Casa dolce casa. -La tradizione orale. – Da diwan a divano! -Voto dieci! -Il generoso pellicano. -L’apostrofo dispettoso, Titivillus. -…Le pagine di Giorgio Cortese

Nella vita lo zelo senza riflessione non è cosa buona, e chi va a passi frettolosi inciampa sulle proprie bugie.
Casa dolce casa
Casa è una delle parole più comuni della lingua italiana, eppure la sua etimologia è stata molto discussa. In realtà se prendiamo un vocabolario della lingua latina e andiamo a cercare il lemma, troviamo “Casa: capanna, tugurio: casa di campagna, baracca militare”, quindi a questo punto ci potremmo ritenere soddisfatti e passare oltre. Ma rimango perplesso, perché per i romani quella che noi chiamiamo casa era sempre e solo domus anche quando si trattava di una villa rurale, tanto è vero che questa parola latina è stata prestata ad altre lingue, per esempio a quelle slave, nel croato dom, nel ceco domací, nel polacco dom, nello sloveno domov, nello slovacco domace, con lo stesso significato di casa. In alternativa la casa popolare veniva chiamata insula e si diffuse soprattutto in epoca imperiale, quando all’aumento della popolazione nella città si rispose con un incremento nell’altezza delle abitazioni. I romani usavano il lemma casas per indicare le case dei Galli che secondo l’usanza delle popolazioni celto-germaniche non erano costruite con la pietra, ma erano capanne di legno col tetto di paglia, risulta quindi strano che noi chiamiamo casa le capanne dei celti e non la domus romana. L’etimologia del termine casa (per altro non comune a tutte le lingue neolatine) è da ricondursi al latino casa, deriva dalla radice sanscrita skache rimanda all’idea di coprire e che ritroviamo nel latino castrum, accampamento, e anche in cassis, elmo. Nelle lingue di ceppo germanico, in alto tedesco antico la parola per casa era hus, in olandese huis, antico inglese hus, tutte derivano dal proto-germanico husan da cui deriva la parola inglese house. La parola casa è strettamente legata da abitare, dal latino habitare, propriamente, tenere, da habere, avere. Non si può essere al mondo senza abitare. Si abita non meno di quanto si sia. L’abitare rappresenta una delle relazioni fondamentali che gli esseri umani intrattengono con il mondo e il mondo con gli uomini. Troppo spesso lo si è dimenticato. È bene allora chiederci: che cosa significa abitare? Come detto prima, “abitare” rimanda quindi all’avere con continuità. L’abitante, allora, “ha” il luogo in cui abita. Non tanto nel senso che lo possiede o ne ha proprietà, quanto in quello che ne dispone, lo conosce, ne ha confidenza, ne è pratico. L’abitante “ha” la casa in cui abita, Il cittadino “ha” la città o Comunità di cui è abitante. Ogni abitante del nostro pianeta, e non solo il nomade assoluto che non abita mai nello stesso luogo “ha” il mondo. Secondo un proverbio inglese la casa di ognuno di noi è il nostro castello. La casa non è solo un edificio di mattoni, ferro e legno ma può trasmetterci uno stato d’animo che siamo incapaci di crearci da noi stessi. La casa è la conchiglia dove si genera la perla dell’onestà di chi vi abita e, se dalla conchiglia si può capire il mollusco, dalla casa il suo inquilino. Perché la casa è un prolungamento ideale della nostra epidermide, il nostro corpo più grande che ci connette con la famiglia, vive nel sole e si addormenta nella quiete della notte; e non è senza sogni. Stare in casa significa poter assaporare il piacere di sapere che fuori c’è un paesaggio meraviglioso e, quando apro la porta o la finestra e lo guardo penso che nella vita percorriamo il mondo intero in cerca di ciò che ci serve e solo tornando a casa troviamo che cosa abbiamo bisogno. Ringrazio Davide e Milena che inviandomi la foto della loro bellissima casa che non è posta a Rueglio ma via appartiene, ciascuna delle due più felice per merito dell’altra. Una casa non solo di facciata ma una casa piena di calore e di luce, una casa dove è bello andare ad abitare ed andare a vivere.
Favria, 20.09.2015 Giorgio Cortese

Passano gli anni e mi rendo sempre più conto che superato il primo choc, l’umiltà è una virtù allegra.

La tradizione orale
Con tradizione orale si intende il complesso delle testimonianze del passato, racconti storici, miti, poesie, trasmesse di bocca in bocca, di generazione in generazione, considerate una delle fonti fondamentali per gli studî etnologici, distinguendosi dalla storia orale, che è l’insieme delle informazioni, assunte attraverso interviste a testimoni oculari, riguardanti avvenimenti di storia contemporanea. La caratteristica che mi ha colpito del coro Bajolese è che quanto appreso oralmente durante la ricerca sul campo, Vigliermo e i Bajolesi sono soliti riproporlo al territorio in forma corale, presentandosi al pubblico senza fronzoli, utilizzando anche nei concerti gli abiti della quotidianità. Il motto del loro maestro è: “Così ce li hanno cantati e così noi li cantiamo” . Seguendo tale prassi, il coro da voce a tutte le persone del Canavese capaci di esprimere la cultura locale in particolare attraverso il canto e la musica. Grazie al Comitato di San Pietro Vecchio, San Grato che ogni anno ci propone dei canti relativi alle nostre tradizioni. Perchè tutto ciò che è nuovo e significativo deve essere sempre connesso con le vecchie radici, le nostre origini, il nostro patrimonio culturale del passato, ed uno di questi sono le canzoni popolari trasmesse oralmente dai nostri nonni.
Favria, 21.09.2015 Giorgio Cortese

Certe notti non portano consiglio, ma vuoti che feriscono l’animo.

Da diwan a divano!
Il divano, anche detto sofà, ottomana o, meno propriamente, canapè, è un sedile imbottito e dotato di braccioli come una poltrona, ma di forma allungata in modo da poter accogliere più persone contemporaneamente. È un elemento piuttosto comune dell’arredamento privato e pubblico moderno. Nelle abitazioni viene generalmente collocato in salotto, nei luoghi pubblici si trova frequentemente nelle sale d’aspetto. La parola divano deriva dal persiano diwan, parola introdotta con il divano in Europa nel XVI secolo. In Persia il diwan, era un sedile lungo che arredava gli uffici del registro. Con questo termine in origine si indicavano i registri amministrativi, conservati in un apposito locale dove gli scribi lavoravano seduti su cuscini. Dai registri il termine passò a designare l’ambiente e, in modo traslato, l’insieme dei cuscini su cui si sedevano gli addetti alla scrittura. Luogo nel quale i vizir dei califfi e i ministri del sultano turco-ottomano trascrivevano le loro decisioni. Dalla parola diwan deriva anche il lemma dogana, per indicare quella parte amministrativa e contabile dello Stato. Già in epoca califfale il vocabolo era utile a designare le amministrazioni dello Stato e sopravvisse anche nell’Impero Ottomano, con riferimento al Consiglio dei ministri. Questo termine è anche passato ad indicare anche una raccolta di poesie di un poeta orientale, nella letteratura araba e poi anche in altre letterature del mondo islamico come quella turca e persiana, per esempio il “Canzoniere” o “Diwan” di Hafiz, “il conservatore”, pseudonimo di Shams al-Din Muhammad, poeta persiano e mistico sufi vissuto nel XIV secolo. Il termine originario persiano fu francesizzato in divan per indicare una lunga panchetta con fiancate o braccioli dai mobilieri parigini per indicare una lunga banquette col sedile imbottito diffusa durante l’epoca di Luigi XV e in quella neoclassica. Nella forma italiana il termine divano assunse un significato che ne fa il sinonimo di sofà, questa ultima parola deriva dall’arabo suffa, che vuol dire “cuscino, elemento dell’arredamento costituito da un sedile con spalliera imbottiti. Come si vede, nonostante la similitudine, per esempio, con il triclinio romano, il divano moderno entrò nella cultura occidentale dal mondo ottomano. Altro sinonimo del divano è il canapè, dal francese canapé e dal latino medievale canapeum, alterazione del class. conopēum, conopeo dal latino “conopeum” e dal greco “konopèion”, con il significato originario di “zanzariera”. Il canapè è un divano imbottito a più posti, fornito di braccioli e spalliera, usato per lo più come mobile da salotto. Può essere realizzato con diversi materiali, ma nella sua struttura classica è per lo più composto da legno rinforzato da molle, imbottito di stoppa, di canapa o di lino e foderato in velluto o altre stoffe. Tornando al divano il primo periodo di grande diffusione in Europa risalì al periodo di Luigi XV e all’epoca neoclassica, mentre il momento storico di maggiore successo fu quello ai tempi di Luigi XVIII e della Restaurazione. Infine per completezza una citazione, si deve fare anche di quell’elemento dell’arredamento che in Francia chiamano “dormeuse” ed era solito adornare camere da letto e salotti delle residenze nobiliari settecentesche. Di questo complemento d’arredo si trovano però tracce anche nella nostra cultura, e ben più antiche: già ai tempi dei romani infatti questi divani particolari venivano ampiamente utilizzati, non solo per il semplice ozio o riposo, ma anche come seduta per pranzi e cene. Tra le caratteristiche principali delle dormeuse antiche, in italiano, dormosa troviamo in primis la versatilità di questo complemento d’arredo: si trova infatti a metà strada tra un divano, una poltrona ed un letto essendo progettata con schienale, bracciolo singolo e prevedendo la possibilità di sdraiarsi per il lungo su tutta l’ampiezza del divano. Le dormeuse, oltre che estremamente comode, sono uno di quei mobili che già da sé arredano; a prescindere dallo stile nel quale sono realizzate donano eleganza alla stanza a cui vengono destinate. Pensando al divano, luogo deputato con il letto al riposo, dicono che gli esseri umani sono dei geni quando sognano ed è vero quando dormo mi vengono i colpi di genio, e quando sono sveglio i colpi di sonno!
Favria, 22.09.2015 Giorgio Cortese

L’altra mattina mi è venuto da pensare che ogni giorno la vita continua e va avanti, si evolve, e genera vita. Ed io faccio parte di tutto questo. Per questo motivo io devo essere sempre parte attiva, la vita ha bisogno anche dei miei sorrisi per renderla ancora e per sempre bella.

Voto dieci!
Il dieci, secondo Pitagora, è considerato il numero perfetto, ma anche l’annullamento di tutte le cose. 10 = 1+0 =1, e illustra l’eterno ricominciare. Il Dieci è il totale dei primi quattro numeri e perciò contiene la globalità dei principi universali. Corrisponde alla Tetraktys pitagorica, che insieme al sette lo considerava il numero più importante, in quanto è formato dalla somma delle prime quattro cifre, 1+2+3+4=10, esprime la totalità, il compimento, la realizzazione finale. Il numero Dieci è divino poiché perfetto, in quanto riunisce in una nuova unità tutti i principi espressi nei numeri dall’uno al nove. Per questo motivo il numero Dieci è anche denominato Cielo, ad indicare sia la perfezione che il dissolvimento di tutte le cose, per il fatto che contiene tutte le possibili relazioni numeriche. Sono partito da questo numero perché verso fine agosto sono stato a cena con GianLuigi, Sara, Daniel, GianLuca, Enrico, Marco, Silvana, Irene e Luisella ed io, colleghi di lavoro siamo stati a cena alla Trattoria Primavera di Cester Giovanni, in via Gramsci a 1 a Cuorgnè. Locale che consiglio per il vasto assortimento del menù, per la bontà delle pizze e per l’ottimo pesce cucinato, locale che merita sicuramente un bel dieci . Serata piacevole che ci ha fatto sorridere. Sorridere fa bene, è terapeutico, è un gesto semplice e naturale. Il sorriso è un accessorio gratuito, indossarlo non costa nulla, rende più belli e solari, regala a chi lo riceve buonumore, conforto e allegria. Il sorriso è un raggio di speranza che riscalda l’animo e sicuramente il carburante per il sorriso alla Trattoria Primavera è stata la buona cucina e l’ottima compagnia
Favria, 23.09.2015

Bisognerebbe poter catturare certe situazioni coinvolgenti quando accadono, per poter rivivere all’infinito quelle sensazioni indescrivibili ancora e ancora.

Il generoso pellicano
Al pellicano, bianco uccello che vive in Europa orientale, in Asia sud-occidentale e in Africa, si attribuisce un importante significato allegorico. Dagli antichi greci il pellicano veniva chiamato Onocrotalo, perché il suo strano grido, krotos, era simile a quello di un asino. Si deve invece, per l’analogia di forme, l’assonanza al nome con cui gli stessi greci principalmente lo chiamavano: pelekos, da pelekus, l’ascia. A causa dell’apertura del suo becco smisurato, uncinato alla punta che, slargandosi a ventaglio, risulta essere simile ad una antica scure; questa, un segno simbolico del sacrificio di sangue, potrebbe far risalire l’origine delle leggende sul pellicano a tempi antichissimi. Il fatto che i pellicani adulti curvino il becco verso il petto per dare da mangiare ai loro piccoli i pesci che trasportano nella sacca, ha indotto all’errata credenza che i genitori si lacerino il torace per nutrire i pulcini col proprio sangue, fino a divenire “emblema di carità”. Il pellicano è divenuto pertanto il simbolo dell’abnegazione con cui si amano i figli. Per questa ragione l’iconografia cristiana ne ha fatto l’allegoria del supremo sacrificio di Cristo, salito sulla Croce e trafitto al costato da cui sgorgarono il sangue e l’acqua, fonte di vita per gli uomini. Antiche leggende raccontano che i suoi piccoli vengono al mondo talmente deboli da sembrare morti, o che la madre, tornando al nido, li trovi uccisi dal serpente. Il mito narra che il pellicano ama moltissimo i suoi figli, ma quando ha generato i piccoli, questi, non appena sono un po’ cresciuti, colpiscono il volto dei genitori; i genitori allora li picchiano e li uccidono. In seguito però ne provano compassione, e per tre giorni piangono i figli che hanno ucciso. Il terzo giorno, la madre si percuote il fianco e il suo sangue, effondendosi sui corpi morti dei piccoli, li risuscita. Da qui, i teologi medioevali, lo identificano con il Cristo in croce, e con il Padre che ama al tal punto l’umanità da inviare i1 Suo unico Figlio, che resuscita dalla morte il terzo giorno. Il pellicano si presta così ad una duplice simbologia: è inteso sia come immagine di Cristo che si lascia crocifiggere e dona il suo sangue per redimere l’umanità, sia come immagine di Dio Padre che sacrifica suo Figlio facendolo risorgere dalla morte dopo tre giorni. Negli ultimi tre secoli del medioevo, sovente lo spirituale uccello è stato al centro dell’attenzione artistica. Rappresentato in scultura o in pittura col nido dei suoi piccoli sulla sommità della croce e nell’atto di straziarsi il petto con i colpi del suo becco. Il sangue scaturente dal petto del Pellicano è, per l’Ars Symbolica, la forza spirituale che alimenta il lavoro dell’alchimista che, con grande amore e sacrificio, conduce la ricerca della perfezione. Questo emblema è presente nell’iconografia alchemica: da un lato raffigura un genere di storta, ossia un recipiente nel quale veniva riposta la materia liquida per la distillazione, il cui “beccuccio” è piegato in direzione della cupola convessa; dall’altro costituisce un’immagine della “pietra filosofale” dispersa nel piombo allo stato fluido, nel quale si fonde al fine di determinare la trasmutazione del “vile metallo in oro”. Questo volatile è quindi la metàfora dell’aspirazione non egoistica all’ascesa verso la purificazione, della generosità assoluta. Alla luce di questo significato, il pellicano indica anche il grado di “Rosacroce” nella Massoneria di rito scozzese. I suoi membri definiti “Cavalieri di Rosacroce” nei sistemi più antichi erano chiamati anche “Cavalieri del Pellicano” Il pellicano è una figura rappresentativa anche in altre culture, infatti i musulmani considerano lo stesso un uccello sacro poiché, come narra una loro leggenda, allorché i costruttori della Ka’ba dovettero interrompere i lavori per mancanza d’acqua, stormi di pellicani avrebbero trasportato nelle loro borse naturali l’acqua occorrente a consentire il completamento dell’importante costruzione sacra. Il Bestiario medievale cita un canto sacro oggi dimenticato il cui testo recita: “Pie pelicane, Jesus Domine”, o Pio pellicano, Nostro Signore. Vi si rammenta la caratteristica di questo pennuto acquatico, che è quella di mangiare solo il cibo che gli è realmente necessario per sopravvivere come l’eremita che vive in modo simile, perché si nutre di solo pane e non vive per mangiare, ma piuttosto mangia solamente per vivere. Il pellicano è un uccello difficile da vedere, ed è per questo che diventa pura immagine dello Spirito, che richiama al pensiero la Purezza, Cristo, il “nostro Pellicano” come lo chiama Dante quando si riferisce all’apostolo Giovanni: «Questi è colui che giacque sopra’l petto del nostro Pellicano, e Questi fue di su la croce al grande officio eletto». (Divina Commedia, Paradiso canto XXV, 112-114). La Purezza Celeste è quindi il carattere particolare di questo uccello che, simile ad un angelo dalle ali spiegate, simboleggia la Redenzione, la Resurrezione e l’Amore di Cristo per le anime. Pensando al mito del Pellicano ritengo che non ci un solo essere umano al mondo che non meriti di amare e di essere amato. Tutti noi desideriamo essere amati, anche solo per un istante. Alla fine, per quanto se ne dica, resta il sentimento più meraviglioso che uno possa provare. Amore per chi ha affinità elettive per me, per mia moglie, per la famiglia, per gli amici, per la natura e anche per quelli che hanno idee diverse dalle mie e un amore fraterno anche per i miei avversari. Perché la vita è breve e allora devo sempre perdonare in fretta, amare e rispettare tutti, ridere sempre di gusto e mai pentirmi di qualsiasi cosa mii abbia fatto sorridere, oppure piangere. Perché l’essenza della vita non può essere espresso in parole. È qualcosa che si sente in certi momenti: quando incontro i miei simili, o a un albero che mi incanta con la sua bellezza, o quando si è in completa comunione con me stesso e la Natura. Il significato della vita è un’esperienza, non un concetto che si può scrivere e non la posso fermare nel tempo.
Favria, 24.09.2015 Giorgio Cortese

Ogni giorno posso dipingere la mia vita a colori o in bianco e nero, dipende solo da me, dalle mie scelte di vita, dalla voglia di conoscere, esplorare, cambiare che c’è in me.

L’apostrofo dispettoso, Titivillus
Oggi parlo di asini. In senso proprio e in senso figurato, nel senso degli animali e nel senso degli esseri umani. Dalla parte degli animali, sempre. Infatti, come si fa a non amare questo simpatico quadrupede, non fosse altro che per solidarietà con la sua vita non certo facile, maltrattato e angariato come è sempre stato. Per quanto riguarda gli esseri umani poi, ce ne sono di simpatici e ce ne sono di detestabili. Ma non sarei coerente e credibile se non cominciassi da me medesimo. Quando pubblico degli strafalcioni ho voglia a dire che si tratta di laspsus calami o da currenti calamo, come nel mio caso affetto da scrittura compulsiva. Oppure chiamare un causa Titivillus, diavolo che nel Medioevo si credeva lavorasse alle dipendenze di Belfagor, Lucifero o Satana per indurre in errore i copisti. Oggi accusato di tutti i refusi della scrittura elettronica. Purtroppo oggi giorno l’apostrofo viene bistrattato. Usato nelle lingue scritte in alfabeto latino ha una simpatica storia. La parola deriva dal lemma tardo latino apostrophus, che deriva da un lemma greco con il significato di volto indietro, volgere altrove. Come segno grafico è una virgoletta in alto, ed in italiano viene utilizzato per eliminare la vocale finale di una parola che precede un’altra parola che inizia per vocale. Tecnicamente questa operazione si chiama elisione. L’apostrofo era un segno noto già nell’antichità. Certo, se si considera che l’abitudine di scrivere separando le parole si è diffusa intorno al IX secolo, diventando consueta solo dall’XI secolo in poi. Pensate che già i greci avevano l’abitudine di introdurre l’apostrofo alla fine di parole straniere e come segnale di fine paragrafo, capitolo o libro. Nei testi dei grammatici latini si trovano indicazioni sull’apostrofo, solitamente collocato tra gli accenti. Risulta complesso tracciare la storia dell’apostrofo nei secoli di trapasso dal latino al volgare come lingua scritta. La prima comparsa dell’apostrofo in un testo volgare a stampa in Italia si trova nell’edizione del dialogo latino del Bembo del 1496. Questo segno, però, non si diffuse facilmente anche se nel Cinquecento, secolo della stampa, c’è la faticosa affermazione dell’apostrofo, chiamato il rivolto, che si pone ogni volta, che si leva la vocale. Solo nel 1691 la Crusca registra la parola apostrofo come lemma. Solo nell’Ottocento si trova la conclusiva normalizzazione delle regole dell’apostrofo, la cui applicazione resta, però, spesso guidata dal gusto, soprattutto in poesia. Oggi l’apostrofo attraversa una nuova fase critica. Permane l’incertezza dopo l’articolo indeterminativo a seconda che segua un maschile o un femminile e le aferesi marcate da apostrofo sono in netto declino. Ma così va la vita, O quam cito transit gloria mundi!.
Favria, 26.06.2015 Giorgio Cortese

Rispetto alla memoria, le foto hanno un dono prezioso, quello di ricordarmi la vita com’era sul serio e non come la ricostruisco a mio piacimento con i filtri benevoli della nostalgia.