistra per indi9care i numeri sotto il cento e la destra per le migliaia così, combinando le due mani potevano arrivare a contare fino a diecimila. Oltre il diecimila venivano coinvolte altre parti del corpo. Toccando il cuore ad esempio si alludeva a 300mila, toccando la pancia a 500 mila, l’anca a 600mila e così via fino al milione, ottenuto usando due dita sopra la testa. Mi sarebbe piaciuto assistere alle contrattazioni ad un mercato romano nell’ora di punta che forse assomigliava ai segnali che oggi si scambiano gli agenti di borsa nella agitazione delle negoziazioni. Gli scavi archeologici hanno portato alla luce molti gettoni romani di osso o avorio che portano una doppia rappresentazione dei numeri: su una faccia la rappresentazione tramite le mani e sull’altra il numerale romano. Un’altra tecnica, tutt’oggi diffusa in India e nella Cina meridionale, consisteva nel contare per mezzo delle 14 falangi o delle 15 giunture delle dita di ciascuna mano  Il “grassello” del pollice contava come giuntura.  Di certo noi sappiamo che i romani eseguivano i loro calcoli con l’abaco.  In latino i “calculi” stavano appunto a significare i “sassolini” che si ponevano in una tavoletta con apposite scanalature. In Occidente è stato importato verso il Mille ed è rimasto in uso fino al XVI sec, benché già nel 1215, in una gara di calcolo voluta dall’imperatore Federico II di Svevia, si era appurato che il calcolo coi numeri indo-arabi era più veloce di quello con l’abaco. Lo “zero” non ebbe mai una rappresentazione grafica o simbolica. Gli antichi Fenici, gli Ebrei e poi i Greci, gli Etruschi e i Romani usavano come strumento di computazione una tavoletta rettangolare di legno o una lamina di bronzo, chiamata abak dai Fenici, avak dagli Ebrei, abac dai Greci, apcar dagli Etruschi, abacus dai Romani. Il significato comune a tutti i termini è quello dell’antica parola fenicia abak, polvere, dalla quale derivano. Infatti, sulla tavoletta aderiva, per mezzo di un collante, della polvere di colore verde, pulvis hyalinus, in modo che su di essa si potessero tracciare con una bacchetta, radius, simboli numerici e figure geometriche, utilizzandola così come noi oggi usiamo la lavagna.Favria, 24.05.2022   Giorgio Cortese

Gruppo donatori di Sangue FidasADSP   Favria   TO Festa sociale

Cara/o  donatrice/donatore con la presente Ti avvisiamo della festa sociale che avverrà

domenica 19 giugno con il seguente programma:

ore 9,30 ritrovo in sede cortile interno del Comune.

Ore 10 avvio corteo e sfilata.

Ore 11 S.Messa , ore 12 premiazione donatori benemeriti.

Ore 12,30 pranzo sociale  presso Agriturismo La PRATERIA DI Rosanna e Giovanni. Via Conti  S. Martino fraz. San Giovanni- Castellamonte.

L’accompagnatore e l’alfiere dei gruppi invitati saranno graditi ospiti.

Hanno diritto al pranzo gratuito tutte le medaglie oro, Re Rebaudengo e tutti i premiati. 

Costo pranzo euro per tutti gli altri euro 30,00

per  i bambini  0 -2 anni non pagano; 3/5 anni  euro 6,00. Per i bambini 5/7 anni Euro 10,00. Per bambini tra 7 e 10 anni Euro 15,00.

Prenotate con urgenza ai seguenti recapiti:

Macri Nicodemo cell 3498889303 – Manca Simona cell  3392230882 –

Varrese Vincenzo cell 3469651812 – Cortese Giorgio 3331714827

Entro il  1 giugno sino ad esaurimento posti disponibili come da norme anti covid.

DIPLOMI.

Amato Daniela – Bernardi Ghisla Elisa –  Bettas Begalin Lara – Bollero Alessio – Caboni Salvatore – Caresio Denis Simone  – Chiatello Elisa – Conta Silvio – Cresta Lucia – De Nardo Francesca – Dell’Agnese Giada – Dematteis Matilde – Dorma Emanuele – Faletti Enrico Giuseppe – Ferrari Federico – Garavoglia Daniele – Giannone Mery – Guglielmetti Manuela – Lifone  PierLuca  – Mancuso Graziella – Marchetto  Francesca  Masili Manuela – Messina Simone – Mihai Rodis – Milano Gianluca – Miletta Maurizio Rosario  Naretto Nicoletta – Nicita Erika – Osella Andrea Giovanni – Pallante Barbara – Perona Daniela – Quondamatteo Marco – Rositi Giovanni – Salato Giacomo – Salfa Massimo – Sesto Tiziana – Tarizzo Matteo – Tocci Gabriele – Trachi Bouzekri – Vironda Emanuela – Vittone Fabrizio Lodovico – Zucca  Bernardo Gerri

MEDAGLIA DI BRONZO

Bellone Cappuccio Giuseppe – Bollero Francesco – Ciullo Antonello – Curcio Ilaria – Eggert Hans Erich – Feira Loris – Foresta Antonio – Gini Niki – Miele Franco – Migliore Rosario – Milano Andrea Giovanni – Rossetto Fabrizio – Sesto Loredana – Sisto Riccardo – Tarello Federica – Tarizzo Renza – Tocci Marco – Trinchero  Marita – Zaccaro Morena

MEDAGLIA D’ARGENTO

Arrò Domenica Manuela  – Bertone Antonella -Bezgina Anastasiya – Brillante Angelo – Bruatto Massimo – Campaniolo Giuseppe Gaspare – Castello Alex Angelo – Colacino Tommaso – Confalonieri Roberto – Di Chio Leonardo –  Di Liberto Pietro – Ferrara Alessandro –  Forneris Paolo – Furin Fabio – Galeano Gonzalo Hernan – Gallo Lassere Moreno – Gentile Laura –  La Marmora Franco – Leone GianFranco – Mancuso Roberto –  Mazzetto Andrea – Motto  Giorgio – Musto Michele – Notari Aurora – Rositi Nicoletta – Sesto Marco – Soria Roberta – Spaducci Antonello – Trevisan Luca

PRIMA MEDAGLIA D’ORO (50 donazioni)

Cantafio Antonio,  Capozzielli GianLuca, Eggert Friedrich, Greco Titina. Morra Pietro,  Profeta Giuseppe Elia, Rozzarin  Valter, Sacco Giuseppe, Santinato Maurizio, Santoro Antoine, Tamburro Andrea 

SECONDA MEDAGLIA D’ORO (75 donazioni) Caboni  Bartolomeo, Costa  Roberto, Dematteis Paolo,  Fratto Salvatore, Gavardoni Antonio,Lonigro Matteo, Querio Dario Giovanni, Simonetta Lorenzo, Spezzano Antonio, Vitton Gomma Roberto

TERZA MEDAGLIA D’ORO (100 donazioni) Bacolla Giovanni,  D’Angelo Claudio.

QUARTA MEDAGLIA D’ORO (125 donazioni)  Cortese Giorgio Domenico

QUINTA MEDAGLIA D’ORO (150 donazioni)  Giolitto Deina Giovanni 

Grazie a tutti i donatori del bene che fate. Grazie

Buona giornata. Ogni giorno la gentilezza è la lingua che i sordi posso sentire e i ciechi vedere. Felice martedì.

Il falco Arturo.

Tutti da bambini abbiamo sognato di avere oltre al cane o un gatto un magnifico pennuto come un rapace. L’amico Mario mi ha parlato del suo un falco pellegrino di nome Arturo.

Facciamo un passo indietro tantissimo tempo fa, dobbiamo andare indietro di circa mezzo secolo.

Mario aveva trovato un pulcino di falco pellegrino che era rimasto orfano perché i genitori erano stati uccisi. Mario aveva portato dalla lontana Puglia in Piemonte questo pulcino dal colore giallo sporco e dall’aspro  odore selvatico.

Mario aveva allevato questo pulcino con l’aiuto dei numerosi amici e i suoi sforzi erano sati ripagati perché da quel grosso pulcino ecco un superbo falco pellegrino che aveva dato il nome di Arturo.

Con questo falco Mario aveva instaurato un bellissimo rapporto di reciproca affinità, come quando si alleva un cucciolo di cane. Arturo come venne chiamato il falco pellegrino non era domestico nel senso stretto della parola, ma si lasciava avvicinare da Mario e quando questi lo chiamava scendeva come un bolide in picchiata dall’alto del cielo, dove poco prima si librava in libertà e scendeva in picchiata stridendo con il suo acuto verso. Arturo era di casa e il suo becco affilato faceva parte integrante degli affetti di Mario. Arturo si fidava di Mario, di questo essere umano, si lasciava accarezzare le ali e accettava il cibo dalle mani. Che bei ricordi di Mario con Arturo, con le sue ali che erano fatte per volare veloce. Arturo era socievole, e nello stesso tempo forte ed agile, feroce e delicato.  Che bello il falco pellegrino rapidissimo soprattutto in picchiata, è considerato l’animale più veloce in natura. Nei secoli gli uomini lo hanno adorato, temuto e purtroppo molto spesso anche sfruttato e perseguitato.  Il falco pellegrino, Falco peregrinus, prende il nome dal piumaggio sul capo, che ricorda un copricapo scuro molto simile ai cappucci che, nel Medioevo, indossavano i pellegrini mentre compivano lunghissimi e impervi viaggi lungo le vie della devozione in tutta Europa. Il falco pellegrino, così come altre specie di falchi e anche di rapaci in generale, è associato alle vette del cielo e anche agli astri, in particolare al Sole. Questo viene soprattutto dalla mitologia egizia che identificava in Horus, figlio di Osiride e Iside, il dio solare per eccellenza. Proprio per la sua potenza e velocità nella caccia, il falco pellegrino è un uccello tenuto in grande considerazione, spesso anche con un certo timore reverenziale. La simbologia cristiana tende ad associare a questi rapaci vagabondi l’idea dell’anima errante e senza guida, ma in generale la letteratura medievale, così come per quasi tutti gli animali che, volando alti in cielo, arrivano più vicini a Dio, lo tratta con chiaro rispetto. Il sommo Dante nella Divina Commedia lo cita nel XIX canto del Purgatorio, lo paragona a sé stesso che fino ad allora aveva guardato in basso e invece ora è pronto a sollevare lo sguardo: “Quale ‘l falcon, che prima a’ pié si mira, / indi si volge al grido e si protende / per lo disio del pasto che là il tira”.

Tornando ad Arturo un bel giorno, dopo due anni, non tornò più dai suoi giri nell’azzurro cielo da Mario che lo attese invano per tanto tempo.

Questo insegna che nella vita molte persone e gli animali in cui riversiamo il nostro affetto fanno parte della nostra storia, con loro facciamo una parte del percorso ma poi non fanno parte del nostro destino e i percorsi si dividono nelle strade della vita.

Favria, 25.05.2022    Giorgio Cortese

Buona giornata. Non bisogna mai sgomentarsi davanti alle difficoltà, ma non bisogna neanche pretendere d’esser falchi quando siamo nati polli. Felice mercoledì

La tassa per le biciclette.

Forse non tutti sanno che, anticamente, esisteva anche una tassa per le biciclette. Se ne trova traccia, per esempio, nei giornali di fine Ottocento, dove si legge che il 10 febbraio 1898, il Comune di Milano  ha pubblicato il manifesto sulla tassa delle biciclette, avvertendo coloro che posseggono velocipedi ed apparecchi assimilabili ai velocipedi, che dovranno denunciarli non più tardi del 26 febbraio ai rispettivi uffici mandamentali, ritirando il certificato di denuncia che darà diritto alla libera circolazione fino all’effettuato pagamento, dopo la pubblicazione del ruolo. Questa tassa era stata introdotta, in tutto il Regno d’Italia con la legge 540 del 1897, che imponeva un balzello di 10 lire al possesso di ogni bicicletta.  Questa tassa, che sarebbe durata diversi decenni prima di tramontare, spartiva le entrate fra Regno e Comune. In realtà già dal 1895 le municipalità erano state autorizzate a fare pagare il possesso di due ruote, ma nel 1897 viene preso un provvedimento nazionale che dava come contropartita il permesso di circolare in bici quasi ovunque, prima non era così. La legge portava la data del 22 luglio 1897. Con quella stessa legge, poi, il parlamento liberò il transito dei velocipedi in tutti i comuni del Regno, pur lasciando alle amministrazioni locali qualche piccolo margine di divieto. Prima del 1897, infatti, molti comuni tendevano a limitare fortemente la circolazione delle biciclette., come adesso per monopattini elettrici. Dalla tassa delle biciclette, non si scappava, c’era un bollo metallico, che ancora oggi si vede sulle canne di vecchie bici, che testimoniava il pagamento della tassa. I Sindaci avvisavano nelle ordinanze presenti in ogni  Comune, chi sopreso ad usare i  velocipedi senza il contrassegno indicante il pagamento della tassa era punito con multa uguale al doppio della tassa medesima, venti lire, una bella cifra per quei tempi. Poi la tassa aumentava, quindici lire per i tandem o altri mezzi multipli e venti per quelli motorizzati e pensare che la bicicletta nasce nella città, un prodotto tipico della civiltà industriale. La sua “preistoria”, ovvero il suo sviluppo, dalle prime strutture in legno senza pedali della fine del secolo XVIII, fino agli alti e pericolosi bicicli, coincide con la rivoluzione industriale e con il conseguente processo di inurbamento. La bicicletta che oggi conosciamo può dirsi compiuta negli ultimi tre lustri dell’Ottocento, anni in cui diventa una vera e propria “moda”: due ruote di uguali dimensioni, trasmissione a catena, pneumatici, ruota libera. La bicicletta è una delle più significative innovazioni portate alla vita quotidiana dalla rivoluzione industriale. Si tratta di un oggetto individuale, normalmente di uso privato, però non domestico: lo si adopera quasi esclusivamente nello spazio pubblico. la sua introduzione nella vita sociale comportò una serie di cambiamenti nel modo di vivere urbano a cavallo tra Ottocento e Novecento. Le prime biciclette circolanti nelle città italiane sono d’importazione. Nel 1895 si stimava che nei tre anni precedenti si erano importati circa 20.000 velocipedi, 8.700 per il solo 1894. Cifra considerevole, se si calcolava in 30 mila il numero totale di biciclette circolanti in tutto il paese, e 6200 a Milano, 5000 a Torino, 4000 a Roma e 3000 a Firenze. In questi anni, spinta dalla moda ciclistica crescente, la produzione locale prende piede. A Milano, la produzione comincia quasi sempre da botteghe o piccole officine, come quella di Edoardo Bianchi.Le biciclette “Atala” sorgono nel 1907, le “Milano” sono un’emanazione della officina di Enrico Flaig, da anni grosso imprenditore del mondo ciclistico milanese, e che aveva il suo negozio a Porta Nuova. Invece le biciclette Prinetti&Stucchi, di via Tortona, provengono da uno stabilimento meccanico già esistente e che allarga la sua produzione al mondo velocipedistico. Nell’ultimo decennio del ‘800, in pieno boom ciclistico, molte officine di riparazione di biciclette tentano il salto di qualità e si presentano come fabbricanti con marchio proprio. Si tratta spesso di operai che vogliono mettersi in proprio, però le difficoltà finanziarie costringono loro a vendere biciclette a buon mercato abbassandone la qualità, con effetti negativi per l’insieme della produzione nazionale, nonché per la salute fisica di chi le inforcava. Le prime biciclette sono oggetti di lusso e come ogni prodotto di lusso che si rispetti si vende nelle vie principali della città. Alcuni negozi, oltre che dedicarsi alla vendita di biciclette al “consumatore finale”, vendevano anche le parti, anche queste importate,  che poi venivano assemblate nelle officine meccaniche locali e poi offerte al pubblico a prezzi più convenienti. Nonostante la bicicletta fosse nata nella città, il suo spazio ha dovuto guadagnarselo, come ogni nuovo arrivato. Soprattutto ha dovuto liberarsi dalla cattiva fama che le proveniva dal biciclo, il velocipede con la ruota anteriore alta, che fungeva da motrice, e la ruota posteriore piccola. Questo modello era di difficile uso e comportava molti pericoli per chi lo inforcava e per chi si trovava sulla sua strada. Diverse autorità comunali avevano imposto divieti o severe regolamentazioni per la sua circolazione. La crescita del numero di velocipedi introdusse cambiamenti nel modo quotidiano di vivere la città e nella geografia urbana, modificando la percezione dello spazio e del tempo. Con la bicicletta si riducevano le distanze all’interno delle città e il raggiungimento del posto di lavoro o lo svolgimento dei propri affari diventava molto più spedito. Le biciclette divennero il principale mezzo di trasporto individuale, almeno fino alla seconda guerra mondiale, caratterizzando in buona misura la circolazione urbana. Dopo la citata legge del 1897 e fino alla seconda metà degli anni ’20, non ci furono cambiamenti rilevanti nella distribuzione dello spazio pubblico di circolazione. I ciclisti dovevano circolare sulla carreggiata e ne era vietata la circolazione sui marciapiedi. Con l’aumento della circolazione automobilistica degli anni venti del Novecento, la concorrenza per lo spazio stradale diventò più serrata e si verificò la tendenza di escludere la circolazione ciclistica dai centri storici. Tuttavia, nel primo decennio del Novecento la progettazione delle strade per le nuove aree urbane, poteva prevedere corsie ciclabili affianco di quelle per le altre tipologie di trasporto allora usate: carri e carrozze, tram, cavalli, automobili e pedoni: un tipo di soluzione scartata nei decenni seguenti a beneficio dell’automobile. Le biciclette, i velocipedi erano usati all’inizio in attività sportive che sconfinavano in passeggiate, gite e viaggi. Nel 1870 sono nati i primi club velocipedistici  il cui scopo era organizzare gare, promuovere gite e difendere i diritti dei velocipedisti di fronte alle autorità amministrative,  allestivano piste per la pratica e l’apprendimento e mettevano a disposizione velocipedi per i principianti  presso le porte delle città, ori boari, parchi o piazzali. Allora forte interesse suscitò la gara tra il noto ciclista Buni e il famoso cow-boy Buffalo Bill, nella pista del Trotter milanese. Per le corse ciclistiche a volte si occupavano spazi nuovi. La prima pista in terra battuta con le curve rialzate venne costruita a Torino nel 1890, nella vecchia Piazza d’Armi. Altrove si adattavano ai bisogni delle biciclette i luoghi destinati alle corse ippiche. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento  si diffonde l’uso quotidiano della bicicletta. L’adoperano prima i medici e i professionisti, ma cominciano ad essere acquistate anche dalle amministrazioni comunali per lo svolgimento dei servizi dei propri addetti: vigili urbani, del fuoco, ufficiali daziali, sanitari, ecc. Nei primi anni del Novecento si moltiplicano i garzoni muniti di biciclette e di tricicli, i quali già da alcuni anni erano usati anche per la distribuzione dei giornali Compaiono i servizi di corrieri privati in bicicletta. Progressivamente anche gli operai, in particolare quegli qualificati, grazie all’abbassamento dei costi di produzione, alla diffusione dei pagamenti a rate e al mercato di seconda mano, possono acquistare il proprio velocipede. Le biciclette furono utili anche nella vita politica. Le staffette del partito Socialista ne fecero uso a Milano già nelle elezioni politiche del 1896, due anni prima che il generale Bava Beccaris ne vietasse la circolazione durante la sanguinosa repressione dei moti popolari. Nonostante ciò continuarono ad essere adoperate negli scioperi, come mezzo di propaganda, e nel 1913 i “ciclisti rossi” milanesi parteciparono al corteo del Primo Maggio. Il TCI fece un uso patriottico della bicicletta, compiendo gite ai luoghi risorgimentali e prendendo parte alle celebrazioni, come quelle realizzate a Bologna in ricordo del 50° anniversario dell’assedio di Bologna. Siccome si trattava di un bene costoso, la bicicletta diventò presto una preda per diversi furfanti. I primi bersagli furono i negozi di noleggio, ma con la maggiore diffusione dell’uso quotidiano, diventò rischioso lasciare la bicicletta senza nessuna forma di custodia. Così nacquero i primi depositi di biciclette custoditi a pagamento distribuiti nei luoghi chiave della città. Con la diffusione dell’uso della bicicletta iniziano gli incidenti provocati da ciclisti inesperti o imprudenti causando ostilità da parte della cittadinanza, sebbene la bicicletta si fosse dimostrata meno pericolosa di carri, carrozze e brougham.  Il brougham o brum deriva dal nome del lord scozzese H. P. Brougham, 1778-1868, che lo mise di moda utilizzando una carrozza chiusa a quattro ruote, a due o a quattro posti, apparsa in Inghilterra verso il 1830, usata per lo più come vettura pubblica. Il termine fu applicato anche a un tipo di carrozzeria per automobili, a due sportelli. I ciclisti di allora dovevano prendere maggiori precauzioni quando si allontanavano dalla città o nei sobborghi per evitare aggressioni. Essere presi a sassate o inseguiti da cani inferociti, erano possibilità da prendere seriamente in considerazione prima di intraprendere una gita, al punto che molti utilizzavano una  speciale rivoltella da adoperare contro i cani, la quale poi prese il noto nome di scacciacani. Negli anni del boom ciclistico di fine Ottocento, sono anche gli anni di una acuta crisi sociale ed economica e di malessere sociale diffuso, e il passaggio di ciclisti, appartenenti a ceti alti o medi urbani, attraverso le periferie o le campagne poteva causare reazioni più o meno violente contro coloro che volenti o nolenti ostentavano costosi beni materiali, la bicicletta e la disponibilità di tempo libero, un vero miraggio per i contadini e i lavoratori in genere. Con il nuovo secolo le biciclette cominciano a diffondersi anche nei paesi di campagna e saranno le città ad essere invase dai velocipedi dei contadini e operai specialmente nei giorni di mercato, non  a caso Luigi Ganna, il muratore immigrato dalla provincia varesina, sarà vincitore nel 1909 del primo Giro d’Italia.

Favria, 26.05.2022

Buona giornata. Il web mi ha insegnato in questi anni, il potere  dell’effetto di rete, perchè quando le persone si connettono le idee crescono. Felice giovedì.

Rubrica.

Oggi se diciamo rubrica vogliamo indicare un quaderno ordinato con le lettere dell’alfabeto, il titolo di una legge, la sezione di un giornale o di una trasmissione, nei codici manoscritti, parte scritta in rosso per evidenza, ed infine nei libri liturgici cristiani, indicazione rituale scritta in rosso, distinta dalla preghiera. La parola deriva da dal latino ruber,  ocra rossa. Lunga e varia la storia che ha portato la rubrica ad avere tutti i suoi significati, e di intendimento non immediato. Nell’antichità, a Roma, il titolo delle leggi civili veniva scritto con l’argilla rossa – ed è direttamente da quest’usanza remota che ancora oggi chiamiamo ‘rubrica’ il titolo delle legge, anche quello giusto accanto al numero dell’articolo. In qualche museo, poi, ci sarà di certo capitato di ammirare la meraviglia di un qualche codice miniato, custodito dentro una teca di vetro. Il minio, minerale rosso da cui la miniatura prende il suo nome, era usato per colorare variamente le parti più importanti del testo, quali il titolo, la prima lettera. E da questa prima lettera ci arriva il nome ‘rubrica’ per i quadernetti ordinati per nome che raccolgono indirizzi e numeri di telefono: la scalettatura delle pagine mette quella lettera a portata di mano,  e spesso è ancora scritta in rosso.  La sezione distinta di un giornale, di un blog, di un programma alla radio o alla televisione, invece, probabilmente trae il suo nome dalla rubrica dei libri liturgici cristiani, che prevedono una parte in rosso per le indicazioni pratiche del rito, separate dal testo della preghiera relativa. Insomma, intrecci storici che partendo da un semplice colore della terra attraversano i secoli penetrando a fondo nella nostra quotidianità, e che stupiscono sempre.

Favria,  27.05.2022 Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno credo al potere del riso e delle lacrime come antidoto all’odio e al terrore. Felice venerdì.

Il senso del  cammino.

Abbiamo tutti la nostra personale percezione del cammino, chi cammina  veloce, chi piano chi arranca o pensa di annaspare e si affanna. Camminare ha un senso ed è profondo. Ovviamente chi  cammina si muove,  ma non così tanto come sembra, chi cammina muove i suoi passi, non se ne sta fermo a poltrire, ma ha il coraggio di partire. Chi cammina non è sicuro di niente, non sa chi incontrerà per strada e spesso neanche la strada che si troverà a percorrere. Camminare significa rischiare, buttarsi, andare chissà dove, su quali salite. Mettersi in cammino è un andare verso, un andare cercando qualcosa, qualcuno, magari  una meta prefissata. Ma attenzione chi  cammina sa di non essere giunto a destinazione e che dopo ogni arrivo c’è una nuova partenza. Nel cammino della vita quotidiana impariamo ogni giorno cosa significa faticare, impariamo a guardarci intorno, fare esperienza, perché nel cammino a differenza dell’auto non corre veloce. Nel cammino non sono mai solo è la strada che ho scelto che mi accompagna e sulla strada che incontro i miei compagni di viaggio. Ogni giorno il nostro quotidiano cammino è usfida con noi stessi, e se la salita è troppo irta mi fermo, prendo una sosta. Il cammino mi insegna il ragionare meglio nella frenesia della vita quotidiana, imparo a conoscermi meglio, per capire chi sono e dove sto andando, anche se ad ogni nuovo cammino si profila davanti a me sempre un’altra meta. Il cammino è la metafora della mi vita  dove tutto si mette in discussione, metto in gioco la mia vita per andare a cercare qualcosa che non ho ancora trovato, e sono consapevole  che ci sarà sempre qualcosa da cercare se avrò fede anche come un piccolo granello di sabbia e provo tristezza per quelli che si lamentano sempre di camminare in salita anche se continuano a camminare sulla medesima piastrella da tempo. Il senso della nostra vita è il cammino, non la meta, e la meta non è più tale appena è stata raggiunta, perché ripartiamo ogni giorno nell’umano cammino.

Favria, 28.05.2022  Giorgio Cortese

Buona giornata. Nella vita non esistono due giorni uguali come due viaggi uguali che affrontano il medesimo percorso. Felice sabato

Le api e i calabroni

Il campo di lavanda era in subbuglio: papaveri e fiordalisi avevano tutti i petali che tremavano! Da qualche giorno api e calabroni litigavano senza tregua per via di un alveare sistemato proprio in mezzo ai fiori. “E’ nostro!” ronzavano le api. “Che faccia tosta!” rispondevano i calabroni. “E’ casa nostra!”. Non c’era verso di metterli d’accordo. A un certo punto, però, gli altri insetti, i topi campagnoli e gli uccelli, insomma, tutti gli abitanti del campo ne ebbero abbastanza e andarono a trovare il vecchio gufo, noto per la sua saggezza. Il vecchio gufo, che viveva nella cavità di un albero vicino al fiume, li ascoltò con calma, poi decise di andare a vedere di persona. Dall’alto sentì un gran rumoreggiare confuso e notò tattiche e manovre infernali… “Basta! Visto che non riuscite a mettervi d’accordo fra voi, ecco la mia decisione: api e calabroni costruiranno … un alveare simile a quello per cui state litigando!”… Da allora nel campo di lavanda è tornata la calma: le api ronzano nel loro alveare e tutti gli abitanti possono dormire sonni tranquilli.

Favria, 29.05.2022 Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno non rinuncio mai ad un sogno solo perché ci vorrà troppo tempo per realizzarlo. Il tempo passerà comunque. Felice domenica

Insieme…

Voglio condividere con Voi un breve racconto recentemente letto di David Hume, famoso filosofo illuminista scozzese del Settecento: “Il tuo grano è maturo oggi, il mio lo sarà domani. Sarebbe utile per entrambi se oggi io lavorassi per te e tu domani dessi una mano a me. Ma io non provo nessun particolare sentimento di benevolenza nei tuoi confronti e so che neppure tu lo provi per me. Perciò io oggi non lavorerò per te perché non ho alcuna garanzia che domani tu mostrerai gratitudine nei miei confronti. Così ti lascio lavorare da solo oggi e tu ti comporterai allo stesso modo domani. Ma il maltempo sopravviene e così entrambi finiamo per perdere i nostri raccolti per mancanza di fiducia reciproca e di una garanzia” (David Hume, “Trattato sulla natura umana”, 1740,). Questo apologo mi ha fatto riflettere sulla attuale situazione dove tutti noi esseri umani, condividiamo un destino comune su questa terra, dalla non terminata minaccia del virus ai cambiamenti climatici che noi ominidi provochiamo, che distruggono la nostra vita sul pianeta. E si, non è, purtroppo, ancora terminata la grande emergenza sanitaria che ha causato tanti lutti, che tanto impegno e fatica sta chiedendo a tutto il sistema sanitario, che impone sacrifici a tutti, individui e famiglie, e già dobbiamo riflettere su come mantenere la solidarietà sociale ed economica che ci ha contraddistinto nella storia e che ancora ci caratterizza. Il dialogo tra i due agricoltori può essere sicuramente un rischio di questo periodo. Giustamente ciascuno si preoccupa per sé e per i suoi, cercando il modo migliore per uscire da questa crisi. Chi costruisce nelle proprie attività, quali che siano, con senso civico, con attenzione alle regole, con spirito comunitario, vorrà continuare a farlo anche in condizioni difficili, ma nolti tendono a cavarsela in un modo o nell’altro sono tentati anche ora di far ricorso a stratagemmi, più o meno onorevoli. Se però non abbiamo motivi di fiducia e rispetto reciproco, o se le regole da seguire non sonosufficientemente chiare e vincolanti, rischiamo il blocco e ci perdiamo in inutili fiumi di parole senza fare nulla. Il maltempo, oggi la pandemia, è arrivato, e ora siamo legati gli uni agli altri: quello che di buono sta succedendo, nella capacità di reazione di tutto il nostro sistema, dipende dai legami e dai vincoli di fiducia e di collaborazione che abbiamo stretto sinora. Altrimenti, la tentazione di andare ciascuno per sé diventa probabilmente troppo forte, e rimaniamo esposti alle intemperie. L’attuale situazione sanitaria, economica e ambientale, insomma la società che adesso noi conosciamo ha urgente bisogno di soluzioni solidali e coese, a tutti i livelli. Davvero non ci salviamo da soli e neanche come singolo stato, oggi più che mai è l’Europa che ci deve dimostrare concretamente che in queste emergenze quanto è essenziale, decisiva e importante. Oggi oltre al virus abbiamo bisogno che l’economia riparta, come dice qualcuno fare ripartire la macchina. Ma l’economia fa parte di un ecosistema fatto di persone interconnesso e vitale. A una macchina possiamo cambiare qualche pezzo di ricambio ed essa continua a funzionare, magari anche meglio di prima. Se a un’economia togliamo una parte, quella parte era un’impresa, una bottega artigiana, un negozio, un operaio, un impiegato. E sempre insieme ad altre persone, i colleghi, i dipendenti, i fornitori, le famiglie. E non è la stessa cosa che dopo la ripartenza ci siano ancora tutti oppure no. Oggi fiorisce nel Patrio Stivale una polemica sul green pass, ma il problema per me rimane il virus e il vaccino ed il conseguente green passa è una soluzione concreta per uscire, il resto sono solo chiacchiere che stanno a zero. Ma oggi quello che è fondamentale visto le laceranti polemiche è di riattivare prima di tutto, un dialogo positivo per costruire insieme azioni concrete per il bene di tutti noi. Dobbiamo tutti insieme avere più rispetto degli altri e cercare di capire la complessità del momento. Dobbiamo essere tutti insieme pronti al soccorso degli altri in difficoltà piuttosto a giudicare e criticare gli errori commessi nel passato o adesso, perché ricordiamolo tutti il nemico è il virus un comune nemico e solo con l’unione posiamo avere la forza per sconfiggerlo. Ogni giorno siamo legati nei nostri gesti, azioni e pensieri gli uni agli altri, e ognuno di noi deve garantire l’impegno di fare la sua parte, anche nelle piccole azioni quotidiane. Ricordiamoci sempre che il sole sorge ogni giorno per tutti noi e batte i suoi caldi raggia sia su un deserto che sul piazzale asfaltato vicino a noi, riscalda la superficie e poi si disperde. I raggi del sole danno energia in una foresta rigogliosa passando sia sui grandi alberi e ai piccoli arbusti e tutte le forme viventi che abitano nel bosco, animali e piante tra di loro interagiscono e si alimentano e si sostengono a vicenda e lo stesso calore qui porta la vita. Insomma solo uniti e coesi possiamo farcela nel futuro. Non è nei freddi numeri  nell’unità tra esseri umani  sta la nostra grande forza, dove  c’è unità di intenti tra gli esseri umani c’è sempre alla fine la vittoria.

Favria, 30.05.2022  Giorgio Cortese

Buona giornata. Ogni giorno tutto quello che vedo è un miracolo e non esiste un altro giorno uguale. Allora mi devo sforzare di viverlo come se fosse l’ultimo dando valore ad ogni attimo. Felice lunedì.

Il lamassù  apotropaico.

I lamassù erano nell’Antica Mesopotamia delle statue imponenti di diversi metri che venivano poste vicino alle entrate o lungo i principali passaggi o corridoi degli altrettanto giganteschi e straordinari Palazzi assiri, per sorvegliarli e proteggerli da tutti gli spiriti maligni e malvagi che potevano portare il male a corte. Per questi antichi popoli le statue dei Lamassù riunivano in loro tutta la forza che si trovava in cielo e sulla terra e quindi avevano un grande potere soprannaturale. Se andiamo a guardarli con più attenzione notiamo che queste statue hanno un aspetto diciamo ibrido, nel senso che è un miscuglio in quanto hanno la testa e il volto umani con indosso un copricapo regale con delle corna, che sta ad indicare i poteri divini e un corpo di un animale a quattro zampe con degli artigli o degli zoccoli e con due grandi ali. Guardando le statue che potevano essere realizzate dopo un lungo lavoro su grandi massi di alabastro o di altro materiale come il gesso, vediamo la grande abilità degli antichi artisti mesopotamici nel realizzare tutte le decorazioni e i dettagli molto ricchi. Meravigliosi sono i vari dettagli sulla capigliatura, sui finimenti che cingono il corpo dell’animale o quelli delle ali. Una bella curiosità sui Lamassù è anche quella che avevano cinque zampe raffigurate in una determinata posizione. Questa era stata una grande idea degli artisti in modo da poter raffigurare le statue in due pose diverse, in base a come si osservavano. Infatti vediamo che il Lamassù visto frontale ha una posizione di arresto, ferma mentre se lo osserviamo di lato vediamo che è in movimento. Questo particolare effetto si ha grazie all’intuizione degli artisti di allineare perfettamente le due zampe anteriori in modo che di lato se ne veda una soltanto. I lamassù erano apotropaici, parola che significa che  annulla o allontana influssi maligni. Il lemma deriva dal greco antico apotropaios che allontana, composto di apo da trepein allontanare.

Le statue, amuleti e gesti apotropaici sono profondamente radicati in superstizioni, religioni e spiritualità di ogni cultura. Oggi le pernacchie o le linguacce come scongiuro contro la sfortuna o i ferri di cavallo messi a mo’ di corna, lo sputo per stornare il diavolo, il crocifisso per i vampiri,  fino ad esorcismi più complessi -, così come anche pietre diverse diversamente foggiate, e piante ed erbe, per scacciare ora questo ora quel male; e poi maschere, teschi, animali o attrezzi simbolici posti sugli architravi, sulle pareti o davanti ad edifici per salvaguardarli da malocchi e disgrazie, dalla scopa inchiodata al muro dell’Italia contadina ai draghi del Feng Shui orientale, fino a grandi statue, dipinti o festeggiamenti benauguranti dedicati ai due sessi e alla fertilità, elemento apotropaico, questo, meno presente nelle culture cristiane ma che altrove riveste un ruolo da protagonista. Nel mondo letterario ha assunto il carattere di rito che che allontana il male, dunque esorcizzante. Si può intendere come suo sinonimo anche l’atto dello scongiurare, quali ad esempio i riti apotropaici che venivano riservati ai generali dell’Antica Roma in trionfo. Apotropaici erano lo scarabeo dell’Antico Egitto, i falli trovato negli scavi di Pompei e oggi le corna. Oppure la frase di scongiuro beneauguranti: “All’in bocca al lupo, la risposta è crepi il lupo.

Favria, 31.05.2022  Giorgio Cortese

Buona giornata. Da domani ecco il mese di giugno che si distende all’improvviso nel tempo, come un campo di papaveri. Felice  martedì.